Il Grande Inquisitore è un vecchio sui novant’anni, alto e diritto, con un volto scarno e occhi incavati da cui tuttavia si sprigiona ancora, quasi una scintilla infuocata, un lucente bagliore.

 

 

Un giorno, vestito non con gli abiti da cardinale ma con il suo vecchio saio monastico, si trova a passare davanti alla cattedrale proprio mentre un uomo pronuncia parole a lui note, “Talità kum, fanciulla àlzati”, facendo tornare in vita una bambina di cui si stava celebrando il funerale.

Il Grande Inquisitore riconosce all’istante che quell’uomo è Gesù tornato sulla terra, e non esita a ordinare alle guardie di catturarlo e di condurlo nel carcere dell’Inquisizione. Siamo in Spagna, a Siviglia, l’aria della sera profuma di lauri e di limoni, non è rimasta traccia dell’odore di carne bruciata del rogo del giorno prima su cui erano stati giustiziati i nemici della fede di Roma.

La notte stessa il Grande Inquisitore si fa aprire la cella del prigioniero, lo fissa per due lunghi minuti con una fiaccola in mano, poi posa la fiaccola e inizia un lungo discorso in cui può finalmente rivelare tutto ciò che in novant’anni si è portato dentro.

Il suo sapere consiste nella consapevolezza che gli esseri umani, sia a livello di singolo sia a livello di comunità, sono mossi da un eterno, angoscioso interrogativo: “dinanzi a chi inchinarci?”. Per l’uomo, dice il Grande Inquisitore, non esiste preoccupazione più grande e più penosa che cercare al più presto qualcuno dinanzi a cui inchinarsi. E aggiunge: “La preoccupazione di queste misere creature non consiste soltanto nel trovare ciò di fronte a cui io o un altro possiamo inchinarci, ma nel trovare qualcuno in cui credano tutti gli altri, che tutti venerino e, condizione imprescindibile, tutti insieme. Questa esigenza di un culto comune è fin dal principio dei secoli il massimo tormento di ogni individuo così come dell’umanità nel suo insieme.

Segue il rimprovero, sarcastico e insieme feroce, rivolto al prigioniero: “Questa è la verità, ma che cosa è accaduto? Invece di impossessarti della libertà degli uomini Tu l’hai resa ancora più grande! Invece di impossessarti della libertà umana, l’hai moltiplicata, aggravando in eterno con i tormenti della libertà il regno spirituale dell’uomo”.

Prendendo atto della dinamica delle masse, il Grande Inquisitore si rivolge al prigioniero con il seguente cristallino pensiero: “Esistono sulla terra tre forze, le uniche tre forze capaci di vincere e soggiogare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli al fine di renderli felici – sono il miracolo, il mistero, l’autorità. Tu hai rifiutato la prima, la seconda, la terza”. Gesù si è appellato alla libertà ed era inevitabile che finisse male: “Ignoravi che l’uomo, rifiutato il miracolo, subito dopo rifiuterà anche Dio, giacché non è tanto Dio che l’uomo cerca, quanto i miracoli”.

“Noi avevamo dunque il diritto di predicare il mistero e di insegnare agli uomini che non la libera decisione dei cuori né l’amore sono importanti, ma il mistero, a cui devono assoggettarsi ciecamente, anche contro la propria coscienza. Così abbiamo fatto. Abbiamo corretto la tua opera fondandola sul miracolo, sul mistero e sull’autorità.”.

“Domani stesso io ti condannerò e ti farò bruciare sul rogo come il peggiore degli eretici”. Alla fine del discorso, però, il vecchio vorrebbe che gli dicesse qualcosa, foss’anche qualcosa di crudele, di tremendo. Ed ecco che all’improvviso il prigioniero si avvicina al vecchio senza dir nulla e sempre in silenzio bacia le sue labbra esangui, di novantenne. E’ questa tutta la sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle sue labbra sono scossi da un fremito; si dirige verso la porta, la apre, dice al prigioniero: “Vattene, e non venire più… non venire mai… mai più!”. E lo fa uscire per le buie strade della città…

(da: Vito Mancuso, Obbedienza e Libertà, Roma, 2012)