9 MESI DAL 7 OTTOBRE, LA PEGGIORE GESTAZIONE

Di MIRA NESHAMA WEIL – Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

(Tenou’a)

 

9 mesi.

Nove da quel terribile “Sette” che non possiamo dimenticare.

È troppo simbolico per non vederlo, è così un cliché che saremmo tentati di non parlarne, ma poiché nulla in questa guerra, e soprattutto il suo trattamento mediatico, ci risparmia i cliché, parliamone.

Nove mesi, il termine di una gravidanza.

Ho voglia di vomitare perché siamo ancora qui.

In generale, queste due parole unite insieme: “neuf-mois” richiama un tenero sorriso, l'evocazione di quello che in francese chiamiamo un “lieto evento”.

Per noi questi nove mesi sono stati una lenta agonia, una gestazione delle peggiori – e peggio ancora, una gestazione non ancora finita.

Ogni settimana, ogni mese, mi ritrovavo scioccata dal fatto che fossimo ancora qui.

A ottobre avevamo contato i giorni; poi abbiamo contato le settimane; ora, i mesi.

 

Ricordo la mattina dei sei mesi. Era una domenica; mi sono alzata sbalordita dal fatto che fossimo ancora lì. Scrissi. Non potevo non scrivere. Non ricordo cosa ho scritto.

Erano passati 6 mesi, mezzo anno, e la guerra si trascinava.

Missili; soldati inviati al fronte. Annunci di morte. Bambini. Madri in lutto. Bambini orfani. Giovani donne improvvisamente vedove, bambini che si ritrovano la sera davanti ad un letto ormai vuoto.

Perché?

E poi quelli che tornano. Un braccio in meno. Una gamba in meno. A volte entrambi.

A volte peggio. Ma sempre, qualcosa in meno nell'anima.

Troppo rischioso, troppo sofferto. Troppo fatto, troppo visto.

Una volta che hai messo piede in guerra, è difficile tornare indietro.

Ritorneremo mai davvero dal lato oscuro?

 

Erano passati sei mesi, giorno dopo giorno, da quando persone come te e me erano state portate via dalle loro case, all'alba dello Shabbat Simchat Torah (letteralmente “la gioia della Torah”). In questo giorno doppiamente santo e doppiamente gioioso, sono stati attaccati di sorpresa da uomini incappucciati con fucili neri che gridavano “Allahu akbar” e li hanno picchiati a colpi di fucile.

Sono passati in mezzo alla folla festante di Kikar Phalestin, assaliti dal branco che si esibiva in grida di odio, ghignanti vittoria, con cellulari per filmarli, sigarette per bruciarli, bastoni per picchiarli.

Gli uomini incappucciati avevano colpito la faccia, e contemporaneamente fatto altre cose, a post-adolescenti di età compresa tra i 18 e i 19 anni che ancora oggi sono rinchiusi in prigionia.

Nei video del loro rapimento pubblicati recentemente dai loro genitori, li vediamo schiacciati contro un muro, con la faccia insanguinata, i pantaloni da jogging all'altezza delle natiche, insanguinati, ammanettati, il giorno del loro “arresto”.

Picchiare a morte i ragazzi, solo perché si è più forti.

 

Sì, quando vediamo il Nemico solo in faccia, possiamo picchiare a sangue le ragazze.

Tu con la tua pistola, il tuo coltello, la tua maschera e il tuo lavaggio del cervello.

Picchiare, e peggio ancora, una ragazzina che potrebbe essere tua sorella.

Poi nelle stanze chiuse degli appartamenti palestinesi, o nel sottosuolo per i meno fortunati, fino a quaranta metri in fondo a tunnel melmosi, rinchiusi, inattivi, isolati, privati ​​della luce e del movimento; privati della privacy; privati del rispetto; privati ​​del cibo, privati ​​del diritto di parlarsi.

Sono derisi; sono insultati; viene loro detto che tutti li hanno dimenticati; “meno di niente; scimmia; ratto ebreo; tua moglie è già partita con qualcun altro; tuo marito ti ha sostituita; i tuoi genitori ti hanno dimenticato; nessuno verrà a salvarti”. E molto peggio ancora.

Sono legati, sono colpiti; vengono osservati mentre fanno i loro bisogni; si penetrano i loro corpi ogni volta che si ha voglia.

La doccia è rara e la diarrea è troppo frequente. È perché si è mangiato di nuovo il labneh che è diventato acido. Lo si sapeva in anticipo, ma si era troppo affamati.

 

La madre di uno di quelli salvati un mese fa, Andrey Kozlov, dice che ha trascorso i suoi primi due mesi con le mani ammanettate. Il primo mese, sulla schiena.

Seduto. Senza fare nulla.

Aspettare. Senza sapere.

Chi riesce a mantenere la sanità mentale dopo aver attraversato tutto questo?

Anche per i sopravvissuti la domanda aleggia nel cielo: fino a che punto potranno vivere dopo?

