PREFAZIONE

di Barbara de Munari

 

       Ciò che caratterizza il profeta è una vocazione particolare, soprannaturale e imperativa, che lo rende atto, mediante una forma di rapporto diretto con la divinità, a penetrarne le intenzioni e i disegni e che lo obbliga a renderli noti. Il profeta è essenzialmente un mistico.

       Così definita, la missione profetica costituisce una delle manifestazioni più chiare dell’individualismo religioso: l’esaltazione di una personalità “invasa” dallo spirito religioso.

       L’importanza del fenomeno varia molto, secondo i tipi di religione: il profetismo mal si adatta al principio di autorità in materia di religione e, più in generale, alla rigidità di una religione essenzialmente sociale e tradizionalista, così come al formalismo religioso. Esso suppone, al contrario, la libertà dell’ispirazione spontanea, una certa forma d’individualismo religioso e caratterizza, in genere, quello che si può definire lo stadio “giovane” delle religioni. Il contrasto tra le religioni d’autorità e quelle d’ispirazione – cioè a forma profetica – esprime, più che un’opposizione tra i sistemi religiosi considerati, momenti diversi dell’evoluzione religiosa.

     Anche le religioni a forte carattere nazionale o sociale (le religioni dell’antichità classica e dell’Oriente antico) presentano una forte sussistenza di profetismo, sotto una forma che è stata definita profetismo diretto. Invece che un dono, essenzialmente individuale, esso è una funzione, spesso collettiva, detenuta sovente in maniera esclusiva da una casta sacerdotale, a volte anche ereditaria in essa.

       In questo caso, il profetismo non si oppone al principio di autorità ma è messo al suo servizio, sia come attributo di un corpo sacerdotale unico – come i Druidi nella religione dei Celti – sia come funzione particolare di un corpo specializzato e generalmente subalterno, come nel caso degli auguri e degli aruspici della religione romana. A questo stesso tipo di profetismo appartengono sia il personale addetto a un santuario particolare e incaricato dell’interpretazione di un oracolo (come ad esempio a Delfi o a Tebe) o di un documento rivelato (i Libri sibillini), sia tutte le forme di divinazione e di mantica.

       Tuttavia, viene meno l’essenza del vero profetismo, la libertà e la spontaneità dell’ispirazione e del vaticinare, il carattere personale e imperativo della missione. L’acquisizione e l’uso di una tecnica si sostituiscono alla vocazione; un oggetto s’interpone tra il dio e il suo profeta, che, invece di ricevere per comunicazione diretta i voleri divini, deve penetrarli e interpretarli, divenendo dunque non più un profeta, ma un indovino. Quando, in questo stadio dell’evoluzione religiosa, sorge un vero profeta, il più delle volte egli si pone ai margini della religione ufficiale o contro di essa.

       Ma i profeti per eccellenza sono i grandi fondatori o riformatori delle religioni; essi hanno un temperamento fortemente mistico, unito alla foga e alla capacità di agire. Già ai tempi di Mosè è descritta una manifestazione di profetismo collettivo, di tipo “entusiastico”, designato con il termine nābhī’ (Numeri, XI, 24 ss.), che è affine al profetismo dei tempi di Saul (I Samuele [Re], X, 5 ss.; XIX, 20 ss.), e poco dopo l’istituzione della monarchia, sotto Saul e specialmente sotto David, iniziò a prevalere l’uso del termine “profeta” (nābhī’), in relazione ai mutamenti sociali e religiosi che subiva contemporaneamente il popolo ebraico.

       Manifestazioni affini al profetismo ebraico si riscontrano presso altri popoli semitici dell’antichità. Babilonia aveva il bārū, cioè il “veggente”, che praticava la divinazione e annunciava il volere del dio, e di cui esistevano corporazioni ereditarie che costituivano una vera professione. L’Arabia antica aveva il kāhin, il “divinatore”, (differente quindi, per significato, dall’ebraico kōhen, “sacerdote”), il quale prediceva il futuro e annunciava l’oracolo divino. Peraltro queste manifestazioni si presentano come veri mestieri o professioni, esercitati per lo più ereditariamente e in uno stato psichico normale, lontano da ogni manifestazione o condizione entusiastica o parossistica.

       Le persone soggette a queste manifestazioni erano “profeti” nel vero senso etimologico del termine, cioè “parlatori in luogo” del rispettivo dio, di cui essi si presentavano come interpreti o strumenti vocali. La previsione e la predizione del futuro potevano entrare nella loro professione, ma non ne erano che conseguenze, poiché essi si affermavano come araldi della divinità tanto per il futuro, quanto per il presente o per il passato.

