Riflessioni nel Tempo del Male

 

     Il filosofo Günther Anders (1902-1992) trasforma il motto di René Descartes (cogito ergo sum) in un cogitor ergo sum in versione laica: «Mi si pensa, dunque sono», riferendosi alla condizione esistenziale dell’uomo del XX secolo, alle tragedie della seconda guerra mondiale e della Shoah, della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki e, per quanto lo riguarda direttamente, alla sua situazione di profugo ed espatriato.

     Tutto, nel suo pensiero maturo, induce alla necessità di una riflessione sulla correlazione fra gli esseri umani. Marito di Hannah Arendt e cugino di Walter Benjamin, costretto a fuggire dalla Germania nel 1933 per le sue origini ebraiche, Anders scrive: «Io non ho avuto una vita. Non ricordo. Gli emigranti non ci riescono. Di quel singolare, 'la vita', noi, incalzati dalla storia universale, siamo stati defraudati».

     Anders si addentra con lucidità e amarezza in quella che a fatica menziona come vita (citata in latino nei suoi scritti) perché quello che gli è accaduto, i continui trasferimenti, prima a Parigi, poi in America, a New York e a Los Angeles, per fare ritorno in Europa nel 1950, stabilendosi a Vienna, con tutto quello che hanno significato in perdita di dignità e identità, lo hanno lasciato muto, spossessato di quelle qualità dell’esistenza che la possono rendere umana.

     Costretto a fuggire dalla Germania nazista, Günther Anders (registrato come Günther Siegmund Stern nei registri della comunità ebraica di Breslavia nel 1902) visse una vita da escluso, trascinandosi dietro un bagaglio apocalittico, come testimonianza di quella crisi del tempo lineare, il tempo del progresso, che Anders aveva declinato fin dalle prime opere. 

     Figlio dell'illustre psicologo Wilhelm Stern, ricevette una solida formazione umanistica. Assimilato come ebreo tedesco, allievo di Martin Heidegger e di Edmund Husserl, completò con quest'ultimo la sua tesi in filosofia nel 1923. Lo pseudonimo ‘Anders’ nacque da un invito del suo editore di Berlino a cambiare il suo cognome, Stern, in quanto era assai comune tra gli scrittori in Germania, suggerendo “qualcosa di diverso” (etwas anders in tedesco). Lui prese alla lettera il suggerimento e decise di chiamarsi “diverso”.

     Sposò nel 1929 Hannah Arendt, la sua brillante e inquieta allieva prediletta, da cui avrebbe divorziato nel 1937: il pessimismo di Anders era “difficile da sopportare”, confesserà lei in seguito, rivolta a Elfride Heidegger, mentre Anders, in un suo libro autobiografico, definirà la sua relazione con la Arendt come «il più grande amore della sua vita», anzi, «il primo e l’unico». Entrambi poi si risposarono, lui, dal 1945 al 1955 fu sposato con la scrittrice austriaca Elisabetta Freundlich; poi nel 1957 si sposò con la pianista ebreo-americana Charlotte Lois Zelka, morta nel 2001.

     Lei, nel 1940, sposò il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, con cui nel 1941 emigrò negli Stati Uniti d'America.

    Anders e Arendt non si lasciarono mai, in realtà, e rimasero sempre in contatto – anche da una sponda all’altra dell’oceano – sia durante la guerra, sia dopo, quando entrambi intrapresero le loro personali riflessioni sul Male e sulle sue cause contingenti. Un amore destinato e inevitabile.

     Scrive Anders: «Chiaramente il fatto che noi non abbiamo avuto una vita non significa che la materia della nostra esistenza sia stata povera. Se potessi radunare intorno a me tutte le figure che un giorno ho impersonato, o che mi hanno portato sulle loro spalle nel tempo e nello spazio fino a questo qui e ora, se potessi impilare dinanzi a me tutti i faits divers che mi sono capitati, ebbene, per numero e quantità tutto ciò arriverebbe a costituire una ricca esistenza umana. E tuttavia non emergerebbe nessuna singola vita, ma solamente vitae. Solamente vite, al plurale».

     Coraggio, malinconia, vergogna sono termini che tornano spesso in queste riflessioni. Il coraggio di «lasciarsi dare del codardo o del traditore», di vivere un’esistenza controcorrente, e spesso da oppositore, subendo ogni tipo di isolamento. Ma anche l’abisso della malinconia e della nostalgia, e la vergogna per le umiliazioni affrontate, per aver dovuto vivere mesi e mesi solo pensando a sopravvivere. «Hanno vissuto – sottolinea Anders – nella vergogna, per esempio, tutti quelli che, tradotti in un lager con la prospettiva di divenire rifiuti, sono stati costretti a trascorrere i giorni che restavano loro nell’attesa di essere eliminati. Rispetto a questa, la nostra vergogna era evidentemente puro privilegio. In effetti, chi è ancora vivo sente l’ingiustizia di tale privilegio come una vergogna ulteriore; ed esiste qualcosa come una comunità, piena di vergogna, composta da quelli che per caso non sono finiti nelle camere a gas».

     Hannah Arendt, invece, pur se toccata e infranta dal medesimo destino nello stesso Tempo del Male, riflette pragmaticamente con il suo sistema di analisi – influenzato da Heidegger – che contribuisce a renderla una pensatrice originale, trasversale ai diversi campi del sapere e delle specialità accademiche.

     Lei cerca di reagire con altri strumenti filosofici, adottando il concetto greco di φρόνησις, cioè la capacità di giudicare identificata anche con l'intuizione e che è in sostanza quella forma di conoscenza capace di indirizzare la scelta. Per la cultura greca questo concetto era la virtù principale dello statista, e del politico in genere, a differenza della saggezza, tipica del filosofo. Hannah Arendt ritiene che questa capacità rifletta quello che viene definito il senso comune, il buon senso, poiché si basa sulla natura del mondo in quanto realtà comune. Dunque l'oggettività del mondo viene, secondo lei, letta dalla soggettività dell'uomo attraverso i cinque sensi. Il giudizio, per la Arendt, deve essere affiancato al πείθειν ovvero alla capacità del persuadere, che lo statista o il politico devono possedere per entrare in empatia con la comunità.

     Lui fu il cofondatore del movimento antinucleare nel 1954. Pubblicò il suo diario filosofico di una conferenza internazionale su Hiroshima e la sua corrispondenza con il pilota Claude Eatherly che guidò la spedizione per lo sganciamento della bomba su Hiroshima. I suoi libri politicamente aspri dal 1960 inclusero una lettera aperta al figlio di Adolf Eichmann, un discorso sulle vittime delle guerre mondiali. Nel 1967 prese parte come giurato al Tribunale Russell per rendere pubbliche le atrocità del Vietnam.

