Recentemente abbiamo pubblicato il testo di un’intervista concessa nel 1982 da Rav Elio Toaff, Rabbino capo di Roma, al giornalista Giampaolo Pansa in occasione dell’anniversario delleccidio di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto 1944).

In questa intervista Rav Elio Toaff narra, tra l’altro, di come sfuggì al plotone d’esecuzione, dopo un rastrellamento nazista contro le brigate partigiane, per puro caso, o per miracolo che dir si voglia.  Era condannato con altri compagni a scavarsi la fossa prima di essere giustiziato.

Elio Toaff racconta:

 

« All’alba del terzo giorno diedero a ciascuno di noi una pala e un piccone e ci trascinarono in un uliveto. Un tedesco prese le misure sul terreno poi ordinò: “Ognuno si faccia la fossa”.

Dopo un po’ che lavoravo mi dissi: “No, io non scavo più”. Gettai la pala e cominciai a pregare, allora si avvicinò un capitano delle SS. Mi chiese: “Perché non lavori?”.

“Perché sono malato di cuore”.

Chiese ancora: “Hai famiglia?”.

“Sì, una moglie e un bambino di un anno e mezzo”.

Lui mi disse: “Anche io ho moglie e un figlio a Vienna, sono austriaco, faccio il professore di matematica”.

Dopo questo dialogo, un po’ assurdo, il capitano se ne andò.

Verso mezzanotte si fece vivo il misterioso capitano di Vienna (il maggiore Walter Reder, un ufficiale della stessa età del rabbino Toaff, ventinove anni, che poi, successivamente, fu anche lartefice dell’eccidio di Marzabotto in cui furono trucidate 1836 persone, ndr) prese me e un altro giovane e ci spinse sulla strada mormorando: Via, via!, dopo un po’ cominciò a sparare in aria con la pistola, io mi nascosi in un campo».

 

Il bambino di cui Rav Toaff parlava con il capitano austriaco era Ariel Toaff, il suo figlio primogenito, destinato a divenire poi, anche lui, Rabbino e in seguito professore universitario a Tel Aviv, dove risiede attualmente.

In occasione del ricordo della ricorrenza dell’eccidio del 12 agosto 1944 abbiamo rivolto alcune domande ad Ariel Toaff riguardo ai suoi ricordi di quel periodo.

Ne è scaturita un’intervista intensa e molto particolare: si tratta dei ricordi incontaminati di un bambino negli anni bui dell’Italia tra il 1942 e il 1945 – e il cui Padre, Rabbino capo di Ancona dal 1941 al 1943, dopo la guerra e la parentesi veneziana dal 1946 al 1951, sarebbe poi divenuto Rabbino capo di Roma nel 1951. Ricordi familiari e intimi, preziosi e arcani, di una Famiglia ebrea negli anni della Seconda guerra mondiale del secolo breve.

Una Famiglia che Ariel Toaff ci fa conoscere, e di ciò lo ringraziamo, con i suoi ricordi di bambino, guardando senza essere visti

 

Mi chiamo Ariel e sono nato in Ancona il 17 luglio del 1942, di venerdì, nel primo pomeriggio, alle 15:37.

Ho visto la luce all'Ospedale cittadino, dove mia madre era ricoverata quando la mia famiglia viveva al primo piano della casa con il numero civico 27 in via Astagno, una stretta via che tagliava in due il quartiere del ghetto e si trovava a breve distanza dal porto. L'appartamento dove vivevo con i miei genitori è ancora oggi riconoscibile per il suo terrazzino, chiuso da un’inferriata bombata in ferro battuto, dove trascorrevo le ore seduto su un piumino con le mie scarpine di lana.

In via Astagno si trovava anche l’edificio che ospitava le due sinagoghe, l’italiana e la levantina, e dove mio padre, Elio Toaff, esercitava il suo magistero rabbinico.

 

Dopo l'entrata in guerra dell'Italia, avvenuta il 10 giugno 1940, l'Italia combatté contro gli Alleati quale membro dell’Asse, fino all’8 settembre 1943, data della firma dellarmistizio di Cassibile con gli anglo-americani, con la successiva invasione tedesca.

Come viveva la tua Famiglia a quell’epoca? Tuo Padre Elio Toaff riusciva a conciliare il suo ufficio rabbinico con la guerra in corso in Italia e l’emanazione delle leggi razziali del 1938?

 

Per la verità sarei dovuto nascere a Livorno nella casa di famiglia in via Ernesto Rossi, dove mi attendeva il corredino da neonato, ma il parto era stato molto difficile e laborioso.

