AJAR NON ESISTE

Il doppio, il dibbuk e le ossessioni identitarie

 

Nel 1981 Bernard Pivot rivelò che Émile Ajar e Romain Gary erano la stessa persona. Uccidendosi, Romain Gary aveva ucciso anche Émile Ajar: il primo suicidio letterario senza consenso.

Nel 2022 inizia una nuova storia, a firma di Delphine Horvilleur: l'incontro con Abraham Ajar che si dichiara figlio di Émile Ajar, figlio di un padre fittizio, figlio di un libro. Egli sfida il mondo con acidità dal fondo della sua cantina, questo "buco ebraico", come lo chiama lui, mette in discussione la contemporaneità e con umorismo invita a ridere dei dogmi, delle nostre identità e delle nostre certezze.

Abraham, il figlio di Émile Ajar, il trucco letterario usato da Romain Gary per pubblicare La vita davanti a sé, parla.

Si rivolge a un misterioso interlocutore per rivisitare l'universo dello scrittore ma anche quello della Kabbalah, della Bibbia, dell'umorismo ebraico e degli attuali dibattiti politici su nazionalismo, identità e appropriazione culturale.

Alcune persone pensano che si scriva per liberarsi di qualcosa o di qualcuno che ci perseguita, ma è il contrario. Si scrive sempre per conservare, e continuare un dialogo con ciò che non c'è più, un dialogo che altrimenti la vita ci costringe a interrompere. Scriviamo perché le parole rafforzano sempre i legami. Fa famiglia, molto più solidamente del sangue e della filiazione biologica.

Esistono persone, poi, che sono in grado di descriverti tutto quello che è successo loro, di raccontarti un dettaglio dell'incendio dell'Inquisizione, un pogrom lituano, e contare i morti, al milione più vicino. Ricordano miliardi di cose che tutti gli altri hanno dimenticato. Tutto è registrato, registrato, commemorato... tranne un piccolissimo dettaglio: il nome di D-o...

Ed ecco il risultato: ci sono milioni di persone che cercano nella Bibbia, nei Vangeli e nel Corano una giustificazione per tutti i loro consolidamenti identitari, la formula magica di ogni cosa, un legittimo atto di proprietà per essere veramente se stessi. Si aggrappano al loro libro come a un test del DNA, che li ancorerebbe da qualche parte. Qualcosa che li fisserebbe nell'esistenza.

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«Due uomini sono morti e per di più erano uguali»: quando lo scrittore Romain Gary si tolse la vita, nel 1980, uccise anche il sosia che si era inventato e in cui tutti credevano, Émile Ajar.

Delphine Horvilleur immagina quindi la storia di Abraham Ajar, ebreo, musulmano e cristiano, figlio fittizio di Émile Ajar, egli stesso scrittore inventato dal vero romanziere Romain Gary. Partendo dal principio che siamo prima di tutto i figli dei libri che abbiamo letto, Delphine Horvilleur ci invita a fare un passo verso l'estraneo che è dentro di noi.

Non è un testo (portato anche a teatro) sull'identità, ma un monologo contro l'identità, attraverso quella di un personaggio indefinibile che rivendica la sua non esistenza: lui, figlio fittizio di una vera e propria mistificazione letteraria, si offre di definire diversamente la realtà.

Scrivere è una strategia di sopravvivenza. Solo la finzione del sé, la reinvenzione permanente della nostra identità è in grado di salvarci, perché l'identità fissa, quella di chi ha finito di dire chi è, rappresenta la morte della nostra umanità. 

 

Delphine Horvilleur, narratrice e rabbino, manipola l'umorismo ebraico con una raffinatezza furiosa. 

Scrive in un libro e compone per il teatro il monologo esplosivo del figlio immaginario dello scrittore Romain Gary e di Émile Ajar, lui stesso doppio immaginario del primo. 

Abraham Ajar, discendente inventato dell'autore di La vita davanti a sé, alias Gary/Ajar, parla. Diventa pitone o topo bianco, padrone o schiavo, donna o uomo, cristiano, ebreo o musulmano. Scopre se stesso e mille altri sé allo stesso tempo, in uno specchio teatrale piantato davanti al nostro inconscio, come un essere indefinibile, in un mondo e in un tempo che li esaspera tutti.

 

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Prima di Biancaneve, prima del Gatto con gli Stivali, prima dei Sette Nani e della Fata Carabosse, Nina Kacew, la madre dello scrittore Romain Gary, al secolo Romain Kacew, sussurrò al figlio i nomi della vasta schiera di nemici contro i quali un uomo degno di questo nome deve battersi.

C’era prima di tutti Tatoche, il dio della stupidità, metà scimmia e metà intellettuale. Nel 1940 era il cocco e il teorico dei tedeschi, dopo si è appollaiato sulle spalle dei nostri scienziati, e a ogni esplosione nucleare la sua ombra si fa un po’ più alta sopra la terra.