       Nella lunga e documentata storia del profetismo ebraico esistono manifestazioni e tipi differenti di esso, pur nelle stesse epoche. Mosè è definito dalla tradizione ebraica come il sommo profeta di Israele (Deuteronomio, XXXIV, 10) e viene da essa presentato come il legislatore calmo e lucido della prima organizzazione nazionale; eppure, ai suoi tempi, la stessa tradizione riporta manifestazioni di profetismo collettivo di tipo “entusiastico” (Numeri, XI, 24 ss.).

       All’epoca dei Giudici appartengono la profetessa Deborah e il profeta Samuele, che dettano norme occasionali o generali in stato psicologico calmo e lucido; tuttavia, ai loro stessi tempi, esistevano le corporazioni profetiche, i cui membri profetizzavano collettivamente esaltandosi con musiche e canti, compiendo atti ritenuti altamente eccentrici anche dai loro contemporanei, e le cui manifestazioni erano presiedute dallo stesso Samuele (I Samuele [Re], X, 5 ss.; XIX, 20 ss.).

       Più tardi ancora, negli stessi profeti considerati classici nella tradizione ebraica, o anche in quelli di cui possediamo gli scritti (e attraverso questi è possibile analizzarne l’animo in chiara luce storica), rimangono evidenti tracce di stato profetico “entusiastico” o testimonianze nette di atti giudicati eccentrici anche dai contemporanei.

       Elia, l’avversario dei frenetici profeti di Baal, percorre velocemente la distanza di molte miglia dal Carmelo a Iezrael, facendo da battistrada al cocchio del Re Acab (I [III] Re, XVIII, 46); alla musica ricorreva il profeta Eliseo per entrare in stato profetico (II [IV] Re, III, 15). Le azioni e i comportamenti eccentrici erano così abituali anche in profeti di solito calmi e lucidi – basti ricordare le azioni di significato simbolico compiute da Osea, da Geremia e anche dal tardo Ezechiele – che più volte nella Bibbia si usa chiamare mĕshuggā’, “forsennato”, “squilibrato”, un profeta peraltro autorevole e rispettato.

       In considerazione della scarsezza di documenti per i tempi più antichi, si può pensare che, originariamente, il profetismo ebraico fosse di tipo calmo e lucido, come le analoghe forme presso i Babilonesi e gli Arabi primitivi. Verosimilmente, per quanto non testimoniato, poteva essere di tale tipo anche il più antico profetismo dei Cananei, presso i quali, invece, il tipo “entusiastico” e “frenetico” pare fosse l’effetto dell’influenza esercitata su di essi dal culto orgiastico della Grande Madre (Cibele) che, a nord di Canaan, in Asia Minore e nella Siria Occidentale, era predominante dai tempi più remoti.

       Anche il cambiamento di terminologia presso gli Ebrei, per cui l’appellativo di “veggente” (rō’eh) fu sostituito con quello di “profeta” (nābhī’), potrebbe essere messo in relazione con le nuove condizioni sociali degli Ebrei; questo popolo, divenuto sedentario da nomade che era prima, ed entrato in contatto diretto con i Cananei e con il loro profetismo, in parte ne subì l’influenza e in parte reagì contro di esso, in virtù del suo jahvismo. 

       La storia del profetismo ebraico si divide essenzialmente in due periodi: quello del profetismo antico, e quello successivo dei profeti scrittori dei quali ci sono giunte le composizioni letterarie. Del primo periodo, che arriva sino a circa il secolo VIII a.C., siamo informati con minore precisione; le grandi figure che vi campeggiano sono psicologicamente appena abbozzate e non sappiamo molto in merito al processo spirituale interiore che accompagnava il loro ministero spirituale.

       In questo periodo era prevalente il tipo di profeta “entusiastico”, come Elia ed Eliseo. Inoltre, un’istituzione caratteristica di questo periodo e prolungatasi anche nel successivo, è quella delle corporazioni dei profeti. I membri di queste corporazioni sono designati nella Bibbia con l’appellativo di “figli dei profeti” – dove il termine “figlio” ha il significato, frequente in ebraico, di “appartenente a” una casta, una corporazione, etc. (vedi in Neemia, III, 8, 31, i “figli dei profumieri”, i “figli degli orefici”, cioè i membri delle rispettive corporazioni).