Io infatti sono nato prematuro di otto mesi e apparivo magro e gracile. “Pesa come un pollo”aveva sentenziato il medico che aveva assistito al parto. Il professor Riccardo Fuà si era poi rivolto ai miei genitori, visibilmente preoccupati, mettendoli in guardia: “Non affezionatevi a questo bimbo perché non sappiamo se sarà in grado di sopravvivere e comunque di circonciderlo per ora non è neppure il caso di parlarne” e notava scherzosamente, dato che non avevo un capello in testa: “Questo bambino soffre di una calvizie precoce”…

Per mia fortuna la triste profezia non si avverava se sono qui dopo tanti anni a parlarne.

Nei giorni successivi, mio padre si recava alle autorità di polizia per registrare la mia nascita.

“Lo voglio chiamare Ariel” aveva comunicato al commissario fascista in quella circostanza.

“Non ci pensi nemmeno” aveva replicato il funzionario, “non è consentito mettere ai bambini nomi stranieri e questo finisce per consonante e non è italiano”.

Allora mio padre escogitò la scappatoia di chiamarmi Ariele e questo nome mi è rimasto fino a oggi nei documenti ufficiali come i certificati di nascita e il passaporto. Ciò non toglie che io sia chiamato Ariel da tutti coloro che mi conoscono o conoscono la mia famiglia.

 

Nonostante le leggi razziali e la situazione dell’epoca, in Italia e in Europa, fu possibile osservare i Precetti e praticare il culto ebraico?

 

La mia circoncisione avvenne il 28 agosto 1942 e ad eseguirla fu il medico Nathan Cassuto, cugino di mia madre, venuto appositamente ad Ancona da Firenze dove abitava.

Mio padre era la guida spirituale della Comunità ebraica di Ancona che contava circa cinquecento anime, per lo più italiani e levantini, con una piccola minoranza di rito ashkenazita.

In genere gli ebrei levantini erano molto più religiosi, osservanti e scrupolosi degli ebrei italiani, che in gran parte erano assimilati, quando non sulla via della conversione al cattolicesimo.

Nella sinagoga italiana ricordo ancora quando mi trovavo accucciato a fianco del seggio di mio padre il venerdì sera, all’entrata dello Shabbat, e imparavo i canti liturgici anconetani di cui fino ad oggi conservo la memoria.

 

Dopo l8 settembre 1943, con la recrudescenza della violenza nazista e le prime deportazioni italiane per i lager, tuo Padre Elio Toaff, con tua Madre Lia Luperini e con te, Ariel, fuggiste in Versilia, scampando allassassinio in casa con l'aiuto del parroco della vicina chiesa, che vi salvò avvertendovi dell'agguato, e facendovi poi fuggire con laiuto di famiglie cattoliche e alterando le generalità sui vostri documenti. Tra mille insidie, più volte tuo Padre scampò alla morte per mano nazista e nel 1944 entrò nella Resistenza, combattendo sui monti e vedendo con i propri occhi le atrocità ai danni di civili inermi.

Tu, bambino di poco più di un anno, cosa ricordi di quel periodo?

 

Con i miei genitori trascorsi le vacanze dell’estate del 1943 a Orciano Pisano nella fattoria Raccah per poi rientrare ad Ancona alla vigilia delle festività autunnali. Ma ai primi di ottobre, dopo il digiuno di Kippur, le truppe tedesche entrarono in città e rastrellarono il quartiere ebraico, chiudendo l'edificio delle sinagoghe in via Astagno. Per la mia famiglia era iniziato un nuovo esilio forzato, questa volta a Fabriano. Ma non sarebbe durato a lungo perché era preventivato il rientro a Orciano Pisano, che sembrava un centro più sicuro di Fabriano.

 

La lotta di liberazione italiana si concluse il 25 aprile 1945 e durante questo periodo l’Italia fu schierata, come cobelligerante degli Alleati, contro l'occupazione tedesca e il collaborazionismo repubblichino, attraverso la resistenza italiana e quanto rimaneva del regio esercito.

Da allora in poi, cosa successe nella tua Famiglia?

 

Nel gennaio del 1945 finalmente rientravamo ad Ancona nella casa di via Astagno in ghetto, sgombrandola dagli sfollati che l’avevano occupata. Non avevo ancora compiuto tre anni, ma a partire da questa data i miei ricordi si fanno più precisi.

