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ETICA, MORALE E GIUSTIZIA

 

di Barbara de Munari

 

 

Se la morale considera le norme e i valori come dati di fatto, condivisi da tutti, l'etica cerca di dare una spiegazione razionale e logica di essi.

Considerazioni generali

L'etica studia i fondamenti che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status deontologico e normativo, cercando di distinguerli in buoni, giusti, leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti ingiusti, illeciti, sconvenienti o cattivi secondo un ideale modello comportamentale (ad esempio, una data morale). Come disciplina affronta questioni inerenti alla moralità umana, definendo concetti come il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, la virtù e il vizio, la giustizia e il crimine. L'etica è, quindi, sia un insieme di norme e di valori che regola il comportamento dell'uomo in relazione agli altri, sia un criterio che permette all'uomo di giudicare i comportamenti, propri e altrui, rispetto al bene e al male.

Sovente etica e morale sono usati come sinonimi e in molti casi è un uso lecito, ma è bene precisare che una differenza esiste: la morale corrisponde all'insieme di norme e valori di un individuo o di un gruppo, mentre l'etica, oltre a condividere questo insieme, contiene anche la riflessione speculativa su norme e valori. 

Per comprendere meglio la natura ambivalente, intima e collettiva, dell'etica, possiamo confrontarla con un'altra istituzione normativa, il diritto. Entrambe le istituzioni regolano i rapporti tra individui, ma si affidano a mezzi diversi.

Infatti, mentre il diritto si basa sulla legge territoriale, valida solo sul territorio statale, che va promulgata affinché si conosca, e che, se non rispettata, sarà seguita da una pena, l'etica si basa sulla legge morale, valida universalmente, già nota a tutti in modo non formale; il primo si occupa della convivenza fra gli individui, la seconda della condotta umana più in generale.

È opportuno anche rilevare come il rapporto tra etica e diritto, nel corso della storia umana, sia stato ambiguo. Mentre, infatti, il diritto è la

scienza della coesistenza, regolata da norme giuridiche che dovrebbero basarsi su princìpi etici, l'etica invece è la capacità di discernere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, e non sempre essi coincidono o mirano allo stesso obiettivo.

Riflessioni sull’etica

La riflessione sull'etica nasce con SocratePlatone e Aristotele e poi è approfondita dalla Scolastica, affermandosi in modo deciso soprattutto con l'Illuminismo e, in particolare, con Immanuel Kant, che tenta di definire i presupposti razionali dell'agire morale dell'uomo, richiamandosi alla necessità di un'etica del tutto svincolata da ogni finalità esteriore e impostata su un rigoroso senso del dovere e del rispetto della libertà altrui (l'etica, dunque, come "imperativo categorico").

Per quanto riguarda le culture extraeuropee, grande rilevanza ha il pensiero filosofico cinese. I filosofi cinesi hanno sempre dato una grande importanza all'etica, trattando di essa con maggior interesse e profondità rispetto ad altri argomenti filosofici. I maggiori filosofi cinesi che si sono interessati di etica sono Confucio, sicuramente il più importante, MencioLao-TseMozi. Poiché nelle culture orientali la distinzione tra filosofia e religione spesso non è chiara e netta, molto importanti per il pensiero etico sono stati anche il Taoismo e il Buddhismo.

L’etica ebraica indica un'intersecazione dell'ebraismo con la tradizione etica del mondo occidentale. Come per altri tipi di etica religiosa, la numerosa letteratura sull'etica ebraica intende rispondere a una vasta gamma di questioni morali e, quindi, può esser classificata come "etica normativa". Per millenni il pensiero ebraico ha affrontato il problema complesso del rapporto legge-etica. La tradizione della Legge religiosa rabbinica (nota come Halakhah) esamina numerosi problemi spesso associati con l'etica, compresa la relazione dinamica con i doveri che non sono usualmente puniti dalla legge. (Vedi: APPENDICE).

Riflessioni sulla giustizia

Se è difficile definire che cosa sia la giustizia, è invece di immediata percezione che cosa sia l’ingiustizia: le disuguaglianze pesanti tra le persone, nonché tra uomini e donne; le limitazioni alla libertà di pensiero e di espressione; le discriminazioni; l’indifferenza sociale verso le situazioni di sofferenza.

Esiste la giustizia giusta? Quella ideale, capace di pareggiare tutti i conti e risanare tutti i torti? La risposta è no, ma con riserva. Perché la giustizia non può che essere un indispensabile punto di equilibrio tra diritto, etica e religione, un "compromesso" auspicabile che emancipa dall'istinto vendicativo proprio della natura umana, dispensando punizione e conforto.

E dunque è necessario accettare di non vedere mai del tutto soddisfatte le attese individuali, perfino quando la giustizia è amministrata con le migliori garanzie, sancite soprattutto dalle costituzioni contemporanee. Essendo la giustizia un'aspirazione di per sé inesauribile.

E allora ecco Antigone e Edipo, testimoni dell'eterno conflitto tra coscienza individuale e ragion di Stato, tra legge morale e legge positiva, tra verità soggettiva e verità oggettiva, tra domanda di giustizia e intransigenza nell'applicare quella vigente. Antigone e Edipo, portatori di un'idea personale di ciò che è giusto e di una convinzione caparbia che li trascina ineluttabilmente verso la tragica rovina.