       Non si tratta di “scuole di profeti”, perché non erano adunanze che mirassero ad apprendere o diffondere il fenomeno del profetismo, ma di una vera e propria corporazione, o casta sociale, che era in parallelo a quelle puramente economiche dei vari mestieri (profumieri, orefici, fornai, etc.) e ad altre di tipo parentale- congregazionista, quale quella dei Recabiti. Questi “figli dei profeti”, infatti, vivevano con le loro mogli e i figli e, sembra, anche in una specie di comunanza economica. Quello che è certo, tuttavia, è che in queste corporazioni i membri si esercitavano nell’atto profetico e lo provocavano o favorivano – come Eliseo – con la musica (I, Samuele [Re], X, 5).

       I fenomeni psichici che accompagnano le manifestazioni profetiche collettive di queste corporazioni, non sono solo “entusiastici” e spingono ad azioni eccentriche, ma sono anche “contagiosi” e si propagano a spettatori estranei e alieni dal parteciparvi; i messi di Saul e Saul stesso sono “contagiati”, contro voglia, dal fenomeno psichico di una manifestazione profetica collettiva, e Saul si spoglia nudo, “profetizzando” con tanta veemenza da restare poi giacente a terra, nudo, prostrato, per un giorno e una notte interi.

       Le corporazioni dei “figli dei profeti”, nella storia dell’ebraismo antico, sono molto potenti anche in campo civile tanto che nel regno settentrionale la dinastia di Jehu poté avere il sopravvento su quella precedente, di Amri, e soppiantarla, grazie all’appoggio esplicito dei circoli profetici.

       Questo periodo di potenza provocò naturalmente la comparsa dei profittatori che, senza essere investiti del vero fenomeno profetico, si spacciavano per veri profeti, imitando empiricamente le varie manifestazioni psichiche, e in particolare quelle più eccentriche, più  adatte a colpire la fantasia. Questi pseudo-profeti rappresentarono un grandissimo ostacolo per l’attività dei profeti genuini, e in particolare di Geremia.

       Poteva anche accadere che un “figlio di profeta” non fosse investito del vero fenomeno profetico, così come poteva accadere che il vero fenomeno profetico si manifestasse inaspettatamente in chi non era “profeta né figlio di profeta”, come dice di sé Amos, che non aveva mai pensato di esercitare la professione profetica né a entrare nella relativa corporazione. In questo senso, gli pseudo-profeti uscivano dalle file di quei “figli dei profeti” che restavano delusi nella loro aspettativa. Nel periodo successivo, quello dei profeti scrittori, il fenomeno andò perdendo sempre più il carattere “entusiastico” e scomparve l’uso di impiegare la musica o altri mezzi artificiosi per provocarlo; rimase invece fino all’epoca più tarda, con Geremia ed Ezechiele, l’uso di ricorrere ad azioni eccentriche di significato simbolico.

       Sul carattere del profetismo ebraico, sull’intima natura di questo fenomeno psicologicamente oscuro e storicamente incontrollabile, si può dire che il suo carattere morale, sia dell’antico profetismo sia del nuovo, si riassume nei due capisaldi: fede e culto spirituale dell’unico dio Jahweh; pratica della giustizia individuale e sociale in virtù della religione di Jahweh.

       Del primo caposaldo rendono testimonianza moltissimi episodi dell’antico profetismo: ne è una prova, ad esempio, quasi tutta l’attività di Elia. Così anche del secondo caposaldo, sempre nel profetismo antico, esistono prove eloquenti: ad esempio, il profeta Nathan rinfaccia al re David il suo adulterio con Bethsabea e la sua ingiustizia nei confronti di Uria; mentre il profeta Elia redarguisce il re Acab per il suo misfatto ai danni di Naboth. Spesso, poi, i due capisaldi si compenetrano: ad esempio, il profeta Achia predice a Geroboamo che succederà a Salomone nella maggior parte dei suoi dominii, in punizione dell’idolatria di Salomone, ma anche del suo fiscalismo oppressivo che gli aveva alienato gli animi di moltissimi sudditi.

       Per il successivo periodo, dal secolo VIII a.C. in poi, siamo certamente meglio informati dagli scritti del contemporaneo profetismo pervenuti fino a noi, nei quali troviamo preziose allusioni alle vicende individuali – storiche esterne e psicologiche interne – della missione profetica. Ne risulta che la figura del profeta del nuovo periodo è più precisa, più matura, di quella del profeta del periodo antico, ma i suoi capisaldi sono sempre i due tradizionali: monoteismo jahvistico e giustizia morale.