Stavo rileggendo Charlotte Delbo, una combattente della resistenza francese sopravvissuta ad Auschwitz. Dice che per sopravvivere in seguito, ha dovuto imparare, non a dimenticare, ma a “disimparare”.

Uno dei volumi della sua opera s’intitola “Nessuno di noi tornerà”.

Ritorneremo mai da quello?

Noa è davvero tornata?

 

Eppure li aspettiamo.

Li stiamo aspettando. Il numero si assottiglia come l'ultimo filo di un brandello nella tempesta.

Più di 120; almeno quelli che si crede siano ancora vivi.

Abbiamo recuperato cadaveri; ne abbiamo tirati fuori alcuni vivi.

Aspettiamo gli altri.

Noi non sappiamo.

Loro non sanno.

Noa è uscita un mese fa.

Io non ci potevo credere.

Noa, oggi la conoscono tutti.

È diventata un triste simbolo del 7 ottobre, tanto più triste perché l'immagine di questa giovane donna così aggraziata, dal viso puro, che grida aiuto mentre tende entrambe le braccia verso il suo compagno ammanettato e tenuto da cappucci neri, presa in una morsa sulla moto, tra il conducente e quello dietro, che le impediscono di scappare, questa immagine così drammatica pubblicata sulla copertina dei giornali occidentali, ha incontrato troppo spesso giubilo revanscista tra alcuni e agghiacciante indifferenza tra altri.

Noa Argamani era stata detenuta per 8 mesi, prima che, miracolosamente, un'unità speciale dell'esercito israeliano riuscisse a trovare il suo nascondiglio e a liberarla.

Uno di loro, Arnon Zamora, ha perso la vita lì.

Chi prevede un destino simile per i propri figli?

 

Nel frattempo, i figli di Israele combattono ormai da 9 mesi. Sono ormai trascorsi 74 anni.

Una guerra continua per una brevissima esistenza statale, disseminata di eruzioni vulcaniche che ogni volta ci lasciano senza sangue.

Questa situazione, la più grave dallo Yom Kippur, dura ora per tutta la durata di una gravidanza a termine, ma non ne è venuto fuori nulla.

Nove mesi è un termine nelle leggi della natura. Ma le leggi della guerra sembrano al di sopra di esso.

Nove mesi di attesa e la guerra non è finita.

Con Hezbollah in gioco, esso promette addirittura, giorno dopo giorno, ora dopo ora, di esploderci in faccia.

Potrebbe significare questo, questa gestazione agonica?

Non la nascita della pace, ma la sanguinosa espulsione di un altro embrione di guerra?

Siamo entrati in una gestazione del peggio?

Voglio credere, con il pensiero chassidico, che da questo abisso possa uscire qualcosa di buono.

Rivolgo lo sguardo allo Zohar (Tetsave 86a) che ci dice:

«Le parole della Torah diventano chiare solo qui:

Perché non c'è altra luce

che quella che esce dalle tenebre.

(…)

Non esiste alcun Servizio del Santo, benedetto sia Lui,

Che attraverso l'oscurità

E non c'è nulla di buono

Che attraverso il male».

 

Oh Dio, che tu possa mantenere questa promessa!

 

Lo Zohar, che ribalta i cliché e sottolinea, come Edgar Morin diversi millenni dopo, la complessità di un mondo che possiamo cogliere appieno solo abbracciandone i paradossi, ci ricorda questa strana legge della natura: è grazie alla merda nel letame che le piante crescono meglio.

Potrebbe questa pessima gestazione diventare la promessa di una nuova rinascita?

Questa è la promessa della stirpe di Davide: il padre del futuro messia non è altro che il discendente di una moabita convertita, proveniente dal popolo acerrimo nemico di Israele, popolo frutto del primo incesto dell'umanità, quello di Lot e delle sue figlie.

La sfortuna, ci insegnano i nostri testi, può diventare fonte di luce.

Fu in risposta alla distruzione del Tempio che gli ebrei costruirono l'edificio del Talmud.

È stato sulla scia della Shoah che gli Ebrei hanno potuto ricostruire il loro Paese dopo duemila anni di esilio.

Il peggio può partorire il più bello, lo abbiamo sperimentato.

 

Anche nella nostra vita personale, per molti di noi.

 

Sì, da questa peggiore delle gestazioni, così mostruosa che non è ancora finita, voglio credere che possa nascere una nuova società, per tutti noi su questa terra.

Lo ammetto, faccio fatica a crederci. Sono disperata.

E tuttavia.

 

Oggi celebriamo il nuovo mese di Tammuz.

Un mese triste, poiché il 17 del mese gli ebrei digiuneranno in ricordo della prima breccia nelle mura durante l'assedio di Gerusalemme, entrando così in un periodo di “tre settimane” di lutto progressivo che li porterà a Tisha b 'Av, il giorno più triste dell'anno ebraico.

In quel giorno piangeremo, ancora una volta, quest'anno più che mai, la distruzione del Tempio.