Diritto, religione e morale sono sempre in necessaria relazione fra loro, ma allo stesso tempo irriducibili l'uno alle altre. Lo prova la storia dell'Europa nell'ultimo secolo, quando, senza quella relazione, la legge si è fatta forza assoluta e totalitaria. Così come non è possibile separare totalmente il piano del diritto dal piano della morale. Perché il diritto e la giustizia, come il diritto e la morale, devono sempre essere in rapporto tra loro e sempre devono dialogare.

Ed è un'altra tragedia, l'Orestea di Eschilo, a metterci di fronte  al messaggio primario. Anche quando la giustizia è amministrata in modo illuminato, liberandoci dell'istinto vendicativo che alberga in ogni essere umano, le attese individuali di giustizia non saranno mai del tutto appagate.

Questa giustizia sapiente, però, quella che punisce e premia, resta comunque la via migliore possibile, anche se tortuosa, soprattutto rispetto al biblico "occhio per occhio" e all'eterna tentazione di farsi giustizia da sé, perché la storia dell'umanità dimostra che reagire al male con il male porta soltanto vendetta, crudeltà infinita e distruzione.

La giustizia è sempre "oltre", una mèta cui tendere in continuazione, instancabilmente, operosamente, pazientemente, cercando le forme più adeguate, senza mai smarrire la consapevolezza che la possibilità di colmare pienamente il bisogno di giustizia sfugge alle capacità umane. Se si smarrisce questa consapevolezza del limite e ci lasciamo sopraffare, come ci ricordano i greci, dal peccato di hybris, non smetteremo di essere delusi e insoddisfatti. E sempre più ingiusti.

Questo è quello che ci documentano le due tragedie, Edipo e Antigone, in cui l'irrigidimento di tutti i protagonisti su una loro idea di giustizia, che pur avviene in modi a ciascuno peculiari, li porta verso la rovina tragica, proprio in nome dell'affermazione "incondivisa" del giusto che sentono di portare in sé.

Amministrare la giustizia

Amministrare la giustizia significa usare un potere sulle persone. Per questo la giustizia è un bene da maneggiare con cura.

Per illustrare questo aspetto, ricorriamo a un'altra grande tragedia, le Eumenidi di Eschilo, dove vediamo Atena, la dea della sapienza, che trasforma le Erinni - antiche dee della vendetta, della distruzione, della discordia - in Eumenidi, bene-fattricibene-ficatebene-onorate, dove la reiterazione del suffisso eu nel verso 868 insiste sul bene di cui esse divengono partecipi e portatrici. Ma ci ricorda, inoltre, che anche la giustizia buona e civilizzata conserva il segno dell'antica forza e della vendetta delle Erinni. Le Erinni restano in città e Atena consiglia di "non espellere dalla città tutto ciò che è pauroso: chi degli uomini infatti è giusto se nulla teme?".

Per questo, un'altra sorgente di antica saggezza ricorda: "non voler essere troppo giusto" (Qoelet 7, 16). La Bibbia non intende certo biasimare l'impegno per la giustizia, ma ammonire contro i rischi della superbia: "chi infatti si fa troppo giusto, perciò stesso diventa ingiusto", come si legge nel commento di Sant'Agostino proprio a quel verso.

Rapporto tra etica e giustizia

Il rapporto tra legge, religione e morale è il contenuto di uno dei problemi più complessi su cui s’interrogano filosofi e teologi di ogni tempo. E conosciamo bene il rischio di un’imposizione della maggioranza del momento sui gruppi di minoranza.

Rivolgiamoci ancora una volta alla tragedia, per la sua straordinaria energia di reiterazione (di cui parlava George Steiner), cioè quella straordinaria capacità di narrare storie paradigmatiche, senza tempo e di ogni tempo, e perciò sempre attuali.

L'Orestea di Eschilo narra la lunga catena di omicidi, sanguinosi, atroci, che affligge la famiglia degli Atridi, a partire da Atreo e Tieste, seguita dalla nascita incestuosa di Egisto, fino al sacrificio di Ifigenia, uccisa dal padre, che a sua volta induce la madre Clitemnestra ad assassinare il marito Agamennone, eroe vittorioso della guerra contro Troia, e poi ancora il figlio Oreste a vendicare l'assassinio del padre con il matricidio.
La catena del male provocata dall'antica logica della "giustizia" delle Erinni, fatta di vendetta, ira, istinto, reattività, che sembra destinata a perpetuarsi senza fine, s’interrompe grazie all'intervento della dea della sapienza, nata dalla mente di Zeus. Atena introduce un elemento nuovo: istituisce il tribunale e il processo, consapevole di fondare "un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre".

Nel processo che si svolge in tribunale, dominano il logos, la parola, il ragionamento, la persuasione, la prova. Il ragionare prende il posto dell'istinto vendicativo. La pacatezza e la riflessione, quello della reattività. La ricerca delle prove, la verifica dei fatti e della complessità delle circostanze, unitamente all'argomentare e al motivare, quello del mistero. Alla fine, Oreste è assolto con metà dei voti a favore e metà contro. La bilancia pende a favore della clemenza.