       A questo solenne binomio si riduce, in ultima analisi, l’attività del profeta ebraico.

       Di questa legge, nel suo duplice aspetto, il profeta era il “banditore” fra la società ebraica e l’applicazione ai singoli casi. In mezzo a quella società, essenzialmente teocratica, si faceva avanti il profeta, affermando che veniva da parte di Jahweh e per “parlare in luogo di lui”; da qui anche la sua autorità presso i suoi ascoltatori, i quali, come membri di una società teocratica, non potevano negare credito – almeno in teoria – al “parlatore in luogo del” dio nazionale. Nulla perciò – sempre in teoria – sfuggiva alla sua autorità spirituale. Davanti a lui i re e i sacerdoti di Jahweh non valevano più del pastore che adorava Jahweh pascolando il suo gregge; la reggia e il tempio di Gerusalemme potevano riecheggiare delle invettive di un profeta che rinfacciava abusi e corruzione; il profeta poteva presentarsi improvvisamente in una festività pubblica e proclamare castighi divini, rinfacciando a tutti i comuni delitti o la colpevole negligenza per il decoro del tempio.

       Il profeta era, infatti, l’uomo di Dio. Ciò che diceva era un detto di Dio stesso, era un oracolo di Jahweh, la parola di Jahweh. Queste espressioni, frequentissime negli scritti dei profeti, erano come un insistente appello al principio che giustificava la loro missione e su cui si fondava la loro autorità e, perciò, chi ascoltava loro ascoltava Dio (Luca, X, 16).

       Ma se tutto ciò era ben chiaro in teoria, sia nella coscienza dei profeti sia in quella di quasi tutti i loro ascoltatori, in pratica le cose andavano differentemente. I profeti autentici, a differenza degli pseudo-profeti, furono spesso in contrasto con l’opinione pubblica, in forza appunto della loro missione. Quando la purezza della religione jahvistica era inquinata da culti sincretistici e da pratiche idolatriche, il profeta malediva quelle pratiche in nome di Jahweh; quando il popolo riponeva una fiducia feticistica su oggetti e riti liturgici – quali l’Arca, il tempio, i sacrifici, la circoncisione, etc. – il profeta proclamava che tutte queste cose non valevano nulla per se stesse e potevano essere distrutte e abolite da Jahweh, che ricercava attraverso di esse lo spirito e la purezza di cuore e preferiva al sacrificio di animali l’aiuto alla vedova e agli orfani, e alla circoncisione materiale quella morale del cuore; quando, a scapito del carattere nazionale – religioso del popolo di Jahweh, si stringevano alleanze con potenti regni idolatrici, e quando agli austeri costumi del puro jahvismo subentrava la corruzione morale dell’individuo e dunque della società, il profeta interveniva, esecrando quelle alleanze, denunciando la corruzione, annunciando gli imminenti castighi divini sugli individui e sulla società.

       Naturalmente, questa incessante censura dava fastidio e spesso, nonostante la sua indiscussa autorità morale, il profeta veniva ucciso: il parlatore in nome di Dio proseguiva imperturbabile a parlare, minacciando ed esecrando, e il popolo, a un certo punto, fingeva di dimenticare il carattere e la natura di quel parlatore e lo lapidava o lo rendeva oggetto di continue persecuzioni. “Quale dei vostri profeti i vostri padri non perseguitarono?” domanda Stefano ai Giudei di Gerusalemme (Atti, VII, 52).

       Era nota la prospettiva che attendeva il profeta nella sua missione e ciò può spiegare la titubanza o la riluttanza di qualche profeta ad assumere la missione profetica. Amos mostra stupore per essere stato scelto come profeta, da mandriano qual era; Giona manifesta una vera riluttanza alla missione profetica; Geremia si lamenta del peso del suo compito, vorrebbe quasi liberarsene, e chiama Dio il suo “seduttore” (Geremia, XX, 7-9). Però poi tutti si arrendono, perché la “parola di Jahweh”, che costituiva l’impulso della loro missione, era “nel cuore come un fuoco divoratore, racchiuso dentro le ossa” (Geremia, XX, 9), cui nessuno poteva sottrarsi. Poiché “… se il Signore Jahweh parla, chi non profetizzerà?” (Amos, III, 8).

