LABUBU PARLA YIDDISH
E se, dietro i denti aguzzi e i capelli arruffati, i Labubu nascondessero un'anima yiddish? In questa storia di fantasia, un piccolo mostro proveniente da uno shtetl interstellare arriva a Parigi, parla yiddish e conduce la sua nuova "mame" in un'odissea cosmica tra cibo fritto, dipinti del Louvre e una ricerca d'amore. Una favola in cui l'umorismo ebraico flirta con la fantascienza.
Di Alice Pfeiffer, traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari. 03 ottobre 2025
Chi mi conosce sa che vivo ogni tendenza passeggera come se fosse la prima e l'ultima. Non sorprende che non sia sfuggita alla febbre dei Labubu, quei giocattoli che non hanno bisogno di presentazioni. Anch'io ho un piccolo mostro peloso con i denti aguzzi da appendere al portachiavi. L'ho ordinato online e, fedele alla tradizione dei giocattoli, non l'ho scelto io: la scatola arriva sempre sigillata, è lei a scegliere te. Quanto ero ansiosa di scoprire cosa avesse in serbo per me la divinità dominante dei Labubesque! Non avrei potuto avere più ragione.
Un pomeriggio, la scatola è stata lasciata sulla soglia di casa mia. L'ho aperta con entusiasmo, ma in una frazione di secondo ho capito che qualcosa non andava. Ho aperto la confezione dall'alto e ho notato che il suo cranio ispido era ostruito da una forma rotonda... È questo che credo di riconoscere? Il mio Labubu indossa davvero... una kippah. Ha dei riccioli laterali in poliestere, un abito con tzitzit che spunta, una barba folta e uno sguardo tormentato. Il mio Labubu è... ebreo. Un simpatico ebreo.
Penso che sia una cospirazione, credo di essere nel panico, ma non ho tempo di pensare: salta fuori dalla scatola da solo, come qualcuno che esce dalla vasca da bagno, e mi saluta con un "A gitn tog!"
Parla fluentemente yiddish. Indica la sua scatola delle consegne e mi chiede di stare attenta con la sua rebbe-mobile (marca Mastarati, ma utilizzabile tutto l'anno). Mi implora di calmarmi e si offre di prepararmi la ricetta tradizionale del labuburek di sua madre, se lo invito alla mia tavola e lo ascolto.
Insiste sul fatto che il crepitio della frittura abbia onde vibrazionali sinaitiche. "È da lì che vengo", mi dice, indicando con i mignoli il cesto di frutta sul tavolo della cucina, che improvvisamente si illumina. "Quella è la Stella di David", dice, agitando una clementina, "ma è tutto ciò che c'è; ruba la scena. Dietro, la Via Lattea di Sarah merita di essere vista, e fai attenzione al buco nero di Caino, che divora tutto ciò che incontra sul suo cammino, le tue lenticchie e altro ancora".
E lui? Viene dall'entroterra, Di Multiversn, uno shtetl interstellare costruito con mattoncini LEGOlem. "Devi attraversare il Supernoyekh, una Supernova che geme 'oy, nebekh' – è preoccupata, poverina".
Labubu, o meglio Labuju, è un esule cosmico che ha perso la sua fidanzata, Labubette: teme che sia caduta nelle grinfie di Dybbukemon, signore di ConstellaShoyn, la costellazione del "già", dove tutto nasce già vecchio.
E io in tutto questo? Mi assicura, con aria fiduciosa, che la mia missione inizia nello Shmasteroid, nella capacità di ascoltare le mie predisposizioni – a condizione che mi rivolga loro in yiddish. Rispondo, senza pensarci, "oy wey..." e credo di vedere le mie predisposizioni sospirare a loro volta.
Gli occhi di Labuju brillano alla mia reazione: ogni parola yiddish è un portale, una fessura semitico-temporale che sfida la gravità. "A chi lo dici!" sospiro. "Dobbiamo assolutamente andare al Louvre", dichiara. Ho scelta? "Ogni decisione è già un bivio". Incredibile, esclamo. E all'improvviso il ticchettio dell'orologio batte a ritmo klezmer.