L'istinto vendicativo delle Erinni non è appagato dall'assoluzione di Oreste finché Atena non le invita a diventare Eumenidi; anche per questo, tutti leggono nell'Orestea la celebrazione di una svolta di civiltà.

La giustizia amministrata con sapienza percorre vie lunghe e non di rado tortuose, ma contribuisce al bene di tutti, mentre le scorciatoie sbrigative, di chi fa giustizia da sé, noncurante delle regole, ottiene risultati effimeri: nella mitologia greca, Dike, Eirene, ed Eunomia, rispettivamente giustizia, pace e buon governo, sono le tre sorelle che insieme costituiscono il gruppo delle Ore, chiamate a vegliare sulle vicende dei mortali.

Come nell'affresco del buon governo di Lorenzetti a Siena: nel Buongoverno, Giustizia incoronata punisce e premia ispirata da Sapienza e produce Concordia; mentre, nel Malgoverno, Giustizia sta legata ai piedi della Tirannide e le sue bilance sono rotte.

©Barbara de Munari

 

DELLA GIUSTIZIA MASSONICA

 

di Giuseppe Bellantonio

 

Sovente, è ricorrente il tema della 'Giustizia Massonica', specie là dove possano essersi determinati contrasti ovvero violazioni di un qualche rilievo alle norme disciplinari, all'interno anche di una sola, semplice Loggia.

Innanzi tutto, cosa deve intendersi con questo termine? È l'insieme delle disposizioni d'ordine generale - a prescindere dalla singola entità organizzata, di solito emanate da un organismo centrale di riferimento, e d'ordine particolare, ossia riferite a ogni singola entità, Loggia o Gran Loggia che possa essere, che regolano sotto l'aspetto disciplinare-valutativo-repressivo l'azione e la tenuta di ogni Fratello nell'ambito della propria Loggia d'appartenenza, oppure della Grande Loggia cui la Loggia stessa possa fare vertice.

Ovviamente, nel contesto degli organismi nati dopo la riforma del 1717 (nascita della c.d. 'Massoneria Speculativa' ovvero 'moderna') ciò che era valido in una Loggia si riverberava nella eventuale (nonché nuovo soggetto di riferimento socio-politico) Grande Loggia cui si aderiva. Prima di questa data le Logge operavano in piena autonomia e sovranità, indipendenza e discrezionalità, pur se i rapporti tra Logge erano frequenti e improntati a sentimenti di sentita e costruttiva fraternità.

La 'Giustizia Massonica' prevede delle classi di responsabilità, di 'colpe': dalle leggere alle gravi, con una scalettatura di reprimende, fino all'espulsione - ancor peggio se accompagnata dal dispositivo/rituale di 'Bruciatura tra le Colonne', atto severissimo e gravissimo quest'ultimo, che equivale a una condanna, consumata tra le fiamme, in un rogo, e quindi non solo 'definitiva', ma di per sé distruttiva/inceneritrice del condannato, cui sono dirette espressioni non certo simboliche né tantomeno benevolenti.

Esiste quindi la formulazione di un'accusa (sempre formale, definita Tavola d'Accusa, con la citazione di fatti, prove e testimonianze); una obbligatoria quanto formale notifica all’accusato delle colpe attribuitegli, con l'indicazione di data e luogo dell'avvio del relativo procedimento; lo speculare diritto di difesa riconosciuto allo stesso (che potrà esercitarlo per il tramite di un altro proprio Fratello, designato quale suo difensore.

Alcune comunità - evidentemente più 'avanzate' - a fronte di accuse gravi o gravissime, peraltro articolate, prevedono che l'accusato possa anche farsi assistere da un legale esterno, 'profano', per meglio sostenere le proprie ragioni. È evidente che l’accusato possa produrre prove, testi e memorie a propria difesa, in una situazione in cui è comunque previsto il contraddittorio. Nella formulazione di accuse, non è consentito l'anonimato: ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità.

Quanto precede per dare la giusta cornice al tema. Può sorgere un problema, ossia uno stato di conflitto tra le norme 'interne' di una Loggia o Gran Loggia e quelle 'esterne', così come previsto dalle norme di Legge, quelle 'profane', in vigore? Vediamo meglio.

Le norme di Giustizia Massonica sono interne e suscettibili di un sistema probatorio il cui impianto è diverso dal contesto esterno, nonché sostenute da livelli testimoniali - specie a difesa dell'imputato - che possono basarsi su elementi di natura e sensibilità diversa: non di rado, la 'Giustizia Massonica' si pronuncia in modo più 'garantista', riconoscendo all'imputato attenuanti o salvaguardie che il sistema giudiziario profano non prevede né riconosce (prediligendosi tuttora una visione che tende ad accusare, a priori: salvo poi il diritto dell’accusato/imputato di potersi difendere). Perfino casi di avvenuta condanna esterna, ossia 'profana', possono tramutarsi, a seguito di un'analisi diversa e persino più approfondita, svolta all'interno della Loggia/Gran Loggia di riferimento, in un’assoluzione, o in un netto alleggerimento della posizione dell'imputato. Così da non rendere necessaria o automatica la sospensione e quindi l'allontanamento dell'accusato (solo per riferimento, vale anche qui il concetto dei tre gradi di giudizio profani, con - al termine - la possibilità da parte del vertice di applicare un provvedimento indulgente di 'perdono'/'grazia'. Il che, in realtà, avviene raramente, cercandosi di evitare di costituire dei precedenti 'condizionanti').