       I profeti furono dunque gli incessanti rettificatori di quanto allontanava il popolo ebraico dal suo genuino jahvismo. Quanto vi fu di più nobile nell’ebraismo fu salvato principalmente dai profeti e da essi trasmesso alle epoche successive. Di questa somma importanza spirituale erano consci i profeti, ma anche il popolo, tra l’uno e l’altro di quei suoi scatti furiosi che finivano con la lapidazione del profeta. I profeti avevano più volte paragonato la loro missione a quella delle vedette che dall’alto delle torri spiano il nemico, o delle sentinelle notturne che vigilano sulla sicurezza dell’accampamento; così il popolo sapeva per esperienza che, nei momenti decisivi della vita nazionale, compariva inesorabile il profeta, che redarguiva, minacciava, correggeva, esortava. Fu così che quando, con il tramonto del profetismo, quelle voci si udirono sempre più raramente e poi tacquero, il popolo rimase smarrito, e ripensò a loro con desiderio accorato, e ne venerò sempre più la memoria e i sepolcri.

       L’ultimo profeta di cui ci sono pervenuti gli scritti con attribuzione certa è Malachia, che visse a Gerusalemme nella metà del V secolo a.C.. A quel tempo il profetismo ebraico era in pieno declino, anche se non ancora tramontato; il posto del profeta era sempre più occupato dallo scriba e il ruolo del legislatore spirituale era sempre più sostituito dal quello del codificatore di leggi. Al tempo dei Maccabei il profeta era del tutto scomparso in Israele. Se ne conservava il ricordo passato e la speranza futura, poiché si riteneva che Jahweh non avrebbe abbandonato per sempre la sua nazione prediletta e che il massimo fra i profeti, il “profeta” per eccellenza, sarebbe arrivato nella maturità dei tempi messianici – dai quali si attendevano grandiose restaurazioni nazionali.

       Nel 140 a.C. il popolo di Gerusalemme volle mostrare la sua riconoscenza alla famiglia dei Maccabei per tutto ciò che essa aveva fatto per il bene della nazione: elesse Simone, unico superstite della famiglia, a “sommo sacerdote in eterno, fino a che sorgesse un profeta fedele” (I, Maccabei, XIV, 41). A Simone fu concessa la somma potestà civile e religiosa, ma non gli fu concessa la potestà regia, perché era tradizione nel giudaismo che di tale dignità fosse depositaria la stirpe di David – da cui doveva uscire il futuro “profeta fedele”, cioè il Messia.

       Nel contesto biblico, i profeti possono anche prevedere il futuro, infatti il profeta Isaia parla molto del futuro, però questa non è l’essenza del suo ruolo. L’essenza del ruolo in senso biblico è che il profeta è qualcuno che “parla nel nome di Dio”.

       Il rapporto tra Dio e il suo popolo è basato su un’alleanza: “Il patto”. Il profeta è qualcuno che richiama il popolo di Dio a rispettare i termini dell’alleanza, lo ammonisce e lo esorta a rispettare l’alleanza stabilita da Dio. Lo sfondo del libro di Isaia, ad esempio, è il libro del Deuteronomio, che è la base della letteratura profetica poiché è il libro del patto dell’alleanza, con le promesse di fedeltà, le benedizioni e le maledizioni che il popolo di Israele riceverà da Dio sulla base del suo agire. Dato che il più delle volte Israele è infedele al Signore, il ruolo del profeta è proprio quello di accusare il popolo.

       Le parole pronunciate da Isaia si collegano a quelle riportate dal Deuteronomio e fanno capire chiaramente che siamo come in un processo: Dio fa un processo giudiziario al suo popolo, questo è l’elemento importante sa considerare sulla profezia del libro di Isaia (Isaia 1:18): “ Venite quindi e discutiamo assieme, dice l’Eterno, anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve; anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana”. “Discutiamo”, in termini ebraico – giuridici, significa “presentiamo la nostra causa” (Isaia 34:8): “Poiché è il giorno della vendetta dell’Eterno, l’anno della retribuzione per la causa di Sion”; (Isaia 41:11): “Ecco, tutti quelli che si sono infuriati contro di te saranno svergognati e confusi; quelli che combattono contro di te saranno ridotti a nulla e periranno”.

       Questa è la prima idea generale: un profeta è un “procuratore” da parte di Dio, che richiama il popolo a rispettare l’alleanza ed è questo ciò che fa Isaia.

       La seconda idea generale è quella di evitare, quando si legge l’Antico Testamento, di leggerlo come se fosse un libro di storia. Non è un libro di storia, è molto lacunoso, e parla di un antichissimo popolo abitante nell’Oriente antico. Non esistono libri storici nella Bibbia, ma “libri profetici”, nel senso che ci troviamo sempre nel contesto dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Dobbiamo leggere il libro profetico a scopo teologico, se vogliamo capire quello che Dio ha da dire sul concetto dell’alleanza.