 

Ma dall’inizio di Tammuz, che il Sefer Yetzira chiama il mese della “visione”, e durante Shabbat Hazon (letteralmente, la “visione”) che precede Tisha b’Av, inquadreremo la sfortuna fissandole un orizzonte.

Da oggi, prima di entrare in questo periodo cupo del calendario ebraico in cui sprofonderemo insieme nel lutto collettivo, possiamo fare una scelta: quella di guardare, ben oltre la distruzione, verso la promessa che seguirà: la possibilità di un vero rinnovamento.

Perché quello che ci aspetta nel calendario ebraico, dietro la distruzione, non è altro che Tu b’Av, la festa dell’amore, poi Elul, il mese del ritorno, verso Rosh haShana e Yom Kippur, verso la grande rinascita.

Così oggi, al termine del nono mese di questa guerra insensata, scelgo di credere che questa peggiore delle gestazioni potrà partorire, dall'altra parte della sventura, qualcosa, sì, di buono.

Scelgo di crederci.

Non abbiamo scelta.

 

 

 

UN ABBRACCIO PER ISRAELE di Giuseppe Kalowski, corrispondente da Tel Aviv, 1 luglio 2024

 

Nel momento più buio per noi Ebrei dopo la seconda guerra mondiale, sentiamo la necessità, più di prima, di “aggrapparci” a Israele - abbracciando questo piccolo Stato in pericolo per la sua esistenza.

Sì, per la sua esistenza! Può sembrare un concetto obsoleto, forse retorico, ma purtroppo non è così.

In un'Europa in cui la sinistra ha ormai preso la parte dei palestinesi (e l'Italia non fa eccezione) con il solito “giochino” dell'antisionismo (termine buono per tutte le stagioni, dappertutto in Occidente, specialmente in periodi elettorali e pre-elettorali), e in cui la destra spesso mostra rigurgiti squadristi di stampo antisemita, l'unica via di salvezza è rafforzare la nostra solidarietà, il nostro amore, anche critico se serve, nei confronti di Israele.

Israele vive da mesi in una situazione surreale.

La guerra, dopo il 7 ottobre, ha temporaneamente compattato un paese sotto shock: ma ora, a quasi nove mesi dallo scempio di quel giorno, Israele sembra sempre più diviso al suo interno.

Da una parte ci sono le famiglie dei rapiti, distrutte da un lunghissimo periodo di angoscia e di speranza - che vengono strumentalizzate da una parte dell'opposizione.

Parallelamente si svolgono le proteste dei religiosi ortodossi, che rifiutano il servizio militare nonostante la decisione della corte suprema.

Il Parlamento prova a far approvare la legge sulla Rabbanut, nella quale la nomina dei rabbini nelle varie città israeliane passerebbe al potere centrale e non sarebbe più in carica ai vari consigli comunali come accade oggi.

Il governo Netanyahu cerca di “destreggiarsi” tra la pressione delle famiglie degli ostaggi, la destra religiosa contraria a ogni tipo di stop alla guerra e la minaccia dei due partiti religiosi ultraortodossi di fare cadere il governo se non vengono soddisfatte le loro richieste.

Il tutto all'interno della cornice di una guerra cruenta a Gaza e di una situazione incandescente con il Libano.

Quello che appare chiaro, almeno a me, è un pericoloso sfilacciamento della società israeliana che si riflette a livello politico,  non viceversa. Basta accendere la televisione e ci si accorge che ogni telegiornale va dalla propria parte, senza curarsi dell' “altro”.

È come si fosse attenuata quella visione d'insieme, unitaria, idealista, haluzista, che ha sempre contraddistinto Israele, indipendentemente da chi fosse a capo del governo al momento – quella visione splendida e accecante che, in passato, ha illuminato le nostre speranze e i nostri sogni.

Da qui la necessità di “abbracciare” e pacificare Israele al suo interno, senza polarizzare ulteriormente un paese già tanto provato.

Compito della classe politica dovrebbe essere quello di realizzare un “compromesso morale” tra visioni della vita totalmente diverse, senza mai dimenticare il nostro minimo comune denominatore: la nostra Identità ebraica e il nostro Senso dell’Appartenenza.

 

Ci ritroviamo, mi sembra, ancora una volta, con un messaggio e una missione, nella vita contemporanea, che noi Ebrei siamo obbligati a presentare incessantemente alla società: dobbiamo dire la verità al potere. È difficile farlo, ed è sempre stata un'impresa rischiosa per noi, soprattutto nella Diaspora.

E ci grava addosso il presentimento che la nostra società stia in qualche modo “scrivendo un tragico capitolo della nostra Storia; e che contemporaneamente non possa — o si rifiuti — di leggere ciò che ha scritto.

Aiutiamo dunque la nostra società a “leggere” questo capitolo, prima che sia troppo tardi per riparare ciò che è stato rotto.