Ma potrebbe anche verificarsi che, al prosciogliersi di ogni accusa verso l'accusato in sede profana, possa invece esservi una condanna in ambito interno, massonico, essendosi raggiunte 'prove' di tipo diverso e di maggiore o diversa rilevanza (soprattutto con riferimento agli atteggiamenti morali: il moralmente colpevole ha un grado di colpa non riconosciuto da un sistema giudiziario che condanna in base a fatti, a reati commessi). Non sussistono quindi automatismi, salvo l'ormai rituale 'sospensione' da ogni attività (ma anche carica e/o incarico) e l'avvio di un qualche procedimento, ancorché formalizzato.

Andiamo ora alla specificità delle norme che regolano internamente la 'Giustizia Massonica', non senza ricordare che la totalità delle Norme e dei Regolamenti anche statutari è accettata da ogni iscritto fin dall'atto della sua iniziazione (rientrando quindi nell'accettazione di norme di tipo contrattuale 'per adesione', ossia che fanno parte di un qualcosa di già predisposto - e non negoziabile - che viene accettato senza riserve fin dall'adesione e quindi dall'ammissione nel sodalizio).

Giurisprudenza costante ha sancito che le norme interne sono comunque prevalenti, salvo che non ledano apertamente o in modo consequenziale norme del Diritto Civile o norme di tipo penale scritte nelle Leggi dello Stato (reati patrimoniali, ma anche reati contro la persona, reati verso i diritti dell'individuo, contro i diritti dei terzi, etc.). 

Nel caso in cui una Loggia, che abbia il proprio Regolamento inclusivo anche delle norme di amministrazione della Giustizia Massonica, faccia vertice su una Gran Loggia, aderendovi, ebbene essa cessa di avere una propria giurisdizione interna totalmente autonoma e completa, facendo capo al coordinamento/guida della Gran Loggia cui ha aderito anche in materia di Giustizia (salvo che risulti in modo univoco che alla Loggia aderente sia stato concesso di mantenere la propria sovranità e autonomia, eventualmente disciplinando a parte ambiti e limiti delle autonomie stesse).

In sostanza: possiamo discutere e filosofare di tutto e su tutto, ma un ladro che si appropri di qualcosa nell’ambito amministrativo-gestionale di una Loggia/Gran Loggia, può essere denunciato anche alla Giustizia Ordinaria, ancorché 'profana'. Ma, volendo approfondire, può esserlo anche quell'amministratore di 'Giustizia Massonica' che si sia prestato ovvero abbia imposto delle forzature a sfavore dell’accusato, facendo leva su favori personali e non (ovviamente, è necessario poter provare questo tipo di accuse).

A onor del vero, c'è da dire che, nel tempo, anche la 'Giustizia Massonica' - al pari di Statuti, Regolamenti, Costituzioni e norme varie - ha subìto modificazioni rispetto ai testi originari, per lo più dettate dall'accortezza/furbizia da parte di chi presiede Loggia e/o Gran Loggia, nell’apportare dei 'ritocchi' per fare della Giustizia Massonica uno strumento di maggiore deterrenza (a proprio vantaggio, specie verso possibili potenziali oppositori/critici interni), così salvaguardando i vertici e il proprio entourage.

Non parliamo poi di quei casi limite in cui la 'Giustizia Massonica' è accantonata, per sfociare nella ricerca di un capro espiatorio. E non è un caso che la nomina del Presidente e dei membri del Tribunale Ordinario (quello interno, per intenderci) sia sempre riservata alla scelta del Gran Maestro o quantomeno al suo esiziale nulla-osta. Ovviamente, in questi casi limite, di 'massonico' c'è ben poco, e la virtus massonica è prevaricata, persino inesistente: situazioni indegne dei nobili Ideali e delle più fulgide, Antiche Tradizioni dell'Arte Reale, carenti, nella fattispecie, di ogni valore etico e morale.

Non sono stati rari né isolati i casi in cui, persino in sede di 'gran giurì' o 'giurì d'onore', convocati in sede di Grande Assemblea, i bizantinismi - e quindi le 'ingiustizie' - non siano mancati. Quindi, riassumendo, la 'Giustizia Massonica' interna è prevalente, a parte la commissione di reati di forte (e quindi preminente) rilevanza giudiziaria, penale, per dirimere i quali occorre fare riferimento diretto anche alla Giustizia profana. Va da sé che, proprio per la natura del contesto iniziatico di cui trattasi, le norme interne devono essere talmente ricche di correttezza, trasparenza e giudizio da renderle non permeabili a qualsivoglia critica, anche la più malevola.