       Peraltro si deve anche evitare l’errore opposto, quello di spiritualizzare la Bibbia, senza tenere conto del contesto storico, perché i libri profetici sono comunque radicati in un contesto storico, anche se molto lontano dal nostro. Isaia, ad esempio, non è un libro facile da leggere, perché tanti sono i nomi: nomi di paesi, di regni, di popoli; si fa fatica a capire il contesto storico. Isaia comincia a descrivere la sua vocazione così, con il dire (Isaia 6:1): “Nell’anno della morte del re Uzziah, io vidi il Signore assiso sopra un trono alto ed elevato, e i lembi del suo manto riempivano il tempio”.

       Per noi questa frase non ha alcun significato, perché non sappiamo chi fosse il re Uzziah, e non sappiamo quando sia vissuto, ma è comunque molto importante (Isaia 7:14): “Perciò il Signore stesso vi darà un segno. Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli porrà nome Emmanuele”.

       Anche se questa è una profezia messianica, in realtà Isaia ha dato questa profezia al re Acar, quindi questa profezia è iniziata allora, in quel momento, e questo ci fa comprendere che la profezia di Dio è radicata nella storia e consiste principalmente nel rispettare il patto di alleanza.

      Poi, affinché il momento della sua manifestazione tra gli uomini non si perdesse nel tempo mitico o fosse proiettato in un lontano futuro, Dio lo rivelò al profeta Daniele. Fu durante il suo soggiorno alla corte di Babilonia, nel 538 a.C., che gli fu predetto quando il Messia si sarebbe presentato, l’opera che avrebbe compiuto e il momento della sua morte.

Il testo sacro recita così:

“Sappilo dunque e intendi. Dal momento in cui è uscito l’ordine di restaurare e riedificare Gerusalemme fino all’apparizione del Messia, vi sono sette e sessantadue settimane di anni. Egli stabilirà un saldo patto con molti, durante una settimana di anni; e in mezzo alla settimana (settantesima) farà cessare sacrificio e oblazione. Dopo le sessantadue settimane di anni, il Messia sarà soppresso, nessuno sarà per lui. Egli (il Messia) farà cessare la trasgressione, metterà fine al peccato, espierà l’iniquità, stabilirà una giustizia eterna, suggellerà visione e profezia e ungerà un luogo santissimo” (Daniele 9:25, 27, pp. 26, 24 ss.).

       I profeti della Bibbia ebraica spesso ammoniscono gli Israeliti a pentirsi dei loro peccati e delle idolatrie, con minacce di punizioni o promesse di ricompense. Benedizioni e maledizioni sono attribuite alla divinità e, secondo i credenti nella profezia biblica, molte di tali profezie sono viste come realizzate nell'ambito dei passi biblici successivi. L’altro tema profetico è quello della venuta di un Messia e, mentre i cristiani ritengono che le profezie messianiche si siano compiute con la venuta del Cristo, i seguaci dell'Ebraismo rabbinico attendono ancora l'arrivo del Messia e altri segni escatologici, infatti

l'Ebraismo rabbinico non separa la venuta originale del Messia dall'avvento dell'Era messianica. Un altro tema importante è quello della “fine dei giorni”, o “ultimi giorni”, secondo l'Apocalisse di Giovanni.

       La profezia è un'affermazione che prevede il futuro, ed esiste una fondamentale e sostanziale differenza tra profezia e previsione: una previsione ha alla base un processo empirico e logico, mentre una profezia non è legata a dati di fatto e a ragionamenti, ma alla prescienza o chiaroveggenza di chi ne è portatore. In senso più lato, la profezia può anche essere legata alla capacità pragmatica del "profeta" di evocare gli avvenimenti storici da lui voluti, influenzando così il futuro. In quest'ultimo senso, si parla anche di profezia che si auto-adempie. LIslam, il Cristianesimo, l’Ebraismo danno grande importanza ai profeti e alle profezie. Il termine “profeta”, però, come abbiamo visto, indica "colui che parla per conto di Dio": la profezia è quindi un messaggio che Dio, attraverso il profeta, vuole far giungere agli uomini e che non necessariamente consiste nella rivelazione di un evento futuro.

       Nell' Ebraismo e nel Cristianesimo le profezie più importanti sono quelle che annunciano il compimento del disegno divino e l'avvento del regno del Messia, e quelle escatologiche. Nell'Islam (che riconosce tra i suoi profeti anche Mosè e Gesù Cristo) Maometto riceve una rivelazione su Dio, sull'uomo e sulla vera religione e la previsione di eventi futuri si limita all'escatologia.   

