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 Ci sono sempre più versioni di ogni storia che viene raccontata al sorgere del sole, dopo una notte di baldoria tra sigari, canzoni e qualche bicchiere di troppo. Soprattutto nei bar di Plaza Garibaldi, a Città del Messico, un posto così ricco di tradizioni e leggende di origini sconosciute che molto spesso si intrecciano con la vita di alcune persone, che diventano leggenda anch’esse.

Chavela Vargas è stata una leggenda per gran parte della sua vita rara.

Aveva 17 anni, Chavela, quando finalmente arrivò a Città del Messico, nel 1936. Scappava dalla sua famiglia, dai suoi genitori che, quando si separarono la abbandonarono da una zia, perché nessuno dei due la voleva. Scappava dalla poliomielite, oramai completamente regredita, che da bambina la “ruppe” rendendola quasi cieca, ma che riuscì a superare anche grazie all’aiuto di uno sciamano che incontrò per caso, durante una delle sue primissime fughe da casa. Scappava da quel prete che le impedì di entrare in chiesa perché rara, strana. Perché amava arrampicarsi sugli alberi, indossare i pantaloni e legare i capelli in una grossa treccia e preferiva baciare le ragazze. Scappava dalla Costa Rica perché oramai le stava stretta, perché non era più la benvenuta.

Il Messico e la sua capitale erano in piena rivoluzione artistica e culturale. Intellettuali di e da tutto il mondo venivano attirati in questa giovane metropoli in fermento, mentre nel resto del mondo si respirava aria di guerra. Per Chavela era un sogno. Come altre prima di lei si accorse che qui le donne non dovevano chiedere il permesso di essere libere. Qui si poteva pretendere e ottenere rispetto per quello che si faceva. Tutto era possibile e tutto era consentito. Chavela voleva vedere l’alba tutti i giorni, voleva bere fumare sigari, voleva divertirsi e sentirsi libera. Soprattutto però, Chavela voleva cantare. E aveva una gran voce, Chavela.

I primi anni in Messico si trascinarono tra lavoretti improvvisati e nottate infinite, tra alcol e canzoni d’amore. Un giorno, però, un amico pittore o un’amica modella, secondo chi racconta la storia, le disse di una festa organizzata in quella casa dalle mura blu sempre frequentata da artisti e intellettuali. Chavela non conosceva nessuno, ma che importa. Non si rinuncia mai alla possibilità di fare baldoria e a della tequila gratis. Fu così che, mentre ballava davanti a un giradischi, con un sigaro in una mano e una bottiglia piena solo a metà nell’altra, la padrona di casa la notò.

Era una donna vestita con abiti tradizionali messicani, fiori nei capelli e delle sopracciglia pronte a spiccare il volo. Frida Kahlo le chiese di ballare. Chavela non tornò a casa quella notte, nemmeno in quelle successive. Sì fermò a Casa Azul per mesi. Era il 1939. Frida stava divorziando da Diego Rivera dopo averlo trovato a letto con la sua amata sorella. Si risposarono l’anno successivo perché, nonostante scappatelle e tradimenti di entrambi non potevano vivere l’uno senza l’altra. Chavela entrò nella vita di Frida come in tutte le storie che si rispettano: al momento giusto. Furono mesi di passione travolgente e intesa perfetta, fino al giorno in cui senza preavviso Chavela prese Frida da parte e le disse «Non posso fermarmi più, devo andare». E Frida forse rimase ferita, ma la lasciò andare.

 

Nel frattempo arrivarono i primi ingaggi nelle cantine, nei locali vicino a Plaza Garibaldi.

Le prime volte provò anche a seguire le regole, esibendosi in abiti femminili, indossando fiocchi e tacchi alti e a cantare le vivaci melodie della musica ranchera. Non funzionò, non si sentiva a proprio agio. Come darle torto. Come si fa a cantare con un abito che quando alzava le braccia nel mezzo della canzone mostrava tutto quello che c’era sotto? O a salire sul palco con quei maledetti tacchi che rischiavano sempre di farla cadere, davanti a tutti? Un giorno, senza dire niente a nessuno, si presentò sul palco con i capelli legati in una treccia strettissima e il suo amato completo da mariachi sotto al poncho rosso che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica. Prese la chitarra, se l’appoggiò al petto e cominciò a percuoterla. Cominciò a cantare, lentamente, con serietà, con la sua voce profonda ammorbidita dalla tequila. Il pubblico ne rimase stregato. Chi è questa donna sul palco che si veste come un uomo, che canta come un uomo? Chi è questa donna che stravolge il significato di una canzone che racconta la storia di una donna simbolo di libertà, facendola diventare ambigua, erotica? Chi è questa donna con il poncho rosso? Chi è questa Chavela Vargas?

 

Fu in questo periodo che incontrò José Alfredo Jiménez, già affermato musicista e compositore di ballate rancheras. Ben presto nacque un’amicizia destinata a cambiare la storia della musica messicana. Era il 1948. I testi di José Alfredo Jiménez erano scritti e pensati per essere cantati da uomini in pena da “amores y desamores”. Chavela, con il suo vestirsi da uomo, con il suo cantare senza mai cambiare pronomi, con il suo essere lesbica senza nasconderlo, senza mai nemmeno sbandierarlo prese questi testi, legati a una tradizione machista e li rese universali. Perché non c’è nulla di più universale dell’amore perduto e tradito, della nostalgia, della solitudine, il senso di vuoto e del dolore causato dall’assenza. Insieme spogliarono la musica ranchera di tutto ciò che era superfluo. La liberò dagli stereotipi folkloristici e festaioli, rivestendola di melodramma, della disperazione che segue le sbronze. A Chavela bastavano un paio di chitarre e la sua voce.