È opportuno aggiungere qualcosa al testo di cui sopra. Purtroppo, non è raro il malvezzo di 'espellere' e persino 'processare' soggetti che da tempo, anche molto tempo, abbiano lasciato, formalmente e persino in modo critico, il contesto in cui operavano. In qualche caso, sono stati addirittura in essere 'cerimoniali' di 'bruciatura'. È evidente che simili situazioni fanno parte di quel pessimo modo di agire proprio di quella palude in cui si trovano certi ambienti 'sedicenti massonici', che di massonico in realtà nulla hanno.

Situazioni di questo tipo non solo sono moralmente, eticamente, iniziaticamente, massonicamente, censurabili, ma possono dare adito a contestazioni in sede profana, poiché creano un vulnus concreto, andando a ledere il buon nome, lo 'star del credere' del Fratello verso cui si sono rivolti gli strali di quella che appare essere più una vendetta, una ripicca, che non una forma di pseudo-giustizia massonica.

©Giuseppe Bellantonio


TRISTE GIUSTIZIA AL GRANDE ORIENTE DI FRANCIA

Articoli di Géplu, Blog Maçonnique Hiram.be

Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

 

Da qualche tempo la Giustizia massonica del Grande Oriente di Francia, se davvero possiamo continuare a chiamarla giustizia, è stata violata e ne ha viste delle belle. Per quanto tempo ancora questo disordine, non riesco a pensare a una parola "migliore", continuerà?

È iniziato tutto due anni fa, dopo la discesa di carica del Gran Maestro Hubsch e la raffica di denunce presentate da Jacques Orefice contro di lui e qualcun altro (me compreso). Sentenze in "plenaria", un organo amministrativo non autorizzato a giudicare dal Regolamento Generale (e a ragione, essendo tutti i giudici riuniti in questo organo, non c'è possibilità di ricorso. Un po' come sotto Stalin o Pol Pot), e numerosi altri casi di non rispetto del Regolamento Generale.

Per quanto mi riguarda, vittima di una denuncia di Jacques Orefice per alcuni articoli che non lo riguardavano, un oscuro organo provinciale mi ha sanzionato con la pena massima, l'esclusione! Sì, sono stato, per alcuni giorni, escluso dal Grande Oriente di Francia. Cancellato, licenziato, espulso. Solo pochi giorni perché, insomma, i "giudici", avendomi rifiutato la tutela della legge del 1881 sulla stampa decidono che: "… le nozioni di diritto civile saranno scartate, solo le violazioni del Regolamento Generale del GODF saranno da esaminare", "… limiteremo quindi anche l'esecuzione del giudizio al solo Regolamento Generale del Grande Oriente". Tuttavia, questo dà un tempo molto limitato per la notifica della sentenza, termine che non è stato rispettato. Il giudizio è quindi precluso, nullo. Pessimo, nella sostanza, come quelli che volevano licenziarmi per il reato di lesa maestà nei confronti del loro amico e che non sapevano leggere e applicare il Regolamento Generale.

Per me la questione, salvo finire nella giustizia profana, è quindi risolta, ma la vera questione, di là del mio caso personale è, mi ripeto, quanto tempo ancora durerà questa mascherata al Grande Oriente di Francia, dove i giudizi sono più vicini a dei regolamenti di conti piuttosto che alla buona amministrazione della giustizia?

Questa è la sensazione che motiva questo articolo, di pessimo umore.

Che cosa sta succedendo alla Suprema Camera di Giustizia del Grande Oriente di Francia?

Ma che cosa sta succedendo in questi giorni alla Suprema Camera di Giustizia Massonica del Grande Oriente di Francia? Per chi non ha familiarità con l'organizzazione interna del Grande Oriente di Francia, l'articolo 5 del Regolamento Generale dell'Obbedienza prevede che: "La separazione dei poteri è uno dei princìpi fondamentali del Grande Oriente di Francia. Il legislativo rientra nel Convento, che decide sovranamente su tutte le materie di interesse dell'Obbedienza. L'esecutivo è di competenza del Consiglio dell'Ordine. Il giudiziario è rappresentato dalle varie autorità della Giustizia Massonica: Consigli di Famiglia, Giurie Fraterne Regionali, Camera Suprema di Giustizia Massonica". Questi poteri sono, ovviamente, e come nella vita profana, indipendenti l'uno dall'altro. Nessuna interferenza.

Tuttavia, la Suprema Camera di Giustizia Massonica ha recentemente dichiarato ammissibile una domanda di annullamento di una decisione del Consiglio dell'Ordine, depositata da una loggia. Passando sopra il fatto che questa domanda sarebbe dovuta essere presentata, invece, al Convento, nel procedimento, in data 15 gennaio, la Camera ha annullato la decisione impugnata con sentenza di primo e ultimo grado, escludendo ogni possibilità di ricorso. Tuttavia, i regolamenti non lo consentono.