        Nel mondo antico la profezia ebbe grande diffusione già nelle religioni dell'IndiaBuddhismo, Induismo, Giainismo. Nel VI sec. a. C., in Persia, Zarathustra fondò il Mazdeismo, basato su varie profezie, inclusa quella di un Giudizio Universale, e sull'attesa escatologica di un Messia.

       Nel mondo greco e romano esistevano delle profetesse dette Sibille; la più importante per i Romani era la Sibilla Cumana. Inoltre, nell'antica Roma, in caso di necessità, si consultavano i profetici Libri sibillini (adire ad libros Sibyllinos). Presso gli Etruschi e i Romani esistevano dei collegi sacerdotali con il compito di prevedere il futuro, di compiere quindi una profezia (vaticinium): gli aruspici (haruspices), che analizzavano le viscere degli animali (il fegato in particolare) e gli auguri (augures), i quali prevedevano il futuro in base al volo e al comportamento degli uccelli (aves inspicĕre) o di altri animali o in base allo studio di fenomeni celesti come i fulmini (scienza fulgurale). Nell'antica Grecia esistevano le profezie degli oracoli, i più noti dei quali erano la Pizia, sacerdotessa di Apollo (dio della divinazione) a Delfi, e l'oracolo di Zeus a Dodona nell'Epiro.

       Nel Medioevo, nel mondo cristiano, si svilupparono movimenti profetici come quello di  fra Dolcino e di frate  Gioacchino da Fiore  (gioachimismo). Anche Dante Alighieri, nella temperie culturale del suo tempo, risentì dell'influsso delle correnti profetiche, tanto che nella Divina Commedia la profezia è un tema ricorrente (dal Veltro alle profezie sull'esilio).

       Nella Guida dei perplessi, Maimonide  individua 12 livelli di profezia. La profezia non è soltanto previsione del futuro, ma anche conoscenza degli eventi passati e presenti e di cose in genere, non necessariamente vicini o in precedenza conosciuti dal profeta, ma rivelati direttamente da Dio a lui; la profezia è inoltre apprendimento, rivelato da Dio, della sapienza divina della Torah e della sua parte nascosta, la Qabbalah. La condizione profetica può presentarsi, in modo momentaneo o continuo, in modo estatico o senza uno stato estatico; il profeta è tale sia per elevazione intellettuale e spirituale sia per visioni di angeli e di manifestazioni divine o di Dio stesso, nella Shekhinah.
Spesso, ma non sempre, il livello profetico è strutturato logicamente ma, come ammette anche Maimonide, non tutti i concetti possono essere correlati tra loro tramite l'interpretazione 
esegetica.

       Durante il periodo del Tempio di Salomone, con l'avvicinarsi del momento della sua distruzione, vi fu anche la “falsa profezia”: molto spesso una profezia è fatta dopo che l'evento "predetto" si è verificato. Si tratta delle profezie post eventum, emesse da coloro che affermano di avere previsto un evento; questo conferisce ovviamente a molti profeti la fama di ciarlatani.

       In conclusione, è notevole la complessità teorica della nozione di “profezia”, così come molteplici sono le sue definizioni ed elaborazioni dottrinali, con la varietà delle sue manifestazioni storiche. Posto che il termine “profezia” indica una predizione concernente gli eventi futuri, frutto di un’ispirazione che, in quanto non riconducibile a un procedimento di tipo razionale, viene ricondotta a un principio divino o a forze irrazionali (si pensi alla follia mantica di cui parla Platone nel Fedro), essa è però diversa dalla previsione (di carattere scientifico) basata sull’osservazione di eventi regolari e suscettibili di osservazione e spiegazione, e dalla divinazione. La divinazione nacque come evoluzione del pensiero mitico della preistoria, come un'evoluzione della conoscenza, in un’epoca in cui scienza e magia non erano distinguibili.