 

SPOSARSI IN TEMPO DI GUERRA IN ISRAELE, di Giuseppe Kalowski, Tel Aviv, 31 maggio 2024

 

 

Ieri sono stato al matrimonio del figlio di un mio carissimo amico, a Tel Aviv: Michael e Benedetta – che vivono entrambi da tempo in Israele – sono stati sposati dalla spina dorsale della Rabbanut di Roma, Rav Riccardo Shmuel Di Segni, Rav Yoseph Pino Arbib e Rav Avraham Alberto Funaro.

E, nel momento più emozionante della cerimonia, con la Chuppah che ci regalava un ineguagliabile tramonto sul mare, non ho potuto fare a meno di pensare (ma dove va la testa, in certi momenti?) al sindaco di Bologna che ha esposto la bandiera palestinese dal Palazzo comunale della sua città. Inutile e superfluo chiedersi perché non abbia fatto lo stesso il 7 ottobre con la bandiera israeliana...

Peccato non fosse presente, magari come invitato, al matrimonio... Forse (dico forse) ci avrebbe ripensato e, sempre forse, avrebbe capito lo stato d'animo – degli ebrei, israeliani e non – in questo tempo di guerra in cui si celebrano (ancora e sempre) matrimoni.

 

In Israele, da sempre, la voglia di pace, di convivenza e di felicità, prevale su tutto, e tuttavia, in Israele, la via di mezzo, il compromesso – portatore di guai più gravi in futuro – non è mai piaciuta.

Con questo sentimento nazionale, sebbene trascinati in una guerra sanguinosa non voluta – che ogni giorno provoca morti e feriti nella gioventù – e nonostante che il nord d'Israele sia rimasto disabitato per evitare vittime civili, la società israeliana risponde con il Matrimonio che, oltre ad essere grande mitzvah, rappresenta l'aspetto più alto della resilienza ebraica.

 

Portiamo con noi le nostre ferite, ricordando che, oggi come un tempo, le alleanze e le amicizie sono fondamentali per affrontare il male. Per riemergere dalle tenebre alla luce: questa è la storia ebraica. Superiamo il male attraverso l’unità e, non meno importante, grazie ai legami e alle profonde amicizie e, nelle ore più buie, dalla persecuzione nazifascista alla strage di Hamas, il popolo ebraico comunque riesce a guardare avanti.

Le voci e le parole dei Rabbanim, che celebrano un rito antichissimo e prezioso, calmano la mia anima inquieta – che vaga avvolta dalla luce di un tramonto accecante – e aprono un sempre nuovo e rinnovato varco tra noi e il Divino. Ne abbiamo tutti bisogno, consapevolmente o meno.

In realtà, ammettiamolo, abbiamo pochissimi luoghi fisici, nel mondo, che ci accolgano per celebrare i nostri riti e le nostre sacre ricorrenze, ma di tempo, tempo dello spirito e della preghiera, oh, di quello ne abbiamo tanto, tantissimo, infinito e circolare.

E le parole, già, le parole del Rito matrimoniale e anche altre parole (ieri sera tutte le parole si intrecciavano, con significanze arcane): qui, in Israele, diciamo insieme vinceremo; ma chi è incluso in insieme?

Insieme Ebreo? Insieme Israeliani? Insieme di chi vuole la pace? Insieme a chi cerca la luce?

 

Forse dovremmo iniziare a decodificare le parole.

Ma non oggi, domani.

Oggi cè la cerimonia del matrimonio, con il suo fortissimo impatto emotivo e visivo che ci ricorda di rispettare e di non perdere tradizioni antiche e forti. La sua celebrazione è coinvolgente, ricca di usanze, rituali, nenie e litanie, è un'unione spirituale tra due persone e rappresenta l'adempimento dei comandamenti del Signore.

 

Oggi Israele non è guerra a Gaza, non è gioventù in divisa senza anima. Oggi si crea una nuova famiglia e, senza dimenticare quelle distrutte e gli ostaggi, si continua a guardare al futuro.

La vita, alle volte, diviene un turbine di impegni, obblighi e incertezze, ma oggi è un universo completo in se stesso e possiede in sé sentimenti ed emozioni, tocca corde differenti, che se ne stavano lì, tranquille, sopite, prima di cominciare il Rito.

Mi accorgo che solo così, solo attraverso il Rito, possiamo recuperare il giusto abbandono verso la Vita e ricominciare di nuovo tutto da capo.

 

Il Rito matrimoniale di Michael e Benedetta, così bello e compiuto nella sua perfezione, mi induce quella sensazione dolce-malinconica, quel delicato senso di perdita, quel piacevole struggimento che vorremmo sempre replicare… Mi sento come travolto da una tensione fisica che genera il mondo attorno a me.

Il fatalismo non appartiene allanima ebraica, ma lostinazione e la nostalgia, quelle sì.

E oggi parlo anche di uno struggimento, di una melancolia agra e dolce alla fine, con la sensazione di incrociare qualcosa di immenso, che travalica la nostra vita, la supera e assurge a caposaldo per manifestare tutto, mentre fisso le onde che – lente – si increspano sul bagnasciuga.