Una vera e propria falsa denuncia molto strana

Si sarebbe discusso amaramente su tutto ciò se non si fosse improvvisamente scoperto che la camera querelante non si era riunita il 20 dicembre per votare sulla denuncia, come peraltro preannunciato nella denuncia stessa. Il che significa che è né più né meno che un falso, che indubbiamente porterà qualche problema a sua volta ai suoi autori, e che è ipso facto nullo e mai avvenuto. Fine della storia? Forse, ma ci si può anche chiedere perché la Suprema Camera di Giustizia Massonica abbia accettato una denuncia così grave senza prendersi la briga di verificarne l'ammissibilità (vedi Verbale della Tornata dove era stata votata). Fretta, incompetenza o desiderio di usare la giustizia allo scopo di un regolamento di conti "politici"?

Cronaca di una catastrofe annunciata

Jean-Philippe Hubsch, l'unico condannato nella causa, mentre gli altri Consiglieri dell'Ordine implicati sono stati assolti, ha denunciato un "giudizio iniquo" della Camera nei suoi confronti, dichiarando che: "La Camera Suprema di Giustizia Massonica non rispetta il Regolamento Generale. Ha semplicemente creato una nuova istanza di giudizio, l'Assemblea Plenaria, che decide sovranamente in prima e ultima istanza, senza possibilità di ricorso!".

Inoltre, giudicare "in primo e ultimo grado senza possibilità di appello" è assurdo e scandaloso. Ci troveremmo davanti a un tribunale speciale, come nei giorni più "belli" delle dittature?… Sul ricorso, inoltre, è chiarissimo anche l'articolo 141 del Regolamento Generale già citato. Nel suo comma 6E si precisa che "Tutte le decisioni, eccetto quelle pronunciate in ultima istanza, sono impugnabili". Non esiste una "prima e ultima istanza" al Grande Oriente.

È tutto molto complicato e fastidioso…

Allora? I giudizi della Suprema Camera di Giustizia Massonica nella sua "Assemblea plenaria" sarebbero validi, e quindi non c'è più un esecutivo legittimo nel Grande Oriente di Francia, oppure la Suprema Camera di Giustizia Massonica ha superato i propri poteri, e a quale autorità spetta constatarlo e dichiararlo?... Il Convento, sembra. Ma la domanda non gli è stata posta... E allora cosa resta? La giustizia profana?...

©Géplu, Blog Maçonnique Hiram.be

 

CONCLUDENDO… con Hannah Arendt

 

di Barbara de Munari

 

 

Abbiamo rilevato, all’inizio, come il rapporto tra etica e diritto nel corso della storia umana sia sempre stato ambiguo e come il diritto sia la scienza della coesistenza regolata da norme giuridiche che dovrebbero basarsi su princìpi etici, mentre l'etica sia invece la capacità di discernere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, e come, ancora, essi non sempre coincidano o mirino allo stesso obiettivo.

La storia dell'etica è costituita dalla successione delle riflessioni sull'uomo e sul suo agire e i filosofi hanno da sempre riservato un notevole spazio ai problemi etici. E non vi è dubbio che quando leggiamo in ogni codice penale che l'omicidio è uno dei più gravi delitti, punito con le sanzioni più severe, non possiamo non sentire l'eco del comandamento: Non uccidere.

D'altra parte sappiamo bene che, di là da un indispensabile nucleo essenziale di valori condivisi, nelle società multietniche e multiculturali imporre con la legge un precetto religioso o morale può significare una grave pressione sulla libertà delle persone e dei gruppi. Alla base, infatti, di ciascuna concezione dell'etica, sta la nozione del bene e del male, della virtù e una determinata visione dell'uomo e dei rapporti umani. E tali idee sono spesso correlate a una particolare religione, o comunque a un'ideologia.

 

Peraltro i punti di contatto tra etica e diritto sono svariati, anche se nella storia dell'uomo vi sono stati molti casi in cui il diritto non ha seguito la morale, come ad esempio nel caso delle leggi di Norimberga del 1935, in Germania, o delle leggi razziali italiane del 1938. Dall'altra parte, vi sono molti casi in cui l'uomo ha rifiutato il diritto, con il fine di seguire la propria etica. È il caso, ad esempio, dell'obiezione di coscienza, che è un comportamento con origini molto antiche nella storia dell'uomo. E Sofocle, nella sua tragedia Antigone, aveva già, all'epoca, posto l’accento sull'eterno conflitto presente tra legge umana (atto giuridico) e divina (riflesso della coscienza) e di come una delle due leggi potesse sovrastare l'altra.

 

I valori etici del diritto si basano innanzitutto sui Diritti umani, in altre parole quei valori dati da quello che noi consideriamo giusto. Di Diritti umani si è cominciato a parlare ampiamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. In Europa, in particolare, vige un insieme di regole che riconoscono tali princìpi come fondamentali. La Dichiarazione è, infatti, la base comune che informa tutto il sistema giuridico europeo.