Rivedo mia madre indaffarata nell’ampia cucina con l’impiantito di mattonelle rosse e il mio terrazzino con la balaustra in ferro battuto. Di fronte alla finestra della cucina si apriva a pochi metri, quasi a ridosso, sempre spalancata nei mesi estivi e autunnali, quella del “matto Volterra”, un omone corpulento di una cinquantina di anni, malato di mente, accudito amorevolmente dalla moglie, che vi stazionava stabilmente e gridava con voce stentorea, rivolto a mio padre: “Moro, moro, moreno mio, butta la pasta!”.

A me bambino non incuteva alcun timore ma mi faceva un po’ ridere.

Un altro ricordo di quel periodo, per me imbarazzante, mi riporta alla festa di Purim.

In quei giorni le vecchie sorelle Pace organizzavano a casa loro una lotteria per i bambini con ricchi premi. Un pomeriggio, di Purim, c'ero anche io con mio padre e mia madre (per inciso, visto che non ne ho parlato in precedenza considerandolo come un particolare ridondante, superfluo e in un certo senso improprio e anacronistico, debbo ricordare che io ero il figlio primogenito mentre mia sorella Miriam sarebbe nata più tardi, alla fine di ottobre del 1945).

Tra i premi della lotteria avevo adocchiato un modellino in latta di un'auto Balilla che mi piaceva. Non la vinsi ma mi feci giustizia da solo. Così me ne impossessai di soppiatto e la nascosi sotto la camicia. Ma mal me ne incolse. Mio padre se ne accorse e mi rimproverò, imponendomi di rimettere la Balilla al suo posto. Io protestai inutilmente e mio padre, per punirmi dell'insubordinazione, andò in cucina e tornò con un cucchiaino pieno di pepe.

“Devi imparare a non rubare e a non essere sfacciato” mi ammonì. Il pepe mi fu fatto ingerire a forza e ricordo la mia sensazione che la bocca e tutto il viso prendessero fuoco. Per fortuna mia madre accorse subito con un bicchiere d'acqua che mi fece bere in un sorso dopo avere lanciato un'occhiataccia a mio padre.

Così la situazione migliorò, almeno in parte.

I ricordi, anche quelli più lontani, non svaniscono, ma assumono nuove dimensioni e si arricchiscono quando vengono raccontati ogni volta di nuovo…

 

Nel 1987 ElioToaff pubblicò la sua autobiografia: “Perfidi giudei, fratelli maggiori”.

Nel capitolo ‘La Liberazione’ scrive:

«… Erano le sei in punto quando varcai la soglia di casa. Lia era in cucina, pronta per uscire… Vedendomi entrare, Lia rimase a guardarmi, incapace di muoversi. Diceva solo:  ̶  Allora Ariel aveva ragione… Anche la mia mamma, che aveva preso Ariel dal letto, non finiva di stringerselo al petto dicendo:  ̶ Aveva ragione, aveva ragione e nessuno gli credeva. Incuriosito, domandai che cosa era accaduto, che cosa aveva detto Ariel. Allora Lia mi raccontò che dal momento in cui i tedeschi mi avevano portato via, mio figlio, che stava sempre con me e non mi lasciava mai, non mi aveva più nominato, né aveva chiesto di me. La sera prima del mio arrivo, però, Ariel, vedendo che Lia piangeva, le aveva detto:   ̶  Mamma, non piangere, babbo torna domattina alle sei. Non era stato preso sul serio, ma ora che era accaduto quanto aveva previsto, ci rivolgemmo a mio padre per sapere come ciò fosse potuto accadere. E lui rispose con molta calma che la spiegazione si trovava nel Talmud, dove è scritto che “Dal giorno in cui il Tempio fu distrutto, la profezia venne tolta ai profeti e data ai pazzi e ai bambini”.

 

 

E nell’Epilogo scrive:

 

«… Mi sono astenuto dal parlare della mia Famiglia dopo la tempesta della guerra. […] Di mia moglie Lia […], dei miei quattro figli […], dei miei, per ora, undici nipoti, che Dio protegga e assista, che sono la luce dei miei occhi, la gioia della mia vita, il mio orgoglio.

[…] Ritengo di essere stato obiettivo nel raccontare e mi auguro che il lettore troverà qualche interesse nel venire a conoscenza degli eventi della vita di un rabbino, un personaggio insolito nella letteratura moderna, che ha vissuto un periodo non facile della storia contemporanea».

 

Così Rav Elio Toaff, con la sua capacità di pensare in maniere sorprendenti e trasversali, che spiazzava anche le persone più colte e intelligenti, da autentico studioso qual era, immerso nella cultura italiana ed europea. Ironico e tollerante ma sempre capace di indignazione, e così queste brevi memorie del suo figlio primogenito Ariel, con la loro storia straordinaria.

 

[Testi raccolti da Barbara de Munari]