C’era Merzavka, il dio delle certezze assolute, una specie di cosacco ritto sopra cumuli di cadaveri; ogni volta che uccide, tortura e opprime in nome delle sue verità religiose, politiche o morali, la metà del genere umano gli bacia le scarpe con commozione.

C’era Filoche, il dio della meschinità, dei pregiudizi, del disprezzo, dell’odio che, affacciato alla guardiola della portineria, all’ingresso del mondo abitato, grida: «Sporco americano, sporco arabo, sporco ebreo, sporco russo, sporco cinese, sporco negro…».

E vi sono numerosi altri dei, più misteriosi e più loschi, più insidiosi e nascosti, difficili da identificare…

 

Già compromesso dal suo rapporto simbiotico con la madre, impregnato ogni giorno dall'idea di un "sé puro" e di un'appartenenza "autentica" alla nazione, all'etnia o alla religione, soffocato, da anni, anche da uomo, Romain Gary elabora, per sopravvivere, una sua chiave segreta per l'emancipazione da questo tutto – amato e insieme insopportabilmente opprimente: Émile Ajar.

E così, firmato da Romain Gary con lo pseudonimo di Émile Ajar, apparve Pseudo, nel 1976, un anno dopo la vittoria al Goncourt del romanzo che ha per indimenticabile protagonista Momo, il ragazzo della banlieue di Belleville .
Gary aveva già contribuito a rendere verosimile la sua beffa segreta – aveva già vinto il Goncourt nel 1956 con Le radici del cielo e il regolamento del concorso non gli consentiva una seconda vittoria – convincendo Paul Pavlowitch, giovane figlio di una cugina, a impersonare Émile Ajar.

Pavlowitch si immedesimò talmente nel ruolo da interpretarlo alla luce del sole, rilasciando interviste, arrivando persino a occupare un posto da editor presso Mercure de France – la casa editrice delle opere di Ajar – e disperdendo (apparentemente) le nubi del mistero.

Quando qualche giornalista scoprì la sua parentela con Romain Gary, il vero autore de La vita davanti a sé non si scompose. Decise un azzardo più grande. Scrisse e pubblicò, sempre sotto l’identità di Ajar, questo libro in cui inventò uno zio violento, tirannico e manipolatore che gli somigliava: Tonton Macoute. L’azzardo venne ricompensato. Tutti i critici lo riconobbero nel personaggio di Tonton Macoute. A nessuno, però, venne in mente che Romain Gary potesse essere Émile Ajar. Alla pubblicazione dell’opera, il recensore dell’Express parlò, anzi, di «un libro vomitato frettolosamente da un giovane scrittore diventato famoso e montatosi la testa».
In realtà Pseudo, cui Gary aveva lavorato da quando aveva vent’anni, è uno straordinario libro sui meandri della creazione letteraria e, in virtù di questo, una delle opere maggiori dell’autore de La vita davanti a sé.
Con un andamento tumultuoso di monologhi, flussi di coscienza e stili, registri e personaggi presi dalla realtà e trasfigurati, Romain Gary appronta in queste pagine la sua «difesa Ajar», la difesa di uno pseudonimo che è, contemporaneamente, la difesa della letteratura come aperta dissimulazione della realtà.

Come scrisse nel suo libro-testamento, pubblicato postumo, Vita e morte di Émile Ajar: «in Pseudo (…) ogni cosa è romanzo».

Persino il suo autore.

 

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«Mi sono davvero divertito. Arrivederci e grazie»: così scrisse Romain Gary, in una lettera indirizzata al suo editore, Gallimard, poco prima di togliersi la vita. Con una vera e propria «poetica del fare pseudo», cioè divenire un personaggio che non si appartiene mai, inafferrabile, sempre altro sia a se stesso sia da se stesso, Émile Ajar, Romain Gary stesso, pseudonimo di Roman Kacev, non sono altro, da questo punto di vista, che nomi di questa poetica, tentativi, cioè, di uscire dall’«impostura dell’esistenza» reale e di vivere la propria autentica esistenza nella verità della letteratura.

Si aggiunga che Ajar non fu l’unico pseudonimo di Romain Gary (Kacev); egli aveva, infatti, anche scritto un romanzo poliziesco-politico, Le teste di Stéphanie, con il nome di Shatan Bogat e una allegoria satirica, L'uomo con la colomba, firmata Fosco Sinibaldi (sin- sostituisce gar- in Gar-ibaldi).