     Lei, nel suo resoconto del Processo ad Eichmann (1960 – 1962) per il New Yorker (che divenne poi il libro La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme1963) sollevò, tra mille polemiche, la questione di come il male potesse essere non essere radicale: anzi forse era proprio l'assenza di radici, di memoria, il non ritornare sui propri pensieri e sulle proprie azioni mediante un dialogo con se stessi (dialogo che Arendt definisce due in uno e da cui, secondo lei, scaturisce e si giustifica l'azione morale) che aveva trasformato personaggi spesso banali in autentici agenti del male. Questa stessa banalità aveva reso, come accaduto nella Germania nazista, un popolo acquiescente, quando non complice, con i più terribili misfatti della storia, contribuendo a far sentire l'individuo non responsabile dei propri crimini, senza il benché minimo senso critico.

     E così espresse la sua protesta verso l'omologazione cui la costringeva la dottrina razzista della Germania hitleriana: «Se sottolineo tanto esplicitamente la mia appartenenza al gruppo degli Ebrei cacciati dalla Germania a un'età relativamente giovane è perché desidero prevenire taluni malintesi che insorgono fin troppo facilmente quando si parla di umanità. In questo contesto, non posso passare sotto silenzio il fatto che per molti anni ho ritenuto che la sola risposta adeguata alla domanda: chi sei? Fosse: un'Ebrea. Solo questa risposta teneva conto della realtà della persecuzione...».

 

     Lui riesce a trovare parole di gratitudine per essere riuscito a salvaguardare la propria lingua ed averne scoperta una nuova, o altre ancora, e per aver potuto dare spazio a quella vita intellettuale che ha permesso a tanti profughi di andare oltre «un’esistenza balbuziente » grazie alla scrittura. Proprio per questo, dice, «non c’è nessuno che meriti la nostra dedica quanto lei, la nostra maestra: l’epoca buona di miseria del nostro esilio».

     E afferma, in modo provocatorio, di essere un «conservatore ontologico, poiché oggi ciò che conta è più di tutto conservare il mondo, qualunque esso sia».

 

     Dopo il 1945 viviamo, per Anders, in un’epoca con una scadenza, potranno essere anni, secoli, forse millenni, ma una cosa è certa: nessuno di noi potrà assistere alle conseguenze che porteranno a un mondo senza l’uomo. E conclude, in un’intervista intitolata Sulla fine del pacifismo: «Nei cimiteri in cui riposeremo nessuno verrà a piangerci. I morti non possono piangere altri morti».

 

     E, piano piano, Günther Anders e Hannah Arendt si avvicinano di nuovo, le loro riflessioni filosofiche si incontrano e si incrociano, maturano nell’esperienza del Male – ritirandosi però, pure e intatte, nel momento escatologico.

     Dalla consapevolezza di ciò che stava accadendo all’umanità intera, nacque in Günther Anders l’esigenza di una nuova filosofia: un incrocio tra metafisica e giornalismo, cioè un filosofeggiare che tenesse al centro della riflessione la condizione odierna dell’uomo. Dopo lo sgancio dell’atomica, decide di dedicarsi all’impegno politico, interrompendo così la sua ricerca filosofica.

Questa scelta viene spiegata da Anders nel secondo volume de L’uomo è antiquato dove afferma: «sentivo assai più ineludibile il partecipare effettivamente alla battaglia combattuta da migliaia di persone contro una simile minaccia; e dunque, se ho piantato in asso il mio primo volume, è stato perché non volevo piantare in asso la cosa che in esso avevo rappresentata».

     Hannah Arendt, invece, difese il concetto di “pluralismo” in ambito politico. Secondo lei, grazie al pluralismo, il potenziale per la libertà politica e l'uguaglianza tra le persone si sviluppano. Importante è la prospettiva di inclusione dell'altro, ovvero di ciò che ci è estraneo.

 

     Senza grottesche e pericolose evasioni dalla realtà, feriti e consapevoli, impegnarono le loro Vite per amore del mondo.

©Barbara de Munari

 

 Ci sono sempre più versioni di ogni storia che viene raccontata al sorgere del sole, dopo una notte di baldoria tra sigari, canzoni e qualche bicchiere di troppo. Soprattutto nei bar di Plaza Garibaldi, a Città del Messico, un posto così ricco di tradizioni e leggende di origini sconosciute che molto spesso si intrecciano con la vita di alcune persone, che diventano leggenda anch’esse.

Chavela Vargas è stata una leggenda per gran parte della sua vita rara.

Aveva 17 anni, Chavela, quando finalmente arrivò a Città del Messico, nel 1936. Scappava dalla sua famiglia, dai suoi genitori che, quando si separarono la abbandonarono da una zia, perché nessuno dei due la voleva. Scappava dalla poliomielite, oramai completamente regredita, che da bambina la “ruppe” rendendola quasi cieca, ma che riuscì a superare anche grazie all’aiuto di uno sciamano che incontrò per caso, durante una delle sue primissime fughe da casa. Scappava da quel prete che le impedì di entrare in chiesa perché rara, strana. Perché amava arrampicarsi sugli alberi, indossare i pantaloni e legare i capelli in una grossa treccia e preferiva baciare le ragazze. Scappava dalla Costa Rica perché oramai le stava stretta, perché non era più la benvenuta.

Il Messico e la sua capitale erano in piena rivoluzione artistica e culturale. Intellettuali di e da tutto il mondo venivano attirati in questa giovane metropoli in fermento, mentre nel resto del mondo si respirava aria di guerra. Per Chavela era un sogno. Come altre prima di lei si accorse che qui le donne non dovevano chiedere il permesso di essere libere. Qui si poteva pretendere e ottenere rispetto per quello che si faceva. Tutto era possibile e tutto era consentito. Chavela voleva vedere l’alba tutti i giorni, voleva bere fumare sigari, voleva divertirsi e sentirsi libera. Soprattutto però, Chavela voleva cantare. E aveva una gran voce, Chavela.

I primi anni in Messico si trascinarono tra lavoretti improvvisati e nottate infinite, tra alcol e canzoni d’amore. Un giorno, però, un amico pittore o un’amica modella, secondo chi racconta la storia, le disse di una festa organizzata in quella casa dalle mura blu sempre frequentata da artisti e intellettuali. Chavela non conosceva nessuno, ma che importa. Non si rinuncia mai alla possibilità di fare baldoria e a della tequila gratis. Fu così che, mentre ballava davanti a un giradischi, con un sigaro in una mano e una bottiglia piena solo a metà nell’altra, la padrona di casa la notò.