Ancora, non si può non osservare che diritto, religione e morale sono sempre in necessaria relazione fra loro, ma allo stesso tempo irriducibili l'uno alle altre. L'esperienza politica del continente europeo nell'ultimo secolo ha assistito alle gravi conseguenze che si generano quando la legge, volendo imporre un assetto di valori, è divenuta forza tirannica e totalitaria, nella forma di uno stato etico che è stato inevitabilmente assoluto. Ma lo stesso è accaduto quando, all'opposto, si è tentato di separare totalmente il piano del diritto dal piano della morale, sotto l'influsso del positivismo giuridico: allora la legge ha finito per divenire un puro atto di volontà, indifferente al contenuto del comando che essa poneva. E così, per altra strada, la storia d'Europa è di nuovo stata attraversata dall'esperienza di un nuovo stato assoluto di diverso segno. Dopo la tragica epoca dell'ingiustizia della legge, con le leggi razziali italiane e tedesche degli anni '30 del Novecento, si è compreso che il diritto e la giustizia dovevano tornare a dialogare, e che il diritto e la morale dovevano gravitare su orbite distinte, ma non del tutto distanti e separate.

Piero Calamandrei diceva: "Non bisogna scoraggiarsi. Non bisogna − solo perché nei periodi di generale turbamento sociale anche i giudici soffrono di queste incoerenze − cessare di avere fiducia nella giustizia". Siamo negli anni ’50 del secolo scorso, quando questi pensieri erano annotati sotto il titolo «Crisi della motivazione». Ma oggi non hanno perso di attualità: sia pure con le evidenti differenze, anche oggi siamo in presenza di un "trapasso storico" e di un "generale turbamento sociale", con un conseguente dissidio tra legge e giustizia, che si scarica essenzialmente su quest’ultima, nonché sulla motivazione dei suoi provvedimenti, principale veicolo di legittimazione della giustizia stessa. La motivazione è, infatti, il luogo, lo strumento, il momento della trasparenza, del rendere conto, e della coerenza della decisione adottata (per lo più prima della motivazione).

La "crisi della motivazione", riflesso del dissidio tra legge e giustizia, conduce, in alcuni casi, a motivazioni in aperto contrasto con il dispositivo. Anzi, che puntano addirittura a screditare il dispositivo. Si tratta delle cosiddette sentenze suicide sentenze polemiche, di cui si è parlato, a titolo di esempio, nella Terza Parte di questa Tavola Rotonda.

Concludendo, con Hannah Arendt

Nessuno stato rinuncia volentieri al diritto di processare i propri cittadini”.

 

Tutti i fatti possono essere cambiati e tutte le menzogne rese vere...

Ciò in cui ci s’imbatte non è tanto l'indottrinamento, quanto l'incapacità o l'indisponibilità a distinguere tra fatti e opinioni [e preconcetti, N.d.A.]”.

 

La volontà di potere, per come l'era moderna da Hobbes a Nietzsche l'ha recepita, lontano dall'essere una caratteristica dei forti, è, come l'invidia e la grettezza, tra i vizi dei deboli, e probabilmente anche il più pericoloso di questi.

Il potere corrompe davvero quando i deboli si uniscono per rovinare i forti, non prima”.

 

 “La prima battaglia culturale è stare di guardia ai fatti”.

 

©Barbara de Munari

 

APPENDICE

I 36 Giusti che mantengono il mondo in vita

e il Movimento Mussar

A cura di Barbara de Munari e Alessandro Yoram Nathan Scuderi

 

 

Se si parla di Etica ebraica, non si può non accennare ai 36 Giusti che mantengono il mondo in vita ed al Movimento Mussar, che fa capo al Rabbino Israel Salanter.

 

«È fama che non v’è generazione che non conti quattro uomini retti che segretamente sorreggono l’universo
e lo giustificano davanti al Signore. […]
Ma dove trovarli, se vivono sperduti per il mondo e anonimi
e non si riconoscono quando si vedono
e se neppure essi conoscono l’alto magistero che esercitano?»

(Jorge Luis Borges – Aleph)

Si dice che in qualsiasi momento della storia umana esistano nel mondo 36 persone speciali, e se non fosse per queste persone, tutte queste persone, e se anche una sola di esse mancasse, il mondo finirebbe.

Le due lettere ebraiche che formano il numero 36 sono lamed, il cui valore numerico è 30, e vav, il cui valore numerico è 6.

Di conseguenza queste 36 persone vengono citate come Lamed-Vav Tzadikim. Il Talmud afferma che in ogni generazione 36 Giusti “accolgono la Shekhinah” – la Presenza Divina (Trattato Sanhedrin 97b; Trattato Sukkah (Talmud) 45b).

La tradizione ebraica ritiene che le loro identità siano sconosciute anche tra loro stessi e che, se uno di loro giunge a comprendere il vero scopo della propria esistenza, allora potrebbe morire e sarebbe immediatamente sostituito da un altro Giusto.

Lamed-Vav Tzaddikim sono anche noti come Nistarim (“nascosti”). Essi, emergendo dal loro occultamento volontario e, grazie ai poteri spirituali che possiedono, riescono a scongiurare gli incombenti disastri di un popolo perseguitato dai nemici che lo circondano. Poi tornano al loro anonimato non appena il loro compito è finito, ‘nascondendosi’ nuovamente nella comunità in cui vivono relativamente anonimi. I lamed-vavnik (abbreviazione yiddish), sparsi come sono in tutta la diaspora, non si conoscono tra loro. In occasioni molto rare, uno di loro viene ‘scoperto’ per caso, ma il segreto della sua identità non deve essere divulgato.