       Come presunta capacità di ottenere informazioni, ritenute inaccessibili, da fonti soprannaturali, si esprime spesso attraverso una specie di rituale, e può basarsi sull'interpretazione di segni, eventi, simboli o presagi oppure manifestarsi attraverso una rivelazione. Esistono sia pratiche di predizione del futuro di una persona, a titolo individuale, sia pratiche con caratteristiche sociali.        Come fenomeno culturale, la divinazione è stata osservata dagli antropologi in molte religioni e culture, in tutte le epoche, fino ai giorni nostri. Ogni cultura e religione ha sviluppato i propri metodi di divinazione, tuttavia Cristianesimo e Islam li escludono totalmente. Secondo il Cristianesimo, la rivelazione è compiuta nella Bibbia e dunque la divinazione (il cui scopo è quello di rivelare le cose nascoste) perde di significato. Nel Cattolicesimo, solamente Dio può conoscere le cose nascoste; la divinazione, attribuendo ad altri questa capacità, è considerata un’idolatria ispirata dal diavolo. Nella Bibbia la maggior parte delle forme di divinazione è rigorosamente vietata da Dio; tuttavia i sacerdoti ebrei usavano strumenti particolari come i teraphim, e inoltre è famoso l'episodio di Saul che si reca a consultare una negromante: la strega di Endor (1Samuele 28, 3-25).

Ciò che caratterizza le predizioni divinatorie è l'assenza di una causalità dimostrabile tra il segno interpretato e il risultato previsto, un legame che i sostenitori suppongono esistere a livello mistico, intuitivo, religioso.

La divinazione risponde a una delle esigenze umane più antiche: annullare l'incertezza del futuro e conoscere l'ignoto; la funzione sociale della divinazione (che non necessariamente deve essere religiosa) si basa sul presupposto di una sensibilità empatica, che permetta la ricezione dell'informazione cercata, presso qualche entità o forza soprannaturale, e che questa informazione possa essere trasferita nel mondo naturale.

Presso alcune culture, i responsi (a volte chiamati oracoli, altre volte con termini più precisi) possono assumere il valore di norma religiosa, in particolare quelli ottenuti in occasioni istituzionali o quelli relativi a personalità di grande rilevanza, come per esempio il monarca. Quando la consultazione è di carattere individuale, spesso la norma religiosa prevede, oltre alla consegna del responso, anche la prescrizione di un rito che il consultante deve compiere per poter risolvere la crisi; questo rito serve per prendere contatto con intelligenze preterumane che, a seconda delle credenze religiose e della cultura sociale,  interagiscono per mezzo del tramite terreno. Tutto ciò consente all'indovino di offrire al consultante i mezzi necessari per superare il senso d’impotenza e d’isolamento, e quindi reintegrarsi nella comunità.

       L’indovino, il divinatore, operava attraverso la realizzazione autonoma di un perfezionamento delle proprie capacità naturali, o avvalendosi di metodi di tipo induttivo, consistenti nell’interpretazione di segni provenienti dall’esterno (l’aruspicina, l’epatoscopia, la negromanzia o la cleromanzia, cioè l’arte di divinare per mezzo di oggetti, sortes, mescolati e tratti a caso).

       La profezia, dal canto suo, include invece tutti quegli stati cognitivi estranei alla normale attività intellettuale dell’uomo e dei quali l’uomo può non essere del tutto consapevole o responsabile: percezioni extra-sensoriali in stato di veglia, sogni, stati di trance, possessioni, in sostanza tutte quelle esperienze nelle quali vengono superati i limiti spazio-temporali imposti e/o caratteristici del sapere umano, e nelle quali si entra in contatto con contenuti conoscitivi non attingibili mediante i canali abituali della conoscenza umana.

       In questo senso, rispetto alla conoscenza ordinaria, la profezia introduce una “frattura” interessante dal punto di vista filosofico: la missione del profeta è diretta anzitutto al popolo, sotto forma di predicazione e, come avviene nella profetologia araba, di impegno di guida politica da parte del profeta. La predizione del futuro è oggetto della predicazione profetica, ma non l’unico oggetto, e spesso le predizioni contengono la minaccia dei castighi divini per il male, ma anche la promessa di benedizione e salvezza come premio per il bene e stimolo per la conversione.

       Da questo punto di vista, sembra non valere l’equazione tra profezia e predestinazione; il quadro provvidenziale, simbolo della prescienza divina, lascia spazio alla libertà dell’uomo, come mostra la profezia di Giona, nella quale la condotta umana (degli abitanti di Ninive, cui viene profetizzata la distruzione della città) “cambia” il corso degli eventi profetizzati – per quanto si tratti di un cambiamento comunque conosciuto da Dio dall’eternità.

       Sul piano strettamente filosofico, dunque, il tema della profezia incrocia argomenti rilevanti e discussi in maniera autorevole, da Agostino in poi: la compatibilità tra prescienza divina e futuri contingenti, tra predestinazione e libero arbitrio, e la responsabilità morale dei propri atti.