Era una donna vestita con abiti tradizionali messicani, fiori nei capelli e delle sopracciglia pronte a spiccare il volo. Frida Kahlo le chiese di ballare. Chavela non tornò a casa quella notte, nemmeno in quelle successive. Sì fermò a Casa Azul per mesi. Era il 1939. Frida stava divorziando da Diego Rivera dopo averlo trovato a letto con la sua amata sorella. Si risposarono l’anno successivo perché, nonostante scappatelle e tradimenti di entrambi non potevano vivere l’uno senza l’altra. Chavela entrò nella vita di Frida come in tutte le storie che si rispettano: al momento giusto. Furono mesi di passione travolgente e intesa perfetta, fino al giorno in cui senza preavviso Chavela prese Frida da parte e le disse «Non posso fermarmi più, devo andare». E Frida forse rimase ferita, ma la lasciò andare.

 

Nel frattempo arrivarono i primi ingaggi nelle cantine, nei locali vicino a Plaza Garibaldi.

Le prime volte provò anche a seguire le regole, esibendosi in abiti femminili, indossando fiocchi e tacchi alti e a cantare le vivaci melodie della musica ranchera. Non funzionò, non si sentiva a proprio agio. Come darle torto. Come si fa a cantare con un abito che quando alzava le braccia nel mezzo della canzone mostrava tutto quello che c’era sotto? O a salire sul palco con quei maledetti tacchi che rischiavano sempre di farla cadere, davanti a tutti? Un giorno, senza dire niente a nessuno, si presentò sul palco con i capelli legati in una treccia strettissima e il suo amato completo da mariachi sotto al poncho rosso che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica. Prese la chitarra, se l’appoggiò al petto e cominciò a percuoterla. Cominciò a cantare, lentamente, con serietà, con la sua voce profonda ammorbidita dalla tequila. Il pubblico ne rimase stregato. Chi è questa donna sul palco che si veste come un uomo, che canta come un uomo? Chi è questa donna che stravolge il significato di una canzone che racconta la storia di una donna simbolo di libertà, facendola diventare ambigua, erotica? Chi è questa donna con il poncho rosso? Chi è questa Chavela Vargas?

 

Fu in questo periodo che incontrò José Alfredo Jiménez, già affermato musicista e compositore di ballate rancheras. Ben presto nacque un’amicizia destinata a cambiare la storia della musica messicana. Era il 1948. I testi di José Alfredo Jiménez erano scritti e pensati per essere cantati da uomini in pena da “amores y desamores”. Chavela, con il suo vestirsi da uomo, con il suo cantare senza mai cambiare pronomi, con il suo essere lesbica senza nasconderlo, senza mai nemmeno sbandierarlo prese questi testi, legati a una tradizione machista e li rese universali. Perché non c’è nulla di più universale dell’amore perduto e tradito, della nostalgia, della solitudine, il senso di vuoto e del dolore causato dall’assenza. Insieme spogliarono la musica ranchera di tutto ciò che era superfluo. La liberò dagli stereotipi folkloristici e festaioli, rivestendola di melodramma, della disperazione che segue le sbronze. A Chavela bastavano un paio di chitarre e la sua voce.

 

Chavela cominciò ad esibirsi nei teatri, dove continuò la sua vita sregolata tra alcol, donne e musica. La fama di quella donna dal poncho rosso superò i confini nazionali e arrivò ad Hollywood. Elizabeth Taylor, Clark Gable, Lana Turner. Scendevano fino ad Acapulco dove potevano passeggiare per la spiaggia senza essere fermati e passare le serate ad  ascoltare la calda voce di Chavela Vargas. Anche lei fu invitata al primo leggendario matrimonio tra Elizabeth Taylor e Richard Burton. Quella notte si narra che tutta Hollywood andò a letto con qualcuno. Il mattino dopo, al suo fianco, c’era nientemeno che Ava Gardner, che aveva un debole per lei da un po’. La grande festa finì nel 1973, con la morte di José Alfredo Jiménez, consumato dalla cirrosi epatica dovuta all’alcolismo. Il dolore, l’alcol, la solitudine la consumarono. Nel 1979 si ritirò dalle scene. Per 12 anni non diede più sue notizie. Pensarono tutti che fosse morta.

A El Habito, un piccolo locale di Città del Messico appena aperto e gestito da due ragazze, una seraa del 1991 cominciò a correre una voce. Sì, era proprio lei, Chavela Vargas, tornata dal mondo dei morti, venuta per ascoltare un po’ di musica. Com’era diversa però questa Chavela. I capelli quasi completamente bianchi, una ragnatela di rughe in faccia e il sorriso beffardo di sa di aver attraversato l’inferno ma di aver finalmente trovato la serenità. Solo il poncho rosso non era cambiato. Durante l’ultimo periodo del suo isolamento volontario aveva trovato rifugio in una comunità di sciamani ed era diventata una di loro. Non toccava alcol da allora. Ma erano 12 anni che non cantava più. Il palco la terrorizzava, e poi non aveva mai cantato sobria. Si ricordava del pubblico che pendeva dalle sue labbra quando cantava, della tensione che creava con i silenzi. Si ricordava del modo in cui la voce quasi si rompeva a metà delle note lunghe, come un lamento. E della pace che trovava quando cantava. Perciò salì sul palco, abbracciò la chitarra, cominciò a percuoterla.

Fu la rinascita. Riprese a fare concerti tutte le settimane, sempre a El Habito. In tutto il mondo si sparse la voce del ritorno di Chavela Vargas. Tutti volevano ancora sentir cantare quella sciamana con l’abito da mariachi sotto al poncho rosso. Perché quando cantava sembrava cantare solamente per te. Hai mai commesso errori nella tua vita, nelle tue storie d’amore? Sembrava chiederti. I tuoi errori sono un bene, ne valgono sempre la pena. Sono la cosa più importante che ti sia capitata. Fanne ancora se puoi. Anche io ne ho commessi tanti. E siamo qui entrambi.

Almodovar volle conoscerla per farla cantare per i suoi film. La portò a Madrid e a Parigi. Chavela cantò nuovamente nei teatri.

E cantò ancora e ancora.

Nel 2003 interpretò la canzone che la rese famosa in tutto il mondo, una delle canzoni  più conosciute e riconoscibile della tradizione messicana, La Llorona. La Llorona è lo spirito di una donna che piange la morte dei suoi figli. Nell’iconografia sudamericana rappresenta la morte. Lei che era stata creduta morta in vita ed era tornata. La cantò nel film sulla vita di Frida Kahlo. La vita a volte ha modi curiosi di incastrare tutti i pezzi.

Nel 2012, a 93 anni pubblicò il suo ultimo disco, quello dedicato a Federico Garcia Lorca, il poeta che adorava, morto troppo giovane durante la guerra civile spagnola.