 

E non posso evitare di pensare a tutte le vite che abbiamo perso, dal 7 ottobre in poi. A chi non cè più, agli ostaggi, ai nostri giovani al fronte – tutti celebravano ogni giorno la Vita e lAmore, come noi, questa sera.

C’è forse bisogno del giusto periodo, un tempo di cura, per guarire dalla finema voglio ancora stupirmi delle cose semplici, sorridere, perché dopo il dolore la vita continua, perché, quando provi un dolore insopportabile devi pensare che la vita va avanti e vivere con il sorriso.

 

Resistono gli affetti che non hanno bisogno del tempo materiale, i rapporti che non hanno bisogno di essere nutriti dal tempo materiale.

Per questa sera, evitiamo di dividerci in buoni e cattivi, anche se mai nella storia così tanti si sono trasformati in utili strumenti di un asse del male.

Decido di non farmi risucchiare e, con parole antiche, non chiedo miracoli o visioni, ma la forza di affrontare il quotidiano, di preservarci dal timore di poter perdere qualcosa della vita, di non darci ciò che desideriamo ma ciò di cui abbiamo bisogno, di insegnarci l’arte dei piccoli passi.

 

Mazal Tov, Michael e Benedetta!

 

https://morasha.it/sposarsi-in-tempo-di-guerra-in-israele/

 

https://riflessimenorah.com/sposarsi-in-tempo-di-guerra-in-israele

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DI LATTE E DI MIELE

 

Siamo probabilmente nel momento più difficile e pericoloso di questa lunga guerra; più difficile, perché i recenti caduti tra le forze armate israeliane hanno demoralizzato un'opinione pubblica già provata dalla durata del conflitto.

 

 

Più pericoloso, perché se da una parte Rafah sembra più vicina alla resa, dall'altra non si capisce cosa accadrà al nord, al confine con il Libano.

È anche il momento più pericoloso perché stanno affiorando sempre di più, ogni giorno di più, le divisioni all'interno della società israeliana che sembravano superate a causa di una guerra che richiede unità d’intenti e di “patriottismo”, senza “distinguo”di sorta.

E invece dobbiamo assistere a Netanyahu che va contro l'esercito, Israele-è-un-Paese-con-un-Esercito, non-un Esercito-con-un-Paese, alla legge sul reclutamento dei Haredim che, se approvata, scontenterà tutti, all'improvvida dimissione di Ganz dal governo, e alla possibilità di un nuovo schieramento politico di opposizione con Bennett , Lieberman e Saar, mentre la popolazione del nord si sente abbandonata dal governo.

Tutto questo, all'interno di un quadro di oggettiva difficoltà nel riuscire a liberare tutti gli ostaggi ancora in vita, rende la situazione drammatica e tesa.

Comunque la si pensi, politicamente parlando, quello che io vedo, vivendo a Tel Aviv, sono una tristezza e una malinconia diffuse, dopo l'adrenalina e la felicità per la liberazione di Noa Argamani e degli altri tre ostaggi.

Oggi ho incontrato un amico israeliano, religioso, sicuramente filogovernativo, che proprio non aveva voglia di parlare: era triste, pensieroso, preoccupato; l'ho salutato, abbracciandolo, non sapendo bene come congedarmi da lui.... E, tornando a piedi verso casa, a un incrocio mi passa davanti, a passo d'uomo, una automobile bianca guidata da una ragazza, sola; sul cofano anteriore e sui finestrini c'erano degli adesivi sui quali era scritto: “Mio papà è stato rapito il 7 ottobre”.

Ma l'altro ieri, mentre facevo jogging al tramonto al Yarkon Park, che costeggia l'omonimo fiume, ho visto, per caso, numerose famiglie arabe che, con tanti bambini, passeggiavano e mi sembravano tranquille e serene. La cosa mi ha incuriosito e li ho seguiti. Mi sono ritrovato a un vero e proprio sit in di famiglie arabe, che partiva dal vecchio porto di Tel Aviv e proseguiva verso nord fino alla spiaggia di Tel Baruch... centinaia di persone che passeggiavano,  chiacchieravano e preparavano carne alla brace. Era il “Giorno del Sacrificio”, una festività importantissima per il credo musulmano.

E non ho potuto fare a meno di pensare a quanto sia profondamente democratica e tollerante d'Israele; nessuno si è sognato di disturbarli o di mostrare insofferenza nei loro confronti. Era la cosa più normale del mondo. Nonostante tutto. Nonostante la guerra.

 

Terra di latte e miele è la definizione biblica della Terra promessa.

Una Terra, Erez, che da millenni ospita le dinamiche più turbolente e disturbanti della storia dei vecchi continenti.

E il latte e il miele sono simbolo di abbondanza e benessere della Terra che il Signore ha donato al Suo popolo.

Una Terra di abbondanza, non solo di cibo ma anche di Giustizia.

Mentre il latte e il miele hanno in comune una qualità paradossale.

Il miele è kosher, ma è il prodotto di un insetto non kosher.

Il latte è kosher pur provenendo da una mucca la cui carne non può essere mangiata insieme al latte.