I lamed-vavnik stessi non sanno di far parte dei 36 Giusti.

Infatti, la tradizione vuole che se una persona asserisse di essere uno dei 36, questa sarebbe la prova che certamente non lo è.

Poiché ognuno dei 36 è modello di anavah (“umiltà”), tale virtù gli precluderebbe la propria auto proclamazione (di essere tra i detti Giusti). I 36 sono semplicemente troppo umili per credere di essere parte dei 36.

Nello Zohar è scritto che gli Zaddiqim anche morti sono [come] vivi (cfr. Mosè e Re David) e i malvagi, anche in vita, sono come morti.

Abbiamo già detto che l’Etica ebraica indica un'intersecazione dell'Ebraismo con la tradizione etica del Mondo occidentale.

Come per altri tipi di etica religiosa, la numerosa letteratura sull'Etica ebraica intende rispondere a una vasta gamma di questioni morali e, quindi, può essere classificata come "etica normativa".

Per due millenni il pensiero ebraico ha affrontato il problema complesso del rapporto legge-etica e la tradizione della Legge rabbinica (nota come Halakhah) esamina numerosi problemi spesso associati con l'etica, compresa la relazione dinamica con i doveri che non sono usualmente puniti dalla legge.

Temi prioritari dell'etica biblica sono Giustizia, Verità e Pace; Carità, Amore e Compassione; Amor proprio e rispetto verso se stessi e verso gli altri e i profeti biblici esortano tutta la loro gente a condurre una vita giusta.

Carità ai bisognosi, Benevolenza, Fede, Compassione per chi soffre, una disposizione ad amare la pace e uno spirito veramente umile e contrito, sono le virtù che i Profeti incitano a emulare. La lealtà civica, anche verso un governante straniero, è data come dovere (Ger. 29:7). "Impara a fare del bene" è l'avviso dominante dell'invocazione profetica (Isaia 1:17); in tal modo la fine del tempo sarà una fine di pace e di giustizia e non ci saranno più guerre (Isaia 2:2 et seq.).

 

In epoca moderna, l'Etica ebraica ha prodotto molte riflessioni, in parte a causa di sviluppi nell'etica moderna e in parte a causa della formazione di varie correnti di pensiero ebraiche.

Tra le tendenze di etica normativa ebraica moderna è interessante ricordare la tradizione pietistica Mussar, con l'insegnamento di Rabbi Israel Salanter (XIX secolo), fondatore del Movimento Mussar in Europa orientale: il Movimento Mussar (o semplicemente Mussar) è un movimento educativo, etico e culturale ebraico, sviluppatosi nell'Europa orientale, particolarmente tra gli Ebrei askenaziti ortodossi della Lituania e nacque durante l’epidemia di colera in questa terra, a metà dell’Ottocento, per cercare una risposta nel pensiero ebraico.

Il termine ebraico Mussar (מוּסַר) deriva dal Libro dei Proverbi (Proverbi 1:2), e significa "condotta morale", istruzione o disciplina.

Questa parola era usata dal movimento Mussar per fare riferimento all'osservanza e allo sviluppo della disciplina etica e morale e, infatti, il movimento Mussar ha dato grandi apporti all'etica ebraica.

Si parla anche dell’uso del Mussar e dell’etica dei Saggi per mantenere l’equilibrio in un mondo instabile, come rimedio alla confusione del mondo odierno.

Il Movimento è nato ai tempi della diffusione del chassidismo, con il quale ha diversi punti in comune, pur essendo stato fondato dai suoi “oppositori”; in verità i suoi insegnamenti, volti al “perfezionamento morale”, sono un qualcosa di molto antico e ben radicato nella tradizione ebraica. Come disse lo stesso Rav Salanter, il suo Movimento non ha inventato niente di nuovo ma ha ripreso ciò che hanno affermato testi medioevali fondamentali come I Doveri dei cuori del Maestro Bahya ibn Paquda, Il sentiero dei Giusti (La Mesillat yesharim) del Ramchal e il Sefer Ha Chassidim.

Diversamente dal chassidismo, secondo il quale il chassid (l’ebreo pio) deve aspirare sempre a qualcosa di più, Rav Salanter disse che bastava che le persone studiassero la Torah, e si rivolgeva a un mondo già molto osservante non certo alla società odierna.

Elemento centrale del Mussar è proprio l’attenzione alla parte psicologica e interiore dei singoli e il controllo costante delle due pulsioni, il “Desiderio” (Taavà), che ha un potere fortissimo su di noi, e lo “Yetzer Ha Ra” (Istinto al Male).

Da qui la necessità dell’autocontrollo, cercando di imparare a prevenire difetti e debolezze e dominando se stessi.

C’è sempre qualcosa da costruire, con pienezza, integrità, condivisione. E questo “qualcosa” è sempre orizzonte e chiamata, reinventandosi ogni giorno le aurore.

©a cura di Barbara de Munari e Alessandro Yoram Nathan Scuderi

 

 

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