Si ammalò gravemente pochi giorni prima del concerto di presentazione a Madrid. Non sembrava essere in grado di cantare. Lei volle provarci lo stesso. Cantò con un filo di voce. Sapevano tutti sarebbe stato il concerto di addio di Chavela Vargas. Lo sapeva il pubblico, lo sapeva lei.

Se quella sera non morì sul palco come avrebbe voluto forse è solo perché questa storia non è ancora stata raccontata abbastanza. O forse perché la Llorona in persona aveva deciso che Chavela sarebbe dovuta morire in Messico, nel suo Paese. Chissà.

Morì nella sua casa tra le montagne di Cuernavaca che l’avevano ospitata negli ultimi anni e che tanto aveva amato. Era il 5 agosto.

Il giorno del funerale i mariachi scesero si riunirono in Plaza Garibaldi per rendere omaggio cantando a quella bara coperta da un poncho rosso. Furono lacrime e festa, come nella migliore tradizione messicana. Tutti l’avevano ormai riconosciuta come uno di simboli della cultura messicana. Perché sì, lei era messicana. E se qualcuno le faceva notare che era nata in Costa Rica rispondeva «Noi messicani nasciamo dove cazzo ci pare», come amava ripetere.

 

©Barbara de Munari

 

«Sai» diceva Jean Daniel «è difficile fare buoni editoriali con posizioni sfumate. La polemica attira il lettore, la moderazione lo fa addormentare. Eppure, il più delle volte, solo la sfumatura è giusta. Questo è il mio sacerdozio».

Fiducia agrodolce di chi ha sempre cercato una forma di equilibrio, meno visibile delle frasi fatte con lo stampino. Frasi snelle e allusive, rimandi elaborati, ragionamenti duttili, Jean Daniel non scriveva con la falce, ma con il pennello, o con il fioretto, occupando le sue quattro colonne con una prosa sinuosa.

Ma, all'improvviso, sorgeva inevitabilmente la domanda che dovrebbe essere posta a tutti i professionisti del giudizio (e dellopinione). Si sbagliava?

In realtà, mai, o quasi: il risultato della vita di un oracolo sensibile al paradosso.

Mai? Per i razzisti, i colonialisti, i petainisti, gli stalinisti, i radicali di ogni tipo, gli ultraliberali o i marxisti, egli fu sempre in errore, un errore che in realtà era il loro. Jean Daniel ha sostenuto per tutta la sua vita la causa di una sinistra umanista, estranea agli eccessi e agli impeti di collera. Un po' come Camus di fronte a Sartre. Un "pensiero di mezzogiorno", lontano da follie rivoluzionarie o da esaltazioni insurrezionali, che teneva insieme libertà e uguaglianza. Sartre il radicale si è appannato. Camus rimane.

 

Nella storia intellettuale di una sinistra lacerata dalla storia, Jean Daniel non ha mai deviato.

Gollista nel 1940, allergico a Vichy, impegnato nella 2°Divisione corazzata del Generale Philippe Leclerc. Rispettoso dei sacrifici comunisti durante la guerra, consapevole del ruolo decisivo dell'Armata Rossa, ma antistalinista fin dall'inizio, vicino a Léon Blum alla Liberazione, avversario dei comunisti. Anticolonialista ma legato anima e corpo all'Algeria della sua infanzia, intimo del dramma dei Pied-noir, sostenitore dei ribelli e quindi bestia neradell'Algeria francese, tuttavia sospettoso dei metodi brutali del FLN e delle sue inclinazioni autoritarie. Gollista di nuovo dopo il maggio 1958 contro una parte della sinistra, per via della Resistenza e della capacità del Generale di uscire dalla guerra. Mendesista, molto “seconda sinistra”, ma scettico nei confronti del sogno di autogestione sessantottino, ragionevole rocardiano, mantenne legami con “l'avventuriero Mitterrand”, suggellati dalla letteratura.

Legato a Israele nella lotta per la sua sopravvivenza, ma presto critico nei confronti dei vincitori che non colsero l'occasione della vittoria del 1967 per forzare la pace, rispettato dall'opinione pubblica araba, legato alle élite magrebine e cattivo ebreo per la destra israeliana, che egli rimproverava costantemente richiamando il diritto dei palestinesi a uno Stato. Bersaglio del PCF per l’accoglienza a Solzhenitsyn e la denuncia del Gulag da parte dellObs, opponendosi tuttavia al conservatorismo del grande scrittore dissidente, che annunciava il ritorno del nazionalismo russo.

 

Laico, repubblicano, estraneo a qualsiasi pratica religiosa, ma spiritualista, amico di rabbini, vescovi o imam. Europeo, cosmopolita, ma patriota, legato alla Francia con tutte le sue fibre, antisovranista che conosce la forza del sentimento nazionale e comprende le inquietudini identitarie, universalista radicato, che rispetta la terra e i morti e tuttavia rifiuta qualsiasi confinamento identitario. Mitterrandiano dopo il 1981 – il legame con gli uomini di potere era il suo peccato minore, quasi il suo tallone d'Achille – nondimeno critico della sconsiderata politica economica della sinistra.

Sottile conoscitore delle ambiguità dell'Occupazione, ci si sarebbe aspettati che fosse indulgente nei confronti del giovane Mitterrand, che passò per Vichy prima di unirsi alla Resistenza. Scrisse invece uno dei testi più severi sull'amicizia di quest'ultimo con Bousquet, l'organizzatore della retata del Vel dHiv, proseguita dopo la Liberazione fino agli anni 80.

Fu opportunismo, morbido centrismo, pusillanime prudenza? Questo è quello che si diceva all'epoca, quando il saggio dellObs fu oggetto di innumerevoli e furiose polemiche.

Questo è il destino di chi sa pensare contro se stesso.

Sono accusati per il loro senso dell'equilibrio.

E ci rendiamo conto, dieci anni dopo, che i loro critici sostenevano tesi settarie e ridicole.

 

LAURENT JOFFRIN, Liberation

(Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari)

Jean Daniel, nato a Blida, nell'allora Algeria francese da famiglia ebraica algerina, di nazionalità francese grazie al Decreto Crémieux che, entrato in vigore all'inizio degli anni '70 dell'Ottocento, aveva conferito la nazionalità francese agli ebrei d'Algeria. Era l'undicesimo e ultimo figlio di Rachel Bensimon e Jules Bensaïd, commercianti. Molto presto Jean Daniel, il suo nom de plume, apparve meno attaccato alla sua identità ebraica che alla cultura mediterranea e alla cittadinanza francese.