Grazie al suo spirito di mistificazione (Gary e Ajar significano rispettivamente "brucia!" e "brace" in russo; alcune frasi si trovano identiche negli scritti di entrambi gli autori), Romain Gary fu l'unico scrittore a ottenere due volte (cosa impossibile per statuto del Premio in questione) il Premio Goncourt. La prima volta nel 1956 con il suo pseudonimo usuale, per Le radici del cielo, e la seconda volta nel 1975 con lo pseudonimo di Émile Ajar, per La vita davanti a sé.

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Ossessioni identitarie, tribalismi esclusivi e competizioni tra vittime, tutto quotidianamente viene sbranato da coloro che difendono l'idea di un "sé puro", e di un'appartenenza "autentica" alla nazione, all'etnia o alla religione. Stiamo soffocando, eppure, da anni, un uomo detiene, secondo Delphine Horvilleur, una chiave per l'emancipazione: Émile Ajar.

E quest'uomo non esiste... È un trucco letterario, è il nome che Romain Gary ha usato per dimostrare che non siamo solo ciò che diciamo di essere, che c'è sempre la possibilità di reinventarsi con la forza della finzione letteraria e con la possibilità offerta dal testo di scivolare nei panni di qualcun altro.

Nel testo Il n’ya pas de Ajar, un uomo (interpretato sul palcoscenico da una donna...) afferma di essere Abraham Ajar, figlio di Émile, figlio di un trucco letterario. Chiede così al lettore/spettatore che lo visita in una cantina, il famoso “buco ebraico” di La Vie avant soi: sei figlio della tua stirpe o figlio dei libri che hai letto? Sei sicuro dell'identità che affermi di incarnare?

Parlando direttamente a un misterioso interlocutore, Abraham Ajar rivisita il mondo di Romain Gary, ma anche quello della Kabbalah, della Bibbia, dell'umorismo ebraico... e anche dei dibattiti politici di oggi (nazionalismo, trans identità, antisionismo, ossessione per il genere o politica delle identità, appropriazione culturale, etc.).

Il testo dell'opera è preceduto da una prefazione di Delphine Horvilleur su Romain Gary e la sua opera.

In ogni libro di Gary si nascondono i "dibbuk", i fantasmi che scappano dalle antiche storie yiddish, quelli di una madre i cui sogni lo hanno costruito, quelli di un padre di cui inventa l'identità, con i fantasmi di un'Europa distrutta e le ceneri della Shoah, e l'ingiunzione di essere un “mensch”, un uomo al culmine della Storia.

E Romain Gary diviene il personale dibbuk di Delphine Horvilleur.

Lei scrive: «Avevo 6 anni quando Gary si è suicidato, l'età in cui stavo imparando a leggere e a scrivere. Mi è sembrato spesso, nella mia vita di lettrice e poi di scrittrice, che Gary fosse uno dei miei personali "dibbuk"... E che io continuassi a riscoprire ciò che ha saputo dimostrare magistralmente: la scrittura è una strategia di sopravvivenza. Solo la finzione dell'io, la reinvenzione permanente della nostra identità è in grado di salvarci. L'identità fissa, quella di chi ha finito di dire chi è, è la morte della nostra umanità».

E ha immaginato un monologo di Romain Gary (alias…) contro l'identità, il monologo di uno/a che sul palco attacca violentemente tutte le ossessioni del momento. Con la fascinazione per l'unico scrittore che ha saputo vincere due volte il Premio Goncourt, attraverso un sotterfugio che suscita indignazione e ammirazione insieme, Delphine Horvilleur ci parla dell'identità, di cosa significa e di cosa comporta.

Segue una breve ma vivace riflessione sulla nozione di identità, sull'ebraicità, sul fondamentalismo, sul razzismo e persino sull'epigenetica.

Grande ammiratrice di Romain Gary, l'autrice dedica la prima parte del suo libro agli strettissimi legami "intellettuali" che la legano a questo scrittore e al suo pensiero. Evoca la natura degli scambi che avrebbe voluto avere con lui, accennando al fatto che il suo rifiuto di ridursi a un'identità, in particolare alla sua ebraicità, "lo rende un autore molto ebreo", e quanto questo aspetto della sua personalità tuttavia penetri, consapevolmente o meno, nelle sue scelte e nei suoi testi. 

Il rifiuto di Gary di lasciarsi definire da un'identità o da un'unica definizione di sé ha molto a che fare, secondo Horvilleur, con la sua ebraicità. In un certo senso, la sua sfida all'identità lo rende un autore molto ebreo… per fare in modo che tu non sia mai completamente te stesso, rendendo straniero il tuo posto in te stesso. Sapendo in questo modo, ovunque tu sia, che non sarai mai completamente a casa.

Insomma, in ebraico, puoi "essere stato" e puoi "essere in divenire", ma non puoi assolutamente essere... né binario, né non binario, né uomo, né donna.

Sei stato e diventerai, ma sei necessariamente nel mezzo della tua mutazione.

Barbara de Munari