Oltre al significato letterale, il latte e il miele hanno anche un significato squisitamente spirituale. Rappresentano la dolcezza e il nutrimento della parola e della presenza del Signore.

E così penso che la bontà di Israele possa spesso provenire da luoghi inaspettati e in modi inattesi.

Io di certo non sono un profeta. E lo spirito della storia ha certamente delle conseguenze involontarie. Forse dovremmo confidare in quello e sperare per il meglio. Oppure, dovremmo forse esaminare meglio quali scelte future saremo chiamati a fare. Non inseguendo miraggi, non cercando conforto rincorrendo grandiosi cliché.

Ma, soprattutto, non odiando. Perché l’odio non affligge solo l’animo, ma distrugge anche la nostra capacità di ragionare con lucidità. Aprendoci a un discorso serio e onesto circa le reali future opportunità che si profilano, facciamolo senza rabbia, senza pregiudizio.

 

Yair Lapid, il leader dell'opposizione israeliana, partecipando alla conferenza “Democracy Under Fire” dell'Università di Reichman, ha detto: «I valori non sono qualcosa che tieni solo quando ti fa comodo. Valori e princìpi sono pensati proprio per i momenti difficili. Se rinunciamo ai nostri valori, questo Paese è in pericolo esistenziale».
Secondo il leader di Yesh Atid «Il governo americano, l'Unione Europea e i Paesi liberali non credono più che siamo una nazione sana, seria e liberale, vincolata dal diritto internazionale... Nonostante abbiamo intrapreso la guerra più giusta nella storia…», e accusa il governo di aver sperperato il credito “quasi infinito” post-7 ottobre.

Dunque, prendiamoci il tempo, quel poco o tanto che ci rimane, mettiamo da parte le nostre certezze per farci delle domande. Senza cercare di rispondere subito. Senza dividerci. Senza aspettarci di appartenere ad un unico campo. Accettare di non essere d'accordo è uno dei fondamenti dell'ebraismo, giusto?

 

#ideologia  #postideologia  #sguardi  #tolleranza  #contrapposizione  #pace

 

 

 

La Rete Ebraica Europea per Israele, per la Pace e per la soluzione dei due Stati

 

 

«È ora che questa guerra finisca e che abbia inizio il giorno dopo».

 

Con queste parole il presidente Biden ha concluso il suo discorso del 31 maggio, in cui ha delineato un piano in tre fasi per porre fine alla guerra a Gaza e consentire il rilascio di tutti gli ostaggi. Ha presentato questo piano come quello israeliano, mettendo Benjamin Netanyahu in una posizione difficile. Se il primo ministro israeliano contraddicesse il presidente americano, lo farebbe passare per un bugiardo. Se approvasse questo piano, ciò porterebbe di fatto allo scioglimento della sua coalizione perché i suoi alleati di estrema destra non accetterebbero mai di sostenerlo.

 

Questo piano riprende il contenuto dei negoziati che si svolgono da diversi mesi tra le due parti attraverso l'Egitto, gli Stati Uniti e il Qatar. Si dettagliano le tre fasi durante le quali gli ostaggi verrebbero rilasciati gradualmente, parallelamente all'instaurazione di un cessate il fuoco, all'aumento degli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza e al loro ritorno nelle aree abitate liberate dalla presenza dell'esercito israeliano. Rendendo pubblico questo piano, il presidente americano si è rivolto all'ala sinistra del Partito Democratico, da un lato per dimostrare il suo impegno a porre fine alla guerra, preoccupato per la sicurezza e il benessere delle due popolazioni civili, e dall’altro alle due parti per costringerle a prendere posizione. Per il momento nessuno di loro ha dato una risposta ufficiale a questo piano che ha ottenuto il sostegno dei leader del G7. Da parte israeliana si insiste sui numerosi dettagli che restano da chiarire, mentre Hamas ha indicato che ci sono «molti elementi positivi» in questo piano. «Avevano però bisogno di vederli scritti su un foglio di carta».

 

In realtà questo piano è costruito su un’ambiguità. Per Israele, la cessazione delle ostilità può essere definitiva solo con «l’eliminazione delle capacità militari e governative di Hamas». E per Hamas deve garantire la sua sopravvivenza come organizzazione politica che dovrà essere associata alla gestione di Gaza dopo la guerra.

 

Biden è consapevole di queste differenze. Ma è anche consapevole che i due partiti hanno ciascuno la loro «buona» ragione per voler continuare questa guerra: Netanyahu perché è la condizione per la sopravvivenza del suo governo e, inoltre, gli permette di beneficiare di un rialzo dei sondaggi; Hamas perché gli permette di affermarsi come il vero rappresentante della causa palestinese nonostante il prezzo pagato dalla popolazione di Gaza, di cui certamente non si preoccupa. Per rompere questo blocco, Biden ha quindi rischiato di forzare la mano alle due parti con il rischio calcolato di provocare elezioni anticipate in Israele che, spera, rimuoverebbero Netanyahu dal potere e con la speranza di spingere il Qatar a esercitare le necessarie pressioni su Hamas per costringerlo ad accettare questo piano.