Allievo del college di Blida, divenne, a quindici anni, un lettore regolare del settimanale Vendredi, un giornale della sinistra intellettuale, indipendente e favorevole al Fronte popolare. Appassionato di letteratura, il suo entusiasmo per il lavoro di André Gide lo portò a vedere l'URSS come un paradiso socialista. Per due anni si immerse nel marxismo sotto l'influenza dei libri prestatigli da un amico, Vicente Pérez. Ma nel 1936, leggere il libro di Gide Retour de URSS gli fece perdere le sue illusioni comuniste. Si ritrovò quindi in quella generazione di non comunisti segnata dall'episodio del Fronte popolare e dal socialismo di Léon Blum. Lavorò per alcuni anni al quotidiano Combat, diretto dall'amico Albert Camus. Successivamente, divenne capo del servizio politico e poi caporedattore del settimanale L'Express.

Fondò il settimanale Le Nouvel Observateur (di cui fino a giugno 2008 fu anche direttore responsabile). Fece parte del think tank della Fondazione Saint-Simon.

Intellettuale umanista, orientato politicamente a sinistra, nel libro La prison juive: Humeurs et méditations d'un témoin sostiene che gli ebrei, considerandosi il popolo eletto, si sono imprigionati. Le sue opere sono percorse dall'interrogativo sul ruolo della religione nella morale moderna. In Italia è stata pubblicata l'opera Resistere all'aria del tempo (Con Camus) [Mesogea, (2009)]

Jean Daniel è morto nel 2020, a 99 anni.

 

 

I massoni della California donano oltre $ 75.000 per i soccorsi in Ucraina al Comitato internazionale della Croce Rossa

SAN FRANCISCO, California, 21 luglio 2022 (GLOBE NEWSWIRE)

Masons of California, la più grande organizzazione fraterna del mondo, ha recentemente presentato una donazione di 76.500 dollari al Comitato Internazionale della Croce Rossa per fornire sostegno e soccorso ai cittadini ucraini. Il totale include i doni dei singoli massoni in tutta la California, nonché i contributi delle logge e della California Masonic Foundation.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa fornisce aiuti agli sfollati, medicinali e forniture alle strutture sanitarie, ripristina l'approvvigionamento idrico di milioni di persone e si impegna in numerose altre attività salvavita. Questo dono dei massoni della California andrà specificamente a fornire questo supporto vitale ai civili dell'Ucraina.

"La carità e il sollievo sono valori cari ai massoni ovunque e, come massoni, ci impegniamo ad aiutare i bisognosi in tutte le comunità", ha affermato Jeffrey M. Wilkins, Gran Maestro dei massoni della California. “Questo regalo al Comitato Internazionale della Croce Rossa fornirà importanti servizi al popolo ucraino nel suo momento più buio”.

È la prima volta che tre Giurisdizioni massoniche si uniscono per presentare un dono. Il Gran Maestro Jeffrey M. Wilkins della Gran Loggia della California, Jean-Claude Zambelli, Gran Comandante Sovrano del Consiglio Supremo della Gran Loggia della George Washington Union, e il Gran Maestro David San Juan dei Venerabil.mi Prince Hall Masons of California, Inc. erano presenti per presentare l'assegno e condividere il loro impegno per gli aiuti umanitari e la beneficenza.

A ricevere il regalo del Comitato Internazionale della Croce Rossa erano presenti Hanna Malak, amministratore delegato regionale, e Amy Currin, direttrice dello sviluppo.

Scopri di più sulla Grand Lodge of California sul nostro sito Web e seguici su Facebook e Instagram . Scopri di più sulla George Washington Union Grand Lodge su georgewashingtonunion.org. Scopri di più sulla Venerabilma Prince Hall Grand Lodge of California su https://mwphglcal.org .

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Les maçons de Californie donnent plus de 75 000 $ pour l’aide humanitaire en Ukraine au Comité international de la Croix-Rouge

SAN FRANCISCO, Californie, 21 juill. 2022 (GLOBE NEWSWIRE) – 

Masons of California, la plus grande organisation fraternelle au monde, a récemment remis un don de 76 500 dollars au Comité international de la Croix-Rouge pour apporter soutien et secours aux citoyens ukrainiens. Le total comprend les dons de maçons individuels de toute la Californie, ainsi que les contributions des loges et de la California Masonic Foundation.

Le Comité international de la Croix-Rouge distribue des articles de secours aux personnes déplacées, fournit des médicaments et des fournitures aux établissements de santé, rétablit l’approvisionnement en eau de millions de personnes et s’engage dans de nombreuses autres activités vitales. Ce don des maçons de Californie servira spécifiquement à fournir ce soutien vital aux civils ukrainiens.

« La charité et le secours sont des valeurs chères aux francs-maçons partout, et en tant que maçons, nous nous engageons à aider ceux qui en ont besoin dans toutes les communautés », a déclaré Jeffrey M. Wilkins, GrandMmaître des maçons de Californie. « Ce don au Comité international de la Croix-Rouge fournira des services importants au peuple ukrainien dans ses heures les plus sombres». 

C’est la première fois que trois Juridictions maçonniques se réunissent pour présenter un cadeau. Le Grand Maître Jeffrey M. Wilkins de la Grande Loge de Californie, Jean-Claude Zambelli, Grand Commandant Souverain du Conseil suprême de la George Washington Union Grand Lodge, et le Grand Maître David San Juan du Most Worshipful Prince Hall Masons of California, Inc. étaient présents pour remettre le chèque et partager leur engagement en faveur de l’aide humanitaire et caritative.

Hanna Malak, directrice générale régionale, et Amy Currin, directrice du développement, étaient présentes pour recevoir le cadeau du Comité international de la Croix-Rouge.

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Intervista dall'Europa #117 18 luglio 2022

INTERVISTA ESCLUSIVA A PAOLO LEVI

Corrispondente a Parigi per l'agenzia di stampa italiana ANSA

Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

 

A RIVEDER LE STELLE

 

Sei cresciuto a Roma e vivi a Parigi da diversi anni, sei italiano e decisamente europeista. Come conciliare queste diverse identità?

Le mie tre identità, romana, perché nel mio paese sei prima legato alla tua città, ma anche italiana ed europea, sono assolutamente complementari. Queste sono le stesse radici, la stessa cultura che trovo ovunque. A Parigi tutto mi parla di Roma e a Roma tutto mi parla di Atene; quando vedo la Chiesa della Madeleine penso al Partenone e ai templi che furono poi eretti in Italia. Esistono, certo, differenze tra noi, ma queste differenze sono la nostra ricchezza, poggiano su una base di valori comuni. È lo stesso movimento di civiltà che iniziò con Platone e che è giunto fino a noi, non si possono cantare le lodi di Rabelais senza conoscere Dante, non si possono cantare le lodi di Kant senza conoscere Platone. Ho avuto la possibilità di viaggiare molto in Europa e ho potuto constatare che ciò che ci univa era molto più importante di ciò che ci divideva. Sta a noi trasmettere il messaggio di Simone Veil che, dopo aver vissuto l'orrore dei campi, ha scelto la riconciliazione franco-tedesca e la speranza europea. Con la guerra di Putin, l'ideale dell'Unione Europea - "mai più guerra" - è in pericolo. Non possiamo rimanere indifferenti: spetta a tutti difendere i valori che ci costituiscono. Le 12 stelle dell'Unione Europea devono indicarci la strada.