Il Louvre non è solo un museo: è una mappa del cielo ripiegata su se stessa. Ogni stanza è una fessura che piega lo spazio-tempo. È qui che i multiversi coincidono, e che lo riporteranno a casa.
In metropolitana, il bip del mio abbonamento Navigo mi sussurra: "Nu?". Le stazioni si chiamano improvvisamente Cracovia-su-Orbita e Vilnius-su-Cosmo. Il multiverso sta cercando di insinuarsi nella memoria collettiva, e non possiamo biasimarlo. I passeggeri non reagiscono. Così mi rivolgo al controllore e gli chiedo se ci stiamo avvicinando al museo. I suoi occhi fissano il vuoto e, come ipnotizzato, risponde: "A bisl shoyn, a bisl nit" ("Un po' già, un po' non ancora"). "Grazie, Reb Marcel", dice Labuju, "saluti a tua sorella!"
Arrivando al Louvre, ribattezzato L'ouvre (forse non avevo mai aperto gli occhi?), Labuju si siede sulle mie spalle e mi guida con sicurezza. Attraversiamo la sala delle Ninfee di Monet. Mi sussurra: "A casa lo chiamavamo Moyshe". Immediatamente, i fiori si trasformano in barbabietole rosse, la superficie dell'acqua in borscht. Un pesce salta fuori dal dipinto e mi chiama: "Zay gezunt!"
Ma, pochi passi più avanti, Labuju si fa serio davanti a "La sposa" di Chagall: "Ecco, questa è casa mia. Ma qualcuno mi ha rubato la challah e la chuppah intergalattica". Tutti gli azzurri del quadro si animano, e la capra gli serba un silenzio complice.
E ora La Gioconda mi fa l'occhiolino, annuisce e sussurra: "Vos vilst du?". Le spiego che stiamo cercando Labubette. Volge lo sguardo verso La zattera della Medusa di Géricault, commossa dalla nostra ricerca. I suoi naufraghi urlano come un coro greco: "Che mensch!".
Capisco dalla loro eccitazione che la fidanzata è lì, in un altro dipinto-galassia. Vedo una silhouette femminile con un velo bianco uscire da un dipinto di Chagall per correre verso un contadino in un dipinto di Van Gogh (non dirò niente a Labuju, per solidarietà femminile), poi tuffarsi in un dipinto di Monet. Eccola! Nel borscht! Labuju salta subito verso di lei. Non sembra dispiaciuta di rivederlo. Spero che si prenda cura di lui, altrimenti dovrà vedersela con me, brontolo, sistemandomi lo scialle sulle spalle. Da dove è spuntato? All'improvviso, sento i peli ispidi sulle guance, mi restano solo quattro dita, tutte di plastica... e immerse nella pasta fillo. Il forno è acceso e la padella si sta scaldando. Sono a casa a Montreuil o in una cucina di Chagall? Ai miei piedi, un cartello recita: Madre e Figlio.
Labuju riappare dalla porta d'ingresso, raggiante: "Mamma, sei tornata! È qui, possiamo sposarci!" Mazal tov: sono la madre di un mostro di peluche. Ho sempre vissuto in un dipinto? Non sono stata io ad avere un figlio, è stato il Multiversn ad avere me.
In lontananza, la Torre Eiffel si illumina come un faro interstellare. Poi, una chuppah di luce scende dal cielo, fluttuando sopra di loro, pronta a riportarli nel Multiversn.
Improvvisamente, il Louvre e Parigi si inclinano: siamo senza peso, trasportati da uno shtetl volante. Vedo mio figlio Labuju e la sua fidanzata Labubette volteggiare in levitazione, amanti intrecciati e interstellari.
Non devi essere madre o un Labubu per diventare la sua madre ebrea. Spero solo che non dimentichi MameBu e, anche se i suoi viaggi intergalattici lo rendessero un Labubundista o un Labuborghese, io non mi muovo, aggrappata al muro del Louvre... e alla speranza che venga a trovarmi ogni giorno.
Fonte Tenoua