 

Biden si è rivolto anche direttamente all'opinione pubblica israeliana, presentando questo piano come l'ultima possibilità per recuperare gli ostaggi. Sapeva che avrebbe trovato in essa l’alleato necessario nella situazione di stallo tra lui e Netanyahu. E non aveva torto. Il giorno dopo il suo discorso, 250.000 israeliani hanno manifestato per sostenerlo. L'ultimo sondaggio mostra che il 62% di loro è favorevole alla liberazione degli ostaggi piuttosto che alla continuazione della guerra. Le loro famiglie si sentono sempre più abbandonate dal governo dopo che è stata appena annunciata la morte di quattro ostaggi in custodia. Le organizzazioni che avevano partecipato al movimento di protesta contro la riforma giuridica si stanno mobilitando sempre più per chiedere la caduta di questo governo e l'organizzazione di elezioni. Hanno intenzione di manifestare dal 16 giugno davanti alla Knesset e sperano di bloccare il Paese.

 

Per rassicurare l'opinione pubblica israeliana, il presidente Biden ha dichiarato che le capacità militari di Hamas oggi sono molto ridotte e che non è più in grado di organizzare un altro 7 ottobre. Inoltre, prendendo il controllo dell'asse Filadelfia, che costituisce il confine tra Gaza e l'Egitto, l'esercito israeliano ha iniziato a demolire tutti i tunnel che lo attraversavano e attraverso i quali Hamas si riforniva di armi e si arricchiva con le tasse sulle merci. Questa continua pressione su Hamas spiega senza dubbio l’aumento del lancio di Hezbollah, su richiesta degli iraniani, sul nord di Israele – quasi 1.000 razzi durante il mese di maggio. Il rischio di vedere scoppiare una guerra lì è forte e sarebbe molto più difficile di quella condotta per 8 mesi a Gaza – il numero degli Hezbollah è stimato in 200.000 uomini. Se è così, allora sarà senza dubbio difficile per i generali Benny Gantz e Gadi Eisenkot lasciare la coalizione di governo nonostante l’ultimatum che Gantz ha dato a Netanyahu di definire un piano d’azione per il dopoguerra entro l’8 giugno.

 

Le manifestazioni filo-palestinesi nelle università europee e americane, uno degli ultimi esempi è stato il tentativo di impedire la partecipazione di Elie Barnavi a una conferenza prevista per il 3 giugno presso l'Università Libera di Bruxelles, costringendo al trasferimento in un'altra sala sotto scorta, mi hanno spinto a scrivere questi pochi pensieri.

 

Le generazioni che si sono succedute dagli anni ’60 non hanno avuto l’opportunità di impegnarsi contro guerre paragonabili a quella del Vietnam – una guerra “imperialista” condotta dalla superpotenza americana contro un paese povero del continente asiatico. Con l’eccezione della guerra in Iraq, contro la quale i giovani occidentali hanno manifestato, le cause che li hanno mobilitati negli ultimi anni sono state generalmente cause sociali o ecologiche.

Gli anni di pace che l’Occidente ha conosciuto dopo la seconda guerra mondiale hanno fortunatamente risparmiato ai suoi giovani il confronto diretto con la guerra. Tuttavia, la guerra è lungi dall’essere scomparsa dal pianeta. Non si possono più contare quelle che hanno devastato il continente africano, l’Asia, l’America Latina o il Medio Oriente, nella quasi indifferenza della gioventù occidentale, nonostante i milioni di morti di tutsi, sudanesi, siriani, curdi e uiguri, sahrawi, yemeniti, congolesi … E la guerra che, da due anni, vede una democrazia nel cuore dell’Europa attaccata dal suo vicino russo, non mobilita nemmeno le masse nelle strade delle capitali occidentali.

 

Quando si è verificato il barbaro attacco commesso da Hamas il 7 ottobre sul territorio israeliano, le immagini filmate e trasmesse in diretta dagli stessi aggressori hanno turbato per diverse ore tutti quelli che le hanno viste. Ma, dal primo bombardamento effettuato in risposta dall’esercito israeliano a Gaza, queste immagini sono state cancellate, al punto che alcuni cominciarono addirittura a dubitare della loro veridicità. E le manifestazioni di sostegno all’uno o all’altro campo non si sono fatte attendere.

 

Non è certo la prima volta che il conflitto mediorientale infiamma gli animi e si impone nel dibattito pubblico in Occidente. Ma le manifestazioni non avevano mai raggiunto un tale livello di mobilitazione, soprattutto tra quei giovani che sostengono la causa delle vittime palestinesi ignorando le vittime dell’altra parte.

Come spiegare questo «doppio standard» tra, da un lato, un silenzio assordante di fronte alle guerre vicine o lontane, e, dall’altro, le reazioni alla guerra in corso tra israeliani e palestinesi? C’è innanzitutto un punto comune tra questa guerra e quelle intraprese dagli Stati Uniti in Vietnam o in Iraq: una democrazia “potente” si oppone a una popolazione “più debole”. In Occidente è ovviamente facile, e soprattutto potenzialmente più efficace, manifestare contro una democrazia che contro una dittatura. Manifestare contro la guerra in Ucraina o i massacri degli uiguri in Cina difficilmente disturberebbe i regimi di Putin o Xi Jinping.

 

Non ho dubbi sul grado di impegno degli attuali manifestanti a favore della causa palestinese. Ma noto che, mobilitandosi contro di lui, questi manifestanti riconoscono che lo Stato di Israele, nonostante le sue imperfezioni, appartiene alla famiglia delle democrazie liberali e che possiamo quindi sperare di spingere il suo governo a cambiare la sua politica. Gli israeliani, del resto, fanno la stessa cosa. Lo hanno dimostrato durante tutto l’anno scorso, riunendo ogni settimana diverse centinaia di migliaia di manifestanti – l’equivalente di altrettanti milioni in tutta la Francia – contro una riforma giuridica che metteva in discussione i poteri della Corte Suprema, che il governo voleva fosse adottata. E gli israeliani continuano a manifestare anche oggi per chiedere il rilascio degli ostaggi o le elezioni anticipate.

 

Un’altra spiegazione di questo «doppio standard» mi sembra molto più preoccupante in termini di conseguenze. Nasce da una lettura manichea del conflitto, con, da un lato, la parte dei «buoni», dei «deboli», dei «non bianchi», degli «oppressi», dei «non occidentali» e, dall'altro, la parte del «malvagio», del «forte», del «bianco», del «colonialista», dell’«occidentale»… Una visione così semplicistica, frutto della cultura wokista oggi in voga, promette disgrazie attuali e future per entrambi popoli. A questi manifestanti che aspirano soprattutto a stare dalla «parte buona» vorrei ricordare ciò che ha scritto Amos Oz sul conflitto in «Aiutateci a divorziare! Israele-Palestina, due Stati adesso», Gallimard 2004.[1]

 

A ciò si aggiunge, purtroppo, un’altra lettura che non mi aspettavo più di vedere emergere con questa forza nel dibattito pubblico: la rinascita dell’antisemitismo. Ci eravamo abituati (anche se non rassegnati) alla presenza dell’antisemitismo nelle frange nauseanti dell’estrema destra.

Ma oggi la parola «sionista» viene usata al posto della parola «Ebreo» per attaccare chiunque, israeliani o cittadini Ebrei che vivono nella diaspora, sostenga il diritto degli israeliani a difendere il proprio Stato – anche coloro che criticano la politica del loro governo nei confronti dei palestinesi. E questo non inganna nessuno.

Perché cosa significa la parola «sionista»? Significa riconoscere che gli Ebrei hanno diritto al loro Stato, anche perché lì si è radunata la metà del popolo ebraico e buona parte di coloro che vivono nella diaspora vi sono indefettibilmente legati. E non riconoscere questo diritto equivale ad antisemitismo, quando il movimento sionista ha al suo interno, come tutti i movimenti nazionali, tanti sostenitori sia di destra sia di sinistra – e questi ultimi da anni si battono per uno Stato palestinese accanto a Israele.

Constatare che oggi, in Francia, è tra i cittadini che affermano di appartenere ad una certa sinistra che il discorso antisionista è sempre più dominante, è molto preoccupante per il futuro delle nostre democrazie e per quello della sinistra. E il fatto che alcune persone sostengano questo discorso per elettoralismo – o, peggio, sotto l’influenza degli islamisti – è ancora più preoccupante.

[Di David Chemla. Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari] – David Chemla è membro fondatore, con Alain Rozenkier, dellAssociazione “La Paix Maintenant”.

 

 

 [1]

Questa non è una lotta tra il Bene e il Male. Si tratta piuttosto di una tragedia nel senso antico del termine, di un conflitto tra due cause uguali l'una e l'altra... I palestinesi sono in Palestina, perché la Palestina è la patria, e l’unica patria, del popolo palestinese…. Gli Ebrei israeliani sono in Israele, perché non c’è nessun altro paese al mondo che gli Ebrei, come popolo, come nazione, possano chiamare la loro patria…. I palestinesi vogliono il paese che chiamano Palestina. Hanno buone ragioni per volerlo. Gli Israeliani vogliono esattamente lo stesso paese, esattamente per le stesse ragioni…. Ciò si traduce in una tragedia… Ciò di cui abbiamo bisogno è un compromesso doloroso…. Per me la parola compromesso significa vita. Il contrario significa fanatismo e morte…. Compromesso significa che il popolo palestinese, come il popolo ebraico israeliano, non sarà mai più schiacciato e umiliato”. E Amos Oz conclude dicendo agli europei: «Se avete il più piccolo slancio di aiuto e di simpatia da offrire, che non vada all'uno o all'altro, ma a entrambi. Non dovete più scegliere tra filo-israeliani o filo-palestinesi, dovete essere a favore della pace ».