Cosa metti in questa base di valori comuni?

La Libertà, lUguaglianza, la Fraternità, i valori dell'Illuminismo che si sono irradiati ben oltre i confini europei, le nostre radici giudaico-cristiane. Aggiungerei la laicità, il pluralismo, la parità di genere, la difesa delle minoranze e la democrazia, che è il nostro bene più prezioso. Le nuove generazioni che ci sono nate, che ci sono cresciute, devono sapere che nulla è mai acquisito. È come l'aria che respiriamo: ci rendiamo conto di quanto sia vitale quando inizia a mancarci. Questa base di valori comuni riguarda anche una certa “arte di vivere”. La cultura della condivisione, il gusto del dibattito, lo spirito critico sono parte di una tradizione europea. I caffè, le piazze, le strade a misura d'uomo, il nostro paesaggio così ricco e mutevole in così poco spazio, l'attenzione alla qualità piuttosto che alla quantità, tutto questo ci definisce e forgia la nostra identità. Questa coscienza europea deve risvegliarsi: non riconoscerla è come negare una parte di noi stessi. E dobbiamo garantire che il progetto europeo sia accessibile a quante più persone possibili, attraverso l'istruzione, la scuola, gli scambi, l'Erasmus o il servizio civico europeo. Umberto Eco diceva: "È pazzesco, quando vado a New York, in Giappone, in Cina, mi trattano come europeo, l'unico posto dove non mi riconoscono come tale è l'Europa!". Il problema viene anche da chi usa l'Unione Europea come capro espiatorio. È un meccanismo che può avere un interesse politico a breve termine. Ma, alla lunga, ci stiamo sparando sui piedi, a beneficio delle altre grandi potenze.

L'Unione europea spesso rimane poco percepita o fraintesa. Come promuovere il senso di appartenenza dei cittadini?

A un certo punto abbiamo smesso di essere noi stessi, magari facendo entrare paesi che, come il Regno Unito, non condividevano pienamente il nostro approccio e ci siamo persi lungo la strada.

Dagli anni '70 e '80 e fino al 2014 abbiamo costruito un'Europa liberale ispirata a un modello anglosassone che non corrispondeva del tutto al nostro progetto iniziale, abbiamo compiuto un cammino enorme. Tuttavia, il progetto europeo non può essere solo economico. Accanto a un mercato, abbiamo bisogno di uno spazio politico, di una dimensione spirituale e culturale. Per riaccendere la fiamma europea, dobbiamo riconnetterci con lo spirito originario dei Padri Fondatori. L'Europa è la culla dello Stato sociale, uno Stato in prima linea nella riduzione delle disuguaglianze. Ma lo Stato non può fare tutto, spetta anche alla società civile contribuire a questa costruzione creando legami transnazionali. Con le nuove tecnologie e la democratizzazione dei trasporti, questo sta divenendo sempre più facile. L'Europa è un'orchestra formidabile in cui ogni paese è una specie di strumento: tutti questi strumenti devono accordarsi per suonare la stessa musica. Una cosa mi stringe il cuore: in rue de Verneuil a Parigi, i passanti fotografano sempre la casa di Serge Gainsbourg, ma nessuno si ferma di fronte, al numero 6, davanti alla casa di Robert Schuman. Eppure Schuman fu un genio come Gainsbourg: è stato a suo modo un musicista, ha creato armonia e concordia in Europa, ha dato il "la" con la solidarietà di fatto. 77 anni di pace ininterrotta contro 1000 anni di guerre fratricide.

 

La crisi che stiamo attraversando può davvero rafforzare l'Unione Europea?

La storia ci dice che ogni crisi annuncia un Rinascimento. Nonostante il periodo difficile che stiamo attraversando, rimango ottimista nel senso che la pandemia è stata un acceleratore. È come se fossimo finalmente usciti da una forma di sonnambulismo. Nasce una grande speranza. L'edificio europeo ne esce molto più solido di quanto pensiamo. L'adozione del piano di risanamento, il 21 luglio 2020, è stata un momento storico. Dopo trent'anni di tanto denigrato “ipermercato” in Europa, abbiamo finalmente gettato le basi di quella che sembra essere una nuova forma di fraternità europea. Sembra che stia emergendo un'Europa più politica, sociale e solidale. È caduto un tabù! Una cosa mi stupisce: da giornalista mi sono occupato, in questi anni, di manifestazioni contro l'austerità a Parigi, a Roma, ad Atene. Nessuna era riuscita a cambiare la situazione. Ora l'Europa è riuscita nella sua scommessa, ma nessuno le è grato. In questa fase, però, è un ballon dessai, il piano di ripresa è legato alla pandemia; la vera sfida sarà farne uno strumento strutturale che potrà declinarsi in tutti i settori. Per l'Italia è una specie di test, perché essa ne è il principale beneficiario con 200 miliardi di euro e ha interesse a spendere bene questi soldi. I “frugali” ci tengono gli occhi addosso: se funziona, potremmo pensare di perpetuare questa nuova forma di solidarietà su scala continentale, altrimenti sarà un colpo a vuoto. Ma tutti noi abbiamo interesse a restare uniti, come hanno fatto Francia e Italia durante la pandemia. Dopo aver attraversato una delle crisi diplomatiche più gravi della loro Storia, questi due paesi fondatori dell'Unione Europea hanno agito come se formassero un'unica Repubblica, riuscendo a convincere i loro partner, Germania compresa, che era giunto il momento di porre fine a una Europa eccessivamente austera. Certo, le finanze pubbliche sono importanti ma non possono costituire la pietra angolare del nostro progetto che è, soprattutto, un progetto umanista e di civiltà.

La coppia franco-italiana può essere un'alternativa al motore franco-tedesco?