 

Chavela cominciò ad esibirsi nei teatri, dove continuò la sua vita sregolata tra alcol, donne e musica. La fama di quella donna dal poncho rosso superò i confini nazionali e arrivò ad Hollywood. Elizabeth Taylor, Clark Gable, Lana Turner. Scendevano fino ad Acapulco dove potevano passeggiare per la spiaggia senza essere fermati e passare le serate ad  ascoltare la calda voce di Chavela Vargas. Anche lei fu invitata al primo leggendario matrimonio tra Elizabeth Taylor e Richard Burton. Quella notte si narra che tutta Hollywood andò a letto con qualcuno. Il mattino dopo, al suo fianco, c’era nientemeno che Ava Gardner, che aveva un debole per lei da un po’. La grande festa finì nel 1973, con la morte di José Alfredo Jiménez, consumato dalla cirrosi epatica dovuta all’alcolismo. Il dolore, l’alcol, la solitudine la consumarono. Nel 1979 si ritirò dalle scene. Per 12 anni non diede più sue notizie. Pensarono tutti che fosse morta.

A El Habito, un piccolo locale di Città del Messico appena aperto e gestito da due ragazze, una seraa del 1991 cominciò a correre una voce. Sì, era proprio lei, Chavela Vargas, tornata dal mondo dei morti, venuta per ascoltare un po’ di musica. Com’era diversa però questa Chavela. I capelli quasi completamente bianchi, una ragnatela di rughe in faccia e il sorriso beffardo di sa di aver attraversato l’inferno ma di aver finalmente trovato la serenità. Solo il poncho rosso non era cambiato. Durante l’ultimo periodo del suo isolamento volontario aveva trovato rifugio in una comunità di sciamani ed era diventata una di loro. Non toccava alcol da allora. Ma erano 12 anni che non cantava più. Il palco la terrorizzava, e poi non aveva mai cantato sobria. Si ricordava del pubblico che pendeva dalle sue labbra quando cantava, della tensione che creava con i silenzi. Si ricordava del modo in cui la voce quasi si rompeva a metà delle note lunghe, come un lamento. E della pace che trovava quando cantava. Perciò salì sul palco, abbracciò la chitarra, cominciò a percuoterla.

Fu la rinascita. Riprese a fare concerti tutte le settimane, sempre a El Habito. In tutto il mondo si sparse la voce del ritorno di Chavela Vargas. Tutti volevano ancora sentir cantare quella sciamana con l’abito da mariachi sotto al poncho rosso. Perché quando cantava sembrava cantare solamente per te. Hai mai commesso errori nella tua vita, nelle tue storie d’amore? Sembrava chiederti. I tuoi errori sono un bene, ne valgono sempre la pena. Sono la cosa più importante che ti sia capitata. Fanne ancora se puoi. Anche io ne ho commessi tanti. E siamo qui entrambi.

Almodovar volle conoscerla per farla cantare per i suoi film. La portò a Madrid e a Parigi. Chavela cantò nuovamente nei teatri.

E cantò ancora e ancora.

Nel 2003 interpretò la canzone che la rese famosa in tutto il mondo, una delle canzoni  più conosciute e riconoscibile della tradizione messicana, La Llorona. La Llorona è lo spirito di una donna che piange la morte dei suoi figli. Nell’iconografia sudamericana rappresenta la morte. Lei che era stata creduta morta in vita ed era tornata. La cantò nel film sulla vita di Frida Kahlo. La vita a volte ha modi curiosi di incastrare tutti i pezzi.

Nel 2012, a 93 anni pubblicò il suo ultimo disco, quello dedicato a Federico Garcia Lorca, il poeta che adorava, morto troppo giovane durante la guerra civile spagnola.

Si ammalò gravemente pochi giorni prima del concerto di presentazione a Madrid. Non sembrava essere in grado di cantare. Lei volle provarci lo stesso. Cantò con un filo di voce. Sapevano tutti sarebbe stato il concerto di addio di Chavela Vargas. Lo sapeva il pubblico, lo sapeva lei.

Se quella sera non morì sul palco come avrebbe voluto forse è solo perché questa storia non è ancora stata raccontata abbastanza. O forse perché la Llorona in persona aveva deciso che Chavela sarebbe dovuta morire in Messico, nel suo Paese. Chissà.

Morì nella sua casa tra le montagne di Cuernavaca che l’avevano ospitata negli ultimi anni e che tanto aveva amato. Era il 5 agosto.

Il giorno del funerale i mariachi scesero si riunirono in Plaza Garibaldi per rendere omaggio cantando a quella bara coperta da un poncho rosso. Furono lacrime e festa, come nella migliore tradizione messicana. Tutti l’avevano ormai riconosciuta come uno di simboli della cultura messicana. Perché sì, lei era messicana. E se qualcuno le faceva notare che era nata in Costa Rica rispondeva «Noi messicani nasciamo dove cazzo ci pare», come amava ripetere.

 

©Barbara de Munari

 

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