La saga vivente degli ebrei dell'Amazzonia

 

Grazie a proficui scambi tra il Museo Ebraico di San Paolo in Brasile e il Museo d'Arte e Storia Ebraica di Parigi, un aspetto poco noto della storia ebraica, sia brasiliana sia globale, viene portato alla luce su entrambe le sponde dei fiumi e degli oceani: la presenza di una comunità ebraica sefardita in Amazzonia.

 

Di Antoine Kauffer

Pubblicato il 26 settembre 2025

Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

 

Febbraio 2025, Brasile sudorientale. Cieli azzurri, caldo soffocante, inquinamento. Alla vigilia del sacrosanto Carnevale, la megalopoli di San Paolo è in fermento. Innanzitutto, il suo centro storico, dove, discretamente incastonato tra l'elegante tratto di via Avanhandava e il viadotto Martinho Prado, dal dicembre 2021 si trova il Museo Ebraico della città. Una sinagoga in stile bizantino, progettata dall'architetto Samuel Roder nel 1928, durante l'arrivo degli immigrati ebrei europei nel paese tropicale. Dopo ampi lavori di ristrutturazione, l'edificio è stato convertito in museo. Sul frontone, in ebraico, si trova l'iscrizione: "Qui sorge il tempio di tutti i popoli". E, sulla barriera di vetro che incornicia l'edificio, l'intrigante titolo di questa mostra, inaugurata nel novembre 2024: "Judeus na Amazônia".

Ebrei in Amazzonia, beh! Lo scrittore Eduardo Halfon descrisse la foresta dell'Altipiano in Guatemala e i suoi campi di sopravvivenza per bambini ebrei a metà degli anni '80 nel suo libro "Tarantula", ma che dire di una comunità ebraica in Amazzonia? La ricca mostra al Museo Ebraico di San Paolo ci fornisce le informazioni di cui abbiamo bisogno. Si collega anche al pubblico francese attraverso la stagione interculturale Brasile-Francia 2025 e una giornata di scambio dedicata al Museo d'Arte e Storia Ebraica di Parigi il 14 settembre.

 

Una mostra poliedrica a San Paolo

Come spesso accade, esplora l'esilio, il viaggio e lo sfollamento su più scale tematiche. L'Amazzonia brasiliana viene trasportata a San Paolo e poi trasferita a Parigi. Tutto questo, due secoli dopo l'insediamento degli ebrei sefarditi marocchini nelle remote zone nord-occidentali del Brasile.

La storia, raccontata in dettaglio nella mostra che si è conclusa in Brasile lo scorso giugno, inizia nel 1810. Le sue radici affondano in un intreccio di ragioni economiche e politiche, credenze mitologiche e culturali. All'alba del XIX secolo, in seguito al trasferimento della famiglia reale portoghese in Brasile (1808), grazie a vari accordi economici – in particolare tra Portogallo e Inghilterra – divenne redditizio commerciare su questa sponda dell'Atlantico. La Costituzione del neonato Impero del Brasile, nel 1824, offrì inoltre libertà e diritti religiosi ai sudditi non cattolici del Vecchio Continente... e a quelli provenienti da altre parti.

Questa apertura geopolitica coincise con un'ondata di repressione contro la comunità ebraica riunita nelle mellah in Marocco. Riportò anche alla mente un antico mito, riportato nei Libri dei Re: le navi di Re Salomone che tornavano ogni tre anni da Tarsis, una città situata in una terra lontana, cariche di beni preziosi. In particolare, legni pregiati, che avrebbero permesso la costruzione del Tempio di Gerusalemme.

E se questa "terra lontana" non fosse altro che l'Amazzonia? Immagini di un Eldorado verde, una Canaan amazzonica, una sorta di Eretz amazzonico (titolo dell'opera di riferimento sull'argomento scritta da Samuel Benchimol e pubblicata in Brasile nel 1998) si delineavano già nella mente delle persone.

L'avventura era così suggellata: un gruppo di famiglie ebree marocchine emigrò in Amazzonia. Prima ai margini della foresta e nelle città rivierasche, poi, con l'apertura del Rio delle Amazzoni alla navigazione internazionale e il boom della gomma, nei nuovi centri urbani – la sinagoga Shaar Hashamaim, fondata lì nel 1824, è anche la più antica ancora in funzione nel paese.

Intorno al 1910, con il declino dell'economia della gomma, le comunità ebraiche che avevano lavorato principalmente come venditori ambulanti sul Rio delle Amazzoni si concentrarono e si trasferirono a Belém e Manaus, oppure si stabilirono nel sud-est, principalmente a Rio de Janeiro e San Paolo. "A quel tempo, circa 900 famiglie ebree vivevano a Belém, ovvero circa 4.500 persone", sottolinea Ilana Feldman, una delle quattro co-curatrici della mostra, la cui storia familiare è direttamente legata a questa vicenda.

Continua: "È importante capire che questi ebrei marocchini hanno vissuto fin dal loro arrivo in un ambiente eterogeneo, accanto a popolazioni indigene, siriano-libanesi, arabi e migranti provenienti da altri paesi". La mescolanza era in atto. "Oggi, circa 400 famiglie ebree vivono in Amazzonia; sono distribuite principalmente tra Belém e Manaus, con comunità a Macapá, Santarém,  Breves, Parintins, Óbidos e Gurupá", spiega.

Nel seminterrato dell'edificio, la mostra presenta quasi 300 oggetti, come una magnifica ceramica realizzata nel 1980 sull'isola di Marajo, con una Stella di David come motivo centrale. Il tutto è completato da archivi fotografici, lettere, testimonianze e note esplicative. Una ricchezza di fonti eterogenee riflette la varietà di background dei curatori: oltre a Ilana Feldman, specialista in immagini e cinema, ci sono lo storico Aldrin Moura de Figueiredo, la curatrice del patrimonio Mariana Lorenzi e l'antropologo Renato Athias.

Un viaggio attraverso tredici temi che spaziano dall'attività economica alla partecipazione delle donne, passando per la vita religiosa adattata alle condizioni locali degli ebrei amazzonici. E l'impegno spesso trascurato degli artisti ebrei nei confronti delle popolazioni indigene dell'Amazzonia. Come il sensibile lavoro della fotografa Claudia Andujar, nota in Francia attraverso la Fondation Cartier, che le ha dedicato una retrospettiva nel 2020. Qui, accanto ai suoi ritratti del popolo Yanomami, c'è questa sua dichiarazione: "Ho un legame molto forte con gli Yanomami. L'ho fatto per la mia storia di vita, perché proprio come gli indigeni [che hanno perso i propri cari a causa del contatto con i non indigeni], anch'io ho perso i miei cari ebrei [durante l'Olocausto]".

 

Una giornata di studio interculturale a Parigi

Da un continente all'altro. "In effetti, un progetto con il Museo Ebraico di San Paolo è in cantiere da due anni e mezzo. La stagione interculturale Brasile-Francia del 2025, il suo curatore brasiliano Emilio Kalil e il direttore dell'istituzione culturale di San Paolo, Felipe Arruda, ci hanno offerto questa opportunità", afferma Sophie Andrieu, responsabile della programmazione del Musée d'Art et d'Histoire du Judaïsme di Parigi.

Per l'occasione, l'ampio programma (proiezioni di film, testimonianze, conferenze, etc.) amplia il tema della mostra, svelando una ricca produzione artistica e un campo di studi a sé stante. Ilana Feldman, ad esempio, ci introduce alla vita della scrittrice Sultana Levy Rosenblatt (non tradotta in francese): nata a Belém nel 1910, questa intellettuale pubblicò, tra le altre opere, il romanzo Barracão nel 1959 nel contesto del modernismo amazzonico. Un altro esempio è quello dell'artista visiva Hannah Brandt, attualmente protagonista di una mostra monografica al Museo Ebraico di San Paolo. L'anteprima del documentario Um Shabat na Outra Margem do Rio (Uno Shabbat sull'altra riva del fiume), in vista del suo lancio ufficiale il mese prossimo a San Paolo, permette al regista Diego Lajst di chiarire la sua prospettiva: "Il tema centrale ne comprende molti altri. Volevo concentrarmi sulla permanenza delle tradizioni ebraiche sefardite nel contesto amazzonico". A questo proposito, il viaggio di una giovane donna del Brasile sudorientale sulle orme dei suoi antenati ebrei amazzonici permette al regista di mostrare filmati d'archivio di queste regatões, imbarcazioni che trasportavano merci fluviali tra le città rivierasche. È anche un'opportunità per dare voce a ricercatori specializzati e membri di queste comunità e per incarnare i trasferimenti e gli adattamenti culturali tra le pratiche dell'ebraismo in Marocco e in Amazzonia, ad esempio nei loro legami con la gastronomia. Oltre alle storie uniche che racconta, il documentario offre uno scorcio sui paesaggi amazzonici e sulla meteorologia unica della regione. Le sfide dell'accessibilità e dell'archiviazione (manutenzione, conservazione) a tali latitudini sono evidenti.

In definitiva, svelando la storia multiforme degli ebrei amazzonici, vengono messi in luce i legami diasporici, misti e intrecciati tra fiumi, oceani e continenti. Ci auguriamo che queste molteplici iniziative rendano visibile una storia poco conosciuta, arricchiscano la storiografia sull'argomento e ricompongano storie personali frammentate.

 

FONTE TENOUA

 

 

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 09/08/2025, a pag. 1/5 con il titolo "Il mondo di fronte a un bivio. E l’Europa è dalla parte sbagliata" l'editoriale di Mario Sechi.

   

Trump e Netanyahu: il loro disegno per un nuovo Medio Oriente è una svolta storica per il mondo. Per la prima volta non si tratta con i terroristi e si accantona a tempo indeterminato la prospettiva dei due popoli in due Stati. L'Europa, come sempre, sta dalla parte sbagliata della svolta, continuando a sostenere la "causa palestinese".

 

https://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=16&sez=120&id=99812

 

Nella primavera del 1940 Winston Churchill affrontò un drammatico vertice del suo governo mentre le forze inglesi erano in ritirata da Dunkirk e la Francia stava per cadere sotto le armi dei tedeschi. Il 28 maggio, il primo ministro riunì i 25 membri dell’esecutivo, il suo piano era quello di disinnescare le manovre di Lord Halifax, il ministro degli Esteri, che puntava a negoziare la pace con Adolf Hitler grazie alla mediazione di Benito Mussolini assicurata dall’ambasciatore italiano Giuseppe Bastianini.
Nelle riunioni precedenti dell’esecutivo Halifax aveva tentato di convincere Churchill a impegnarsi - con una dichiarazione ufficiale - per aprire i negoziati con la Germania, ma il primo ministro inglese vinse l’appuntamento con la storia con un discorso memorabile che molti in parte conoscono per la superba interpretazione di Gary Oldman nel film «L’ora più buia».
Ieri come oggi, la guerra presenta il conto agli uomini e alle donne sorretti da forti principi, rivela i caratteri deboli e le loro ambigue manovre, racconta le virtù e i vizi di un’epoca, la nostra. Quando il governo di Israele decide di occupare tutta Gaza, «finire il lavoro» contro Hamas, presenta di fronte al mondo l’urgenza di eliminare la minaccia esistenziale che il popolo degli ebrei conosce più di chiunque altro sulla terra.
L’intensa discussione all’interno dell’esecutivo israeliano dimostra, ancora una volta, la forza della democrazia, la stessa opinione contraria del capo dell’esercito è prova di solidità delle istituzioni, la politica è una dura lezione quotidiana di sopravvivenza della libertà. Israele non è Hamas, il suo esercito è il più ammirato e studiato del mondo, anche da coloro che in queste ore si muovono come ombre.
La guerra di Israele su 7 fronti (Gaza, Libano, Cisgiordania, Siria, Yemen, Iran e Iraq) va avanti da 673 giorni: abbiamo visto l’orrore della strage degli ebrei del 7 ottobre 2023, la formidabile reazione con la campagna contro Hamas e l’eliminazione della mente diabolica del massacro, Yahya Sinwar; la distruzione di Hezbollah e la fine di Nasrallah e di tutti i suoi capi; l’attacco all’Iran e l’annientamento del programma nucleare dell’uomo con il mitra in mano, l’ayatollah Ali Khamenei; la caduta del regime e la fuga del macellaio di Damasco, Bashar al-Assad. Mai come oggi il Medio Oriente ha la possibilità di svoltare, per la prima volta la Lega Araba ha chiesto all’unanimità a Hamas di liberare gli ostaggi e disarmare le milizie, ma le belve del 7 ottobre hanno ancora i loro artigli conficcati su Gaza, razziano gli aiuti alimentari, pubblicano i video degli ostaggi ebrei in condizioni disumane, sono assassini che cercano il bagno di sangue. Non hanno mai voluto i due Stati e i palestinesi - che li hanno seguiti nel culto della morte, fino a ballare nelle strade di Gaza nel giorno della strage degli ebrei del 7 ottobre - in questo scenario non lo avranno perché non ci sono più le condizioni politiche. Per la prima volta, il governo israeliano ha un piano che non prevede il compromesso con i terroristi, non ci sarà alcun negoziato con Hamas, è aperta solo la possibilità della resa.
Alcuni analisti fanno notare che si tratta di uno shock per l’élite militare israeliana, abituata di fatto a sostituirsi ai governi nella pianificazione degli obiettivi politici da conseguire.
Una generazione di generali israeliani è cresciuta e ha ingrossato le file dei centri studi di Washington con l’idea di giungere a un negoziato. Anche l’ultimo numero di Foreign Affairs presenta questo paradigma («Israel Is Fighting a War It Cannot Win», Israele sta combattendo una guerra che non può vincere, articolo firmato dall’ex comandante della Marina e capo dello Shin Bet, Amy Ayalon), dell’impossibilità di acquisire la vittoria totale su Hamas. Nessuno di questi raffinati strateghi avrebbe vinto la Seconda guerra mondiale, sarebbero stati dalla parte di Lord Halifax ieri, come sono oggi dalla parte del premier britannico Keir Starmer e del presidente francese Emmanuel Macron. Ultimo arrivato in questa galleria di tragiche figure in fuga dalla realtà è Friedrich Merz: stritolato da un’alleanza impossibile con i socialdemocratici, spaventato da un’economia in caduta libera, il cancelliere tedesco ieri ha annunciato lo stop della Germania agli aiuti militari a Israele.
La decisione è pura propaganda politica, ridicola sul piano militare (la Germania vende a Israele principalmente sottomarini, non mi risulta che nella guerra di Gaza ci sia uno scontro con i sommergibili di Hamas) ma il dato politico, quello sì è notevole e rattrista: la Germania, con tutta quella storia che ha sulle spalle, chiude gli occhi, si tuffa nell’abisso e aiuta i carnefici degli ebrei.
Netanyahu ha chiuso quella storia di «stop and go»- che conduce a una guerra che è una triplice negazione: non definita, non finita, infinita- l’altro ieri quando ha detto «non voglio perpetuare Hamas, voglio sconfiggerlo». Tutte le operazioni militari degli ultimi vent’anni hanno sempre incontrato questo limite: hanno perpetuato Hamas, lo hanno reso sempre più forte, armato e tentacolare, facendolo diventare il braccio armato dell’Iran insieme a Hezbollah in Libano, hanno convinto gli islamisti che Israele e gli ebrei potevano «essere buttati a mare».

Il piano del governo israeliano- sostenuto dagli Stati Uniti - ha una visione completamente opposta alla narrazione delle anime belle europee e di un’astratta “comunità internazionale” che fa molto rumore, si indigna (solo per i palestinesi, i morti ebrei non esistono) ma sparisce nel momento dell’azione. Quattro sono i punti del piano: 1. La soluzione dei due Stati non c’è e non ci sarà per lungo tempo, la popolazione residente potrà scegliere se andare via o integrarsi in un percorso di pace e sviluppo economico collegato con la regione; 2. Hamas sarà eliminato sul piano militare e politico, non potrà mai dominare di nuovo Gaza City e la Striscia, quanto all’Autorità Palestinese, Abu Mazen ha dimostrato tutta la sua inconsistenza, non ha alcun futuro; 3. Le milizie saranno disarmate, si tratta di un percorso parallelo a quello del Libano, guardare quanto deciso dal governo di Beirut pochi giorni fa sul disarmo di Hezbollah, concordato con gli Stati Uniti; 4. Israele non vuole occupare Gaza e restarvi, vuole eliminare il nemico e ritirarsi (com’era già avvenuto nel 2005). La Striscia non sarà territorio sovrano e sarà posta sotto il controllo di Stati arabi alleati di Israele e degli Stati Uniti.
Questo percorso è condiviso dall’amministrazione Trump che gioca sulla scacchiera mondiale, muovendo i pezzi in Medio Oriente e in Ucraina. La Casa Bianca è impegnata sui due fronti per contrastare la Cina e la Russia nella corsa energetica e tecnologica, settori chiave dove l’Europa- che non ha materie prime e ha bloccato il suo sviluppo tecnologico con una montagna di regole dettate dall’ideologia green - fa la parte del cliente, cioè della preda, come già abbiamo visto nel negoziato sui dazi.
Decenni di sonnambulismo pesano e il conto è arrivato. Trump sta tentando di mettere insieme il puzzle dei due conflitti per costruire un nuovo ordine dove gli Stati Uniti sono la prima potenza tra Oriente e Occidente.
Il prossimo colloquio tra Trump e Putin sull’Ucraina (snodo di gasdotti fondamentali per l’Unione europea) avrà sullo sfondo questa battaglia: Mosca ha le sue forniture di gas interdette all’Europa, ma a loro volta gli Stati Uniti vogliono vendere gas e petrolio al Vecchio Continente (fa parte dell’accordo sui dazi) e dunque un ritorno alla vecchia “politica del tubo” appare impossibile. I russi sono anche il principale alleato di un Iran decadente (ma sempre pericoloso), mentre la Cina in queste settimane ha mostrato il suo vero lato debole: dipende dall’export americano per mantenere ordine e stabilità in uno Stato di un miliardo di persone che invecchiano rapidamente, mentre il Partito comunista cinese ha fatto salire una coltre di mistero sul presente e il futuro di Xi Jinping. Ai russi resta l’alleanza con la Cina (che gli Stati Uniti vogliono indebolire), in parte l’India di Modi (che ha appena avuto un primo avviso con le sanzioni americane), mentre in Medio Oriente i sauditi e le altre petro-monarchie del Golfo sono allineati a Washington. Il corridoio energetico che va dal gas del Qatar e sfocia nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez è il primo pilastro della strategia americana. I palestinesi sono il grande ostacolo a questo passaggio geopolitico, sono una distrazione letale, una fonte di disordine globale, impediscono la nascita di un nuovo ordine, stabile e sicuro, ecco perché la Casa Bianca appoggia Israele, vedono il premier Netanyahu come un possibile vincitore della partita interna e sono pronti a fare concessioni a Gerusalemme sul futuro di Gaza.
Dettaglio da seguire con attenzione, per sapere, per capire: pochi giorni fa gli azionisti di Leviathan, uno dei più grandi giacimenti di gas naturale del Mediterraneo, a 130 chilometri dalla costa di Haifa, hanno siglato un accordo per esportare 35 miliardi di dollari di gas verso l’Egitto. L’azionista principale di Leviathan è la società israeliana NewMed Energy (45.3%), insieme agli americani di Chevron (39.66%) e Ratio Oil Corp. (15%), sempre israeliana. Unite i puntini e vedrete il futuro, non quello delle frasi sgangherate dei presunti statisti europei che ignorano quel che accade sotto il loro naso. 

 

 

 

 

Già nel risorgimento i prodromi dell’attuale sudditanza teorica, prima ancora che pratica, della geopolitica e della politica estera italiane verso l’imperialismo delle grandi potenze occidentali, con il conseguente aggravarsi, oltre al rango ancillare dell’Italia nello scenario internazionale, degli squilibri territoriali fra nord e sud del paese.

Siamo lieti di proporre il video della Conferenza del dott. Massimo Morigi, “Lo Stato delle Cose della Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi”, tenuta il 10 marzo 2023 nell’ Aula Magna “Giordano Gamberini” della Schola Piscatorum della Casa Matha di Ravenna – Ordo Domus Mathae –, su Mazzini, Garibaldi e sulle loro confliggenti concezioni geopolitiche, un profondissimo ed insanabile contrasto che già preannunciava il fallimentare stato delle cose, culturale prima ancora che politico, della odierna de facto condizione di colonia eterodiretta dell’Italia :

https://www.youtube.com/watch?v=KwA00IOPCsM  

Una relazione equilibrata sulle figure di Mazzini e Garibaldi e i loro contrasti,che dà una interpretazione intellettualmente onesta sul Risorgimento partendo dalla geopolitica contemporanea e dimostrando che la storia non si “storicizza” ma si può solo contestualizzare,  ed è veramente, per chi vuole,  “Magistra vitae”.

L’ALTRA FACCIA DEL SIONISMO

Una riflessione sull'idea di colonialismo per riconsiderare il colonialismo di insediamento nell'ambito del conflitto israelo-palestinese

di Arnon Degani - Rivista Il Mulino, 06/08/2025

 

 

L’ignoranza dei sostenitori di Israele nel respingere ogni confronto tra Israele e altri casi di colonialismo di insediamento (o settler colonialism) è seconda solo a quella della comprensione di questo concetto da parte di chi supporta la Palestina. Una vittima di questo dibattito è la rigorosa ricerca accademica sul conflitto israelo-palestinese. Tragicamente, questo caos concettuale ostacola anche la nostra capacità di immaginare una conclusione a questo conflitto.

«I miei lettori hanno un’idea generale della storia della colonizzazione in altri Paesi. Suggerisco loro di considerare tutti i precedenti con cui hanno familiarità e di vedere se c’è un solo caso di colonizzazione condotta con il consenso della popolazione autoctona. Un tale precedente non esiste».

Questa citazione proviene da una delle prime analisi del sionismo come movimento coloniale di insediamento, scritta nientemeno che da Ze’ev Jabotinsky, l’intellettuale e padre politico della destra sionista. Questo estratto da un suo saggio del 1923, “Sul muro di ferro”, coglieva il problema fondamentale che il sionismo affrontava come movimento politico. Jabotinsky mise da parte le sue convinzioni sioniste, fondate sulla storia e sulle tradizioni religiose, e giunse alla conclusione logica che, per la maggioranza della popolazione araba in Palestina, i sionisti sembravano invasori.

Il termine “settler colonialism” viene troppo spesso visto, a torto, come una forma di colonialismo, suggerendo che Israele dovrebbe seguire la traiettoria delle imprese coloniali del passato: non è così. Un’analisi del colonialismo di insediamento non può determinare chi sia il legittimo proprietario della terra e/o quale sia la migliore soluzione per questo conflitto. Non può neanche negare i legami storici e la presenza ebraica nella Terra di Israele. Tuttavia, quando si parla di colonialismo di insediamento, diventa innegabile affermare che il sionismo sia nato al di fuori della Terra di Israele e che questa sia stata considerata patrimonio ebraico in un momento in cui più del 90% dei suoi residenti non erano ebrei.

Il colonialismo e il colonialismo di insediamento dovrebbero essere considerati come due modelli ideali situati agli opposti dello spettro dell’espansione moderna europea.

Come Lorenzo Veracini ha ben mostrato nei suoi lavori fondamentali, colonialismo e colonialismo di insediamento dovrebbero essere considerati come due modelli ideali situati agli opposti dello spettro dell’espansione moderna europea. L’argomentazione che qui vorrei svolgere è che il sionismo è molto più vicino all’estremità di questo spettro rappresentata dal settler colonialism che a quella rappresentata dal colonialismo tout court.

Il colonialismo coinvolge missionari, soldati, amministratori, uomini d’affari e talvolta anche coloni che estendono la sovranità imperiale in altri Paesi. D’altro canto, i coloni di insediamento possono essere originariamente emissari di un impero, ma poi sviluppano rivendicazioni di sovranità uniche, separate da un centro imperiale. Come spesso viene fatto notare, il sionismo non ha mai avuto una metropoli imperiale e questo effettivamente lo allontana dal modello coloniale e suggerisce che invece che sia compatibile con il colonialismo di insediamento.

Un’altra differenza chiave tra i movimenti coloniali e quelli di settler colonialism sta nelle relazioni che instaurano con i popoli incontrati nei territori dove arrivano. Lo studioso australiano Patrick Wolfe, scomparso qualche anno fa, ha riassunto le differenze tra le relazioni coloniali e quelle di colonizzazione di insediamento in maniera cruda, ma succinta. Mentre il colonialismo si basa sullo sfruttamento e sul controllo delle popolazioni indigene, il colonialismo di insediamento si basa sulla loro “eliminazione”.

I colonizzatori sfruttavano gli indigeni per ottenere risorse naturali e umane e indirizzarle verso la metropoli: un esempio classico è il dominio britannico sull’India, dove il lavoro e la fatica degli indiani arricchivano la Compagnia delle Indie e le casse dello Stato britannico. Lo sfruttamento richiedeva una sottomissione violenta, ma le potenze coloniali non avevano interesse a portare gli indigeni sull’orlo dell’annientamento: se non c’era nessuno da sfruttare, qual era lo scopo di avere un impero coloniale? Al contrario, i colonizzatori di insediamento desideravano sostituire la popolazione indigena e spesso le infliggevano violenze che ne riducevano drasticamente il numero e il controllo dei terreni. La “logica dell’eliminazione degli indigeni” di Wolfe al centro dei progetti colonizzatori spiega gli atti di genocidio e pulizia etnica che si sono verificati in molti casi di colonizzazione di insediamento.

L’eliminazione degli indigeni si manifestava anche in modalità che Wolfe collocava, generalizzando, nella categoria dell’ “assimilazione”: l’assorbimento politico, culturale e persino biologico della popolazione indigena nel corpo politico dei coloni. L’assimilazione indigena è un mezzo efficace per la consolidazione del settler colonialism, poiché attenua la resistenza degli indigeni al progetto colonizzatore. Quando coloni e indigeni si vedono reciprocamente come compatrioti, questi ultimi essenzialmente rinunciano alla loro pretesa di esclusiva indigenità.

 

Sionismi dimenticati

Le eccezionalità del sionismo non modificano il fatto che, quando gli ebrei europei decisero che la soluzione al loro problema andava trovata in un’altra parte del mondo, affrontarono tra gli altri la stessa, fondamentale questione di tutti gli altri progetti coloniali di insediamento: la terra che desideravano non era disabitata. Come tutti gli altri progetti colonizzatori, il sionismo scelse costantemente politiche e adottò visioni volte a contenere il “problema degli indigeni”.

Un’aspirazione alla superiorità demografica ebraica, attraverso l’emigrazione “volontaria” degli arabi palestinesi o con la forza, ha accompagnato il sionismo nel corso degli anni e persiste ancora oggi. Tuttavia, un’analisi del colonialismo di insediamento può spiegare una dimenticata spinta integrativa sionista e una tendenza predominante a immaginare regimi democratici inclusivi. Una soluzione che prevede un solo Stato democratico, se si vuole.

Nel suo libro fondamentale del 2018, “Beyond the Nation-State”, Dimitry Shumsky ha dimostrato che fino alla fine degli anni Venti la corrente principale del sionismo formulò una successione di disposizioni binazionali e federative, come un’autonomia ebraica sotto l’Impero Ottomano, uno Stato binazionale, uno Stato ebraico federato con uno Stato arabo più grande e uno Stato ebraico che facesse parte del Commonwealth britannico. Tutti questi percorsi avrebbero comportato la cancellazione di un’entità indigena distinta e ostile, garantendo l’uguaglianza politica tra arabi ed ebrei.

La ragione per cui i coloni sionisti si orientarono verso visioni integrative o inclusive era correlata al fatto che, rispetto ad altri casi di colonialismo di insediamento, la popolazione indigena che incontrarono era relativamente “forte”. Fino alla Dichiarazione Balfour del 1917, quando i britannici adottarono il sionismo, i sionisti non avrebbero potuto immaginare di sconfiggere militarmente i palestinesi. Dovevano invece sostenere quadri politici che riuscissero potenzialmente a interessare gli arabi palestinesi. Il binazionalismo, sebbene più accettabile della pulizia etnica, può comunque essere attribuito a un impulso, secondo le parole di Wolfe, di “eliminazione degli indigeni” presente in tutte le società coloniali di insediamento. Anche se nel 2023 era difficile da immaginare, l’uguaglianza ebraico - araba faceva parte della logica politica sionista tanto quanto le fantasie sull’omogeneità etnica ebraica.

 

Il progetto israeliano

La nascita di Israele nel 1948, attraverso il distacco formale dall’Impero britannico e lo spostamento di circa 700.000 palestinesi, rappresenta un momento cardine per il colonialismo di insediamento. Una volta che i sionisti hanno creato Israele come uno Stato ebraico quasi monoetnico, il binazionalismo è praticamente scomparso dall’agenda sionista. Tuttavia, la storia sionista ha continuato a riflettere il colonialismo di insediamento assimilativo,ma solo nei confronti dei 156.000 arabi palestinesi che sono rimasti all’interno dei confini dell’Israele nascente e sono diventati i cittadini arabi dello Stato ebraico.

Contrariamente alla propaganda israeliana, gli arabi palestinesi non hanno ottenuto una piena uguaglianza con gli ebrei nel momento stesso in cui hanno ottenuto la cittadinanza. Nel 1948, Israele ha promulgato la legge marziale, il “governo militare”, per la maggior parte degli arabi palestinesi, che ha annullato quasi tutte le protezioni garantite dalla cittadinanza israeliana. Tuttavia, la cittadinanza ha fornito una cornice legale affinché arabi ed ebrei sionisti potessero aspirare all’uguaglianza civica. I cittadini arabi palestinesi riconoscevano lo Stato sionista e conducevano lotte non violente per migliorare la loro situazione. Con il tempo, importanti sionisti si lamentarono che il governo militare era inutile e dannoso per l’auspicata integrazione dei cittadini arabi. Da metà degli anni Cinquanta, i governi israeliani hanno gradualmente alleviato le restrizioni del governo militare e l’hanno poi annullato nel dicembre del 1966. L’integrazione degli arabi palestinesi nella società israeliana li ha costantemente lasciati in uno status subordinato, di popolazione guardata con sospetto. Tuttavia, nel tempo, gli arabi in Israele hanno sviluppato un senso di “israelianità”. Ebbene, questa israelianità è un indicatore del colonialismo di insediamento. L’integrazione degli arabi palestinesi nella società israeliana li ha costantemente lasciati in uno status subordinato, di popolazione guardata con sospetto.

È importante sottolineare che se Israele è effettivamente uno Stato coloniale di insediamento, allora è legittimo o illegittimo tanto quanto alcuni degli Stati da cui provengono i suoi critici più accesi. Mentre gli attivisti anti Israele [in America e in Canada, N.d.R.] possono sostenere politiche di riconciliazione e compensazione con le rispettive comunità indigene, queste alla fine si traducono nell’assimilazione dei popoli indigeni in un mosaico multiculturale sotto lo Stato colonizzatore. Ciò rappresenta il colonialismo di insediamento nella sua forma più elevata, non la sua negazione. Eppure, anche se tali gesti possono sembrare vuoti e cinici, dobbiamo chiederci perché sionisti e palestinesi non siano mai entrati in una fase di riconciliazione.

 

1967: la svolta coloniale

La sorte di Israele avrebbe potuto essere quella di Paesi come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, che hanno accolto all’interno della società colonizzatrice la minoranza indigena rimasta. Tuttavia, a seguito della guerra del giugno 1967, Israele ha improvvisamente controllato un territorio più ampio con una popolazione palestinese molto più numerosa. Durante il primo ciclo elettorale post-bellico, gli elettori israeliani hanno dovuto scegliere tra due programmi: la destra ha chiesto l’annessione e la costruzione di insediamenti nei Territori occupati appena acquisiti e ha proposto alla popolazione palestinese un percorso per ottenere la cittadinanza israeliana. Anche il Partito laburista ha sostenuto gli insediamenti, ma non ha spinto per un’annessione formale e ha rigettato una via palestinese alla cittadinanza. L’elettorato israeliano ha assegnato ai laburisti 56 seggi nella Knesset contro i 26 della destra.

Mantenendo il controllo sui Territori, senza concedere la cittadinanza ai loro abitanti e impiantando coloni ebrei-israeliani privilegiati, l’occupazione israeliana ha iniziato a somigliare a casi passati di controllo imperiale sulle dipendenze coloniali: un regime basato sulla supremazia etnica e sullo sfruttamento del lavoro dei subalterni, un regime più coloniale che di insediamento coloniale.

Sia i governi israeliani precedenti sia quelli posteriori al 1967 hanno incoraggiato la “giudaizzazione” (yihud) del territorio attraverso gli insediamenti. La differenza è che – diversamente dagli abitanti dei kibbutz che si stabilirono sulle terre palestinesi negli anni Cinquanta, che erano impegnati, almeno in linea di principio, a porre fine al governo militare e a onorare la promessa della cittadinanza israeliana per gli arabi – i coloni nei Territori occupati non sono mai stati particolarmente preoccupati dallo status politico inferiore dei loro vicini palestinesi. Pertanto, si può dire che i coloni sionisti dopo il 1967 fossero più simili ai pieds-noirs algerini che alle popolazioni europee di Australasia e America. La loro è più una “colonizzazione con insediamento” che un “colonialismo di insediamento”.

Nel 1987, vent’anni dopo l’inizio del controllo di Israele sui Territori, è scoppiata una rivolta popolare anticoloniale sotto forma della prima Intifada e, come altre insurrezioni simili, ha abbassato la redditività del progetto coloniale.

Il processo di Oslo, che è seguito alla prima Intifada, è stato un tentativo israeliano di riportare il sionismo su una traiettoria più vicina al colonialismo di insediamento e di abbandonare la relazione coloniale con i palestinesi. Infatti, una delle motivazioni esplicite della sinistra sionista per andare avanti con il processo di Oslo dimostrava la presenza di una logica di eliminazione degli indigeni: non attraverso la pulizia etnica, non attraverso l’assimilazione, ma ridefinendo i confini in modo tale da collocare i palestinesi al di fuori del controllo e della responsabilità israeliani. Il fallimento degli accordi di Oslo nel 2000 ha significato la ripresa della dominazione coloniale, questa volta con livelli maggiormente severi di oppressione israeliana e una resistenza militante più brutale.

Nel 2005, Israele ha smantellato le colonie nella Striscia di Gaza ma ne ha mantenuto il controllo sostanziale, mentre in Cisgiordania è riuscito a soffocare la resistenza palestinese con l’aiuto dell’Autorità palestinese. Per due decenni, Israele è riuscito con successo a mantenere i palestinesi in una matrice coloniale contenendo la resistenza a livelli gestibili. Ma nulla dura per sempre.

 

Il colonialismo di insediamento e la guerra del 7 ottobre

La strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre nelle città e nei villaggi israeliani attorno alla Striscia di Gaza ha reso manifesto il loro obiettivo finale: allontanare gli israeliani da tutta la Palestina. Un’interpretazione più sfumata suggerisce che l’attacco fosse volto a contrastare un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, che avrebbe stretto ancora di più i palestinesi nella morsa coloniale. L’attacco potrebbe spingere gli israeliani a scegliere una strada diversa da quella coloniale: tuttavia adesso un tipo di visione settler-coloniale, quella sul genere accordi di Oslo, si scontra con un altro genere di visione settler-coloniale, che vorrebbe una pulizia etnica palestinese dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania. Le dichiarazioni quotidiane dei leader israeliani e l’entità delle morti e delle distruzioni puntano in quella direzione.

Eppure, le strutture coloniali di insediamento del sionismo danno anche adito a un moderato ottimismo. I cittadini arabi palestinesi di Israele hanno mostrato solidarietà nei confronti dello Stato israeliano e dei suoi cittadini ebrei. Contrariamente all’accusa razzista della destra, che li assimila a una quinta colonna, i cittadini palestinesi non si sono identificati con i combattenti di Hamas. Nei mesi successivi, mentre studenti indignati nelle università Ivy League urlavano “from the river to the sea”, i palestinesi arabi in Israele sono rimasti fedeli a una soluzione a due Stati, hanno condannato Hamas e hanno stretto i denti di fronte alle angoscianti immagini che provenivano dalla Striscia di Gaza. Ebrei e una parte del popolo palestinese hanno dimostrato di poter superare la storia che ha causato questa brutale guerra. Certamente ebrei e palestinesi possono vivere pacificamente l’uno accanto all’altro in due Stati.

 

 

Questo intervento prosegue la discussione avviata dall'articolo di Anna Momigliano il 23 ottobre scorso. La traduzione dall'inglese è di Francesco Locane.

 

 

Addio Francoforte fiera senz’anima

 

Conformista, affogata nel politicamente corretto, chiusa al mondo.

Il bilancio amaro della Buchmesse secondo uno dei protagonisti.

 

 

 

 

Rieccoci alla Buchmesse, con l’Europa nuda davanti alle sue contraddizioni, la sua debolezza, la sua irrilevanza nel mondo. Dopo la già movimentata edizione del 2023, oggi a Francoforte noi scrittori siamo ancora più investiti dal vento freddo della storia e più soli di fronte a noi stessi, al ritorno delle frontiere e di un post-fascismo suprematista, per non dire a un collasso dell’economia e al rischio di un conflitto mondiale.

 

Per uno scrittore, non è più decente far finta di nulla. Specie per il figlio di un Paese come l’Italia, che è ospite d’onore di una fiera che è un riassunto del mondo. Mi si dirà che gli scrittori non dovrebbero impicciarsi di politica. Ma la politica è fatta anche di parole, e fino a prova contraria le parole sono il mestiere di chi scrive. Ebbene, mi accorgo che esiste già di fatto un’egemonia della destra sul piano verbale, un’egemonia tale che i partiti di governo sono costretti a inseguirla penosamente. Il che significa che, per vincere, la destra non ha nemmeno bisogno di trionfare sul piano politico. Victor Klemperer, nella sua analisi della lingua del Terzo Reich, ci spiega che le tempeste della storia sono annunciate sempre da una mutazione delle parole. E Karl Kraus, nella Notte di Valpurga, vede l’irruzione del totalitarismo già nella sostituzione delle parole complesse con le sigle e gli acronimi violenti del potere.

 

Sono tendenzialmente di sinistra. Ma non vengo alla fiera di Francoforte per accusare lo schieramento opposto. Penso che sia tempo perso. Ovunque la destra fa il suo mestiere di destra. Vorrei invece dire che cosa non va nella mia parte politica e cosa non abbiamo fatto, noi scrittori d’Europa, noi anime belle della letteratura, per evitare che questa deriva politica avvenisse. Ogni giorno mi chiedo quale arsenale di parole abbiamo fornito alla democrazia perché essa potess e esercitare una decente autodifesa. Poi constato che – salvo eccezioni – gli esempi di reale resistenza sono pochi.

 

È un fatto: quasi ovunque i partiti cosiddetti moderati e di governo mancano di narrazione. La democrazia è diventata il regno dello sbadiglio. Essa rischia di estinguersi da sé per assenza di emotività e impulso narrativo. I partiti di centro sembrano rifugiarsi nella gestione del potere, stile amministrazione di condominio, o in una maldestra imitazione dei proclami etno-nazionalisti. Quanto alla sinistra, la sento insuperabile nel de-costruire o partorire raffinate analisi, ma incapace di indicare una direzione maestra. Gli esponenti-tipo della sinistra sono saccenti, irritano il popolo facendo discendere su di esso le loro verità rivelate. Negli ultimi mesi, oltre che in Italia, ho viaggiato in Francia, Germania, Spagna, Belgio e altrove, per proporre al pubblico un racconto capace di rileggere la nostra alleanza federale come patria comune, e questo non con astratte filosofie, ma entrando nel mondo oscuro delle percezioni sensoriali fino a ricorrere al mito, come nel mio libro Canto per Europa. È stata una grande esperienza. Ovunque andassi, scoprivo quanto fosse facile arrivare alla gente con quel tipo di discorso, e quanto di conseguenza fosse grave il vuoto narrativo in cui la gente stessa era stata abbandonata.

 

Lì ho capito che il fenomeno Afd era anche il prodotto di quel vuoto e non semplicemente un ritorno dei “morti viventi”.

 

Discendeva dalla latitanza di un mondo democratico incapace di ascoltare le paure e le rabbie delle periferie (a partire dell’ex Ddr). Raccoglieva non solo pulsioni razziste, ma anche il voto di moderati stanchi dell’ultra-liberismo bellicista. E poiché le inquietudini dei cittadini, specie quella – comprensibile – di un pericolo islamista, anziché essere gestite, venivano rimosse come politicamente scorrette, esse finivano per essere usate dalla destra. E qui viene l’osservazione forse più interessante. Da scrittore, ho avvertito un impressionante trasloco a destra di parole-chiave. In Germania, dire Volk (popolo), Tradition (tradizione), Heimat (patria), o Identität (identità), puzza di nazismo. E così quelle parole, anziché essere “bonificate”, sono state consegnate al nemico, che ora se ne serve in esclusiva, col risultato di far apparire la democrazia nemica del popolo, della tradizione, eccetera. Persino Bruderschaft (fratellanza) è bocciata. Ma come si può fare a meno della fratellanza? Fraternité in Francia non è di sinistra? È in questo sciagurato abbandono che si inserisce la destra, appropriandosi del termine, come la destra di Giorgia Meloni che, guarda un po’, si chiama Fratelli d’Italia. L’appartenenza ai partiti democratici è spesso così scialba, opportunistica (e perciò priva di fratellanza), da spingere nell’oblio anche i termini-base della libertà. In Italia, cose come pace, lavoratori o rivoluzione. In Germania, Gleichheit(uguaglianza), Freiheit (libertà), Widerstand (resistenza), soziale Rechte (diritti sociali). Risultato? L’Afd li eredita, facendosene paladina; e a quel punto è libera di fare, nel suo programma, persino il restyling del termine nazionalsocialismo, ribattezzato socialismo patriottico. Che poi vuol dire la stessa cosa.

 

Le parole perdute non tornano più a casa, o, se tornano, sono passivamente riassorbite nella loro accezione di destra dalle nostre democrazie. A quel punto la deriva a destra può investire persino i nomi delle nazioni: Italia, Deutschland (Germania) o España (Spagna). Ma non è solo questione di parole. Alla destra sono stati consegnati anche pezzi dell’apparato simbolico progressista: in Germania è il caso di Erasmo da Rotterdam, a cui la Afd ha intitolato una sua fondazione, dopo che quella originale era stata lasciata esaurirsi. Come dire che il grande europeista ora è riletto come emblema del suprematismo germanico. Perché non si è impedito lo scippo? Dov’erano gli scrittori? Forse dormivano. E quando si sono accorti dello scippo, hanno alzato alte grida, ma con assoluto ritardo. È importante trovare le parole adatte a contrastare questa emorragia lessicale foriera di pericolose derive liberticide e capace di spingere l’Europa verso un nuovo feudalesimo. Bisogna fare in fretta, perché il rischio è di ridurci a un’accozzaglia di popoli uniti non da un sogno, ma soltanto dalla miserabile paura degli immigrati. Tutto questo con la prospettiva di ritrovarci con al vertice un monarca pronto a dare mano libera ai diversi paesi, in cambio di poteri illimitati per se stesso. In pratica, una riedizione dei Balcani. Se questo avverrà, non sparirà solo l’Europa, ma moriranno anche le nazioni che credevano di vivere una nuova primavera.

 

Cari fratelli tedeschi, nel mio Paese non fioriscono solo i limoni. È fiorito anche il primo governo post-fascista d’Europa, andato al potere senza bisogno di sangue e olio di ricino come accaduto nel 1922 quando vi abbiamo indicato, con Mussolini, la strada dell’inferno.

 

Questo, grazie a un’opinione pubblica in gran parte non fascista ma facilmente fascistizzabile, per la quale certi funerei rituali a braccio teso sono solo folclore. E così, il mio governo offre alle destre europee il modello di una penetrazione dolce nel ventre molle della democrazia. Senza rinnegare nulla delle sue radici, esso procede indisturbato con micidiali decreti contro la libertà, senza che questo sia avvertito dal resto d’Europa.

 

Siamo stanchi di analisti. Il momento richiede visionari – scrittori appunto – capaci di cogliere i segni del nostro possibile futuro. Cose come la foto che coglie l’intesa, piena di occhi dolci, tra la mia presidente del consiglio e il tycoon Elon Musk. Che c’entra, ti chiedi, la donna-simbolo della nazione con l’uomo che rappresenta al meglio il grande capitale apolide? Uno che nel cervello ha un algoritmo al posto dell’imperativo morale di Kant? Uno che non vede l’ora di mangiarsi in un boccone la nostra alleanza federale con tutti i fastidiosi ostacoli che essa mette al liberalismo sfrenato? Poi capisci. Musk dice a Meloni: honey, tu acceleri il ritorno delle nazioni e azzoppi l’Europa, e io ti metto a disposizione il mio apparato mediatico. Qualcosa, cioè, capace di addormentare la gente meglio della propaganda di Goebbels.

 

Post-fascismo e neo-liberismo, due modelli autoritari, che hanno bisogno uno dell’altro. È verso questo abbraccio fatale che stiamo andando?

 

Giornalista e scrittore italiano (n. Trieste 1947). Inviato speciale del "Piccolo" di Trieste, quindi editorialista di "La Repubblica", ha seguito gli eventi politici che a partire dagli anni Ottanta hanno prodotto profonde trasformazioni nell’area balcanica, pubblicando a seguito di questa esperienza il reportage Maschere per un massacro (1996), e successivamente ha documentato gli eventi bellici verificatisi in Afghanistan dal 2001