Non c'è Europa senza coppia franco-tedesca. Essa si è costruita sulla riconciliazione tra Parigi e Berlino e non è un caso che la sede del Parlamento europeo sia a Strasburgo, questa città cerniera tra due paesi che si sono tanto combattuti e che si sono riconciliati. Ma, mentre questo ingranaggio del motore europeo è fondamentale, non è tuttavia sufficiente per affrontare le sfide che questo nuovo millennio ci pone. Seconda e terza economia della zona euro, lItalia e la Francia possono dare un impulso alla costruzione di un'Europa più empatica e più vicina ai cittadini, cercando di trovare un equilibrio con una serietà di bilancio altrettanto necessaria. La firma del Trattato del Quirinale a fine 2021 o il rilancio dello storico gemellaggio tra Roma e Parigi rafforzano questo movimento. Sottoscritta nel 1956, l'unione tra la Città Eterna e la Città della Luce anticipava di un anno i Trattati di Roma firmati il ​​25 marzo 1957 dall'Europa dei Sei nella Sala degli Orazi e dei Curiazi in Campidoglio. L'uscita del Regno Unito, che non ha mai voluto veramente partecipare a questo progetto politico, è una straordinaria occasione per riconnetterci con la nostra essenza profonda.

Paese fondatore, l'Italia è da tempo uno degli Stati membri più filoeuropei. Ma negli ultimi anni i suoi sentimenti europei hanno avuto alti e bassi.

L'Italia ha vissuto un ondeggiamento euroscettico nel 2013 con la crisi economica e questa sfiducia è poi andata in crescendo, con la crisi del debito, poi con la crisi migratoria, dove si è sentita abbandonata e “tradita” dai suoi alleati storici. Lei, così filoeuropea, che tanto aveva contribuito alla costruzione europea con grandi personalità come Alcide De Gasperi o Altiero Spinelli, provò una grande frustrazione, come una forma di delusione amorosa. Ciò si è riflesso alle urne con la vittoria dei populisti, ovvero il Movimento 5 stelle (M5S) e la Lega. Dopo l'adozione del piano di ripresa, gli italiani, riuniti intorno a Mario Draghi, sono in parte ridivenuti gli euro-entusiasti di un tempo. Ma tutto ciò rimane fragile. L'attuale crisi politica, con le dimissioni di Mario Draghi, subito respinte dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ce lo ricorda in modo lampante. In un contesto così delicato per l'Italia e per l'Europa,  l'unità dovrebbe prevalere sui calcoli elettorali e sulla politica dei partiti, che sono un vantaggio per Vladimir Putin. Anche Matteo Salvini, che era il più antieuropeo per convenienza politica, ha drammaticamente rivisto le sue posizioni e sostiene il governo di unità nazionale. C'è da dire che i suoi elettori sono anche le piccole e medie imprese del nord Italia, i cui primi clienti sono Francia e Germania! L'unica che continua a tenere un discorso molto nazionalista è Giorgia Meloni, astro nascente dell'estrema destra, a capo di Fratelli d'Italia e convinta postfascista. Il problema è che i nazionalisti vorrebbero riportarci indietro di 70 anni: ci vendono delle nazioni in “mono” contro un'Europa ormai in “stereo”. Capisco la moda dell'usato e dei vinili: ma non si può trasformare il "vintage" in un modello di società. Piuttosto che dividere, dovremmo approfittare dei prossimi mesi per realizzare due riforme cruciali: la revisione del Patto di stabilità e crescita e la fine del veto in Europa. Non c'è autonomia europea possibile con la regola dell'unanimità, perché così si corre sempre il rischio di avere un cavallo di Troia, come Viktor Orban per esempio. Sono favorevole alle liste transnazionali alle prossime elezioni europee del 2024 per rafforzare la nostra democrazia e partecipare all'avvento di un vero dibattito pubblico europeo.

Nuove minacce incombono sulla zona euro: inflazione, rischio di recessione, aumento dei tassi d’interesse. Che cosa consigli per riformare il Patto?

Le regole attuali, 3% di deficit - che contribuiscono ad alimentare la frustrazione anti-europea - e 60% di debito, sono troppo rigide e ormai obsolete. Sono necessarie regole più flessibili, più orientate al DNA dell'Europa, che ha un urgente bisogno di liberare il suo potenziale, attraverso la crescita e gli investimenti. Questa riforma del Patto di Stabilità e Crescita e la fine dell'unanimità su diverse questioni sono una questione di sopravvivenza; o lo facciamo, oppure ogni Stato membro diverrà in pochi anni un semplice satellite degli Stati Uniti, della Cina o della Russia. È ora o mai più, nel senso che siamo davvero giunti alla fine di un ciclo. In molti ambiti si assiste a un forte ritorno dell'Europa: non c'è motivo per cui essa non debba essere una grande potenza. È il continente più ricco del mondo, un modello per molti paesi. Quando sono uniti, saldi, solidali, gli europei sono più forti. L'Unione Europea è "il più grande progetto politico nella storia dell'umanità", diceva Antonio Megalizzi, il giovane giornalista italiano morto sotto i colpi del terrorismo nel 2018 al mercatino di Natale di Strasburgo. Critichiamo molto l'Europa perché spesso la consideriamo come un qualcosa di realizzato. Ma l'Europa è un work in progress, con i suoi difetti e le sue mancanze. È un progetto in perenne costruzione. Ogni generazione può e deve fare la sua parte perché tutte le battaglie attuali, siano esse climatiche, digitali, industriali, etc., sono più efficaci su scala europea.

Lo status ufficiale di candidato all'Unione Europea è stato appena concesso a Ucraina e Moldova. Cosa ne pensi del progetto di una comunità politica europea che consenta ai paesi impegnati in lunghi negoziati di adesione di essere più strettamente associati?

L'architettura europea è complessa e a volte è un vero rompicapo capire come funziona. Quindi non c'è bisogno di complicarla ulteriormente e non sono molto convinto di questa idea di comunità politica europea. D'altra parte, è importante, ed è un segnale forte, aver concesso lo status di candidato all'Ucraina, anche se sarà importante prendere il tempo necessario per completare i 35 capitoli negoziali. Il destino europeo dell'Ucraina è iniziato prima, a metà marzo, quando il Paese si è staccato dalla rete elettrica russa e si è connesso alla rete europea. Poco dopo l'inizio dell'invasione russa, l'Ucraina e l'Europa si sono date fisicamente la mano, unendosi l'una all'altra.

Ma questo riavvicinamento non rischia alla fine di porre una sfida molto grande per l'Unione Europea?

È ovvio che non potremo avere le stesse ambizioni o raggiungere gli stessi traguardi, che si sia 27, o 33 o 35, o 6 o 12. Questo non ci impedisce di creare una comunità di valori e di destino, con le istituzioni esistenti. Ma se vogliamo sopravvivere, dovremo preparare uno zoccolo duro capace di costruire l'Europa politica, con i paesi fondatori, la Spagna, il Portogallo e la Grecia, o a livello della zona euro. Questi paesi hanno la maturità necessaria, sono pronti a fare il salto. Possono cominciare a pensare a una forma di federalismo e porsi come guide, per indicare la strada, da nuovi pionieri, riprendendo la strada indicata dai Padri Fondatori alla fine della Seconda Guerra mondiale. Gli altri Stati membri sono i benvenuti, a condizione che condividano non solo i vantaggi di questa appartenenza, ma anche i doveri e i valori, in particolare in termini di Stato di diritto e di pluralismo. Sarà inoltre necessario fare in modo che chi sta fuori non blocchi chi vuole andare avanti, perché non c'è alcun motivo per cui chi vuole una maggiore integrazione sia impedito da chi è riluttante. L'Italia è pronta a questo salto federale perché lo ha già fatto in casa propria: gli Italiani sono convinti che se siamo riusciti a mettere insieme un torinese e un palermitano, possiamo mettere insieme anche un ateniese e un parigino, un berlinese e un romano. La mia Europa ideale non è affatto una megastruttura, un mastodonte tecnocratico dove tutto si deciderebbe solo a Bruxelles: è delegare i poteri all'Unione Europea dove, insieme, possiamo essere più efficaci, ma significa anche dare più potere a territori e a regioni. Questo potrebbe contribuire a calmare le frustrazioni. Si dovrà trovare un compromesso tra le diverse culture e le diverse sensibilità.

L'Europa di giugno 2022 è molto diversa da quella di gennaio 2022, ha affermato Emmanuel Macron, a Bruxelles, durante il Consiglio europeo. Sei d'accordo?

In termini di integrazione europea, il vero cambiamento è iniziato molto prima della guerra in Ucraina. Un primo passo è avvenuto nel luglio 2012, durante la crisi economica e finanziaria, quando Mario Draghi, allora Presidente della Banca Centrale Europea (BCE), si disse pronto al whatever it takes , “qualunque cosa serva”, vale a dire, per proteggere l'euro dalla speculazione internazionale. Da quel momento in poi, la moneta unica era salva. Una seconda fase di accelerazione si è verificata durante la pandemia di Covid, con il piano di ripresa NextGenerationEU e la nascita di un'Europa della Salute. Nonostante un inizio complicato, il piano di vaccinazione è stato un successo, è stato messo in atto in modo spettacolare e rapido. La terza fase è quella che stiamo vivendo ora con il ritorno della guerra nel cuore del nostro continente, che mostra come la pace non si acquisisca mai in modo duraturo, e con la consapevolezza che dobbiamo essere più uniti che mai. La difesa dei nostri valori diventa più importante di ogni altra cosa. Al momento, si decide il futuro dell'Europa per i prossimi anni: abbiamo la scelta tra superare le nostre divisioni per unirci o rischiare di romperci definitivamente.

Questa guerra segna anche il forte ritorno della NATO e dell'ombrello transatlantico, in particolare nell'Est. Il progetto di difesa europeo non è indebolito da questo?

No. Gli anni di Trump hanno dimostrato che l'America è un partner fondamentale, ma che può cambiare priorità in qualsiasi momento. Ad esempio, l'estate scorsa, quando gli Stati Uniti hanno lasciato l'Afghanistan. Sarebbe quindi miope tornare allo status quo e non creare uno zoccolo duro di difesa europea più solido. Questa è la condizione per essere una vera potenza rispettata nel mondo. Questo può essere complementare alla NATO, ma l'Alleanza atlantica non basta più, l'Europa deve uscire dalletà dellinnocenza e divenire padrona del proprio destino, anche dal punto di vista militare. In questo campo sono in gioco problematiche industriali molto complesse. Si tratta di una sfida da raccogliere.

Questo è un tema che è spuntato come un serpente di mare dopo il fallimento nel 1954 del progetto di Comunità europea di Difesa.

L'esercito europeo non si costruirà di certo dall'oggi al domani: sarà costruito per “solidarietà di fatto”. La crisi ucraina avrà un effetto di acceleratore per la difesa europea. È già necessario razionalizzare il settore, riorganizzarlo, sviluppare le sinergie, evitare le duplicazioni, individuare le aree in cui ogni Paese può essere più efficace. La Francia è in prima linea nel nucleare e negli aerei da caccia, l'Italia potrebbe avere altri asset, ad esempio nel settore navale. Ognuno potrebbe agire là dove è più forte e metterlo al servizio della collettività europea. Ciò consentirebbe di realizzare economie di scala e di essere più efficienti, dunque operativi. Ma ciò richiede la fiducia reciproca. Vengono regolarmente organizzate esercitazioni militari congiunte tra Francia e Italia. La fiducia dovrebbe essere la stessa tra tutti gli Stati membri.

I prossimi mesi si annunciano molto difficili, con la minaccia russa di chiudere il rubinetto del gas e il rischio di una crisi alimentare. Come rispondere?

L'Europa dovrà ancora mostrare solidarietà e unità e creare scorte energetiche comuni, per garantire la sua autonomia strategica a lungo termine. A medio termine, l'unica via d'uscita dalla dipendenza russa sarà l'importazione di gas naturale liquefatto (GNL); l'Italia è così riuscita a ridurre le consegne di gas russo dal 40 al 25%. Tutto questo si sposa perfettamente con il Patto Verde e lo sviluppo delle energie rinnovabili. La Storia ci sta inviando segnali potenti per pensare a un nuovo modello di solidarietà e sostenibilità. La mutualizzazione del debito è lo strumento più sicuro per far fronte a tutte queste turbolenze, compresa la perdita del potere d'acquisto. Poiché condividiamo gli stessi valori, non c'è motivo per non andare avanti insieme, mano nella mano; perché dividersi significa fare il gioco dei nostri rivali internazionali che non condividono i nostri valori. In tempo di guerra, dobbiamo unirci e cercare di superare le divisioni, liberarci per un momento dai nostri rispettivi ego per partecipare insieme alla costruzione di qualcosa di più forte della somma delle nostre individualità. D'ora in poi, è in gioco il nostro destino nazionale ed europeo. Qualsiasi forma di patriottismo richiede una dimensione europea. "Uno per tutti, tutti per uno", il motto dei Tre Moschettieri, non è mai stato così attuale. L'Unione Europea fa la forza. È giunto il momento di riaccendere le stelle!

 

Intervista condotta da Isabelle Marchais

 

La FONDAZIONE ROBERT SCHUMAN, creata nel 1991 e riconosciuta di pubblica utilità, è il principale centro di ricerca francese in Europa. Sviluppa studi sull'Unione Europea e le sue politiche e ne promuove i contenuti in Francia, Europa e all'estero. Provoca, arricchisce e stimola il dibattito europeo attraverso le sue ricerche, le sue pubblicazioni e l'organizzazione di convegni. La Fondazione è presieduta da M. Jean-Dominique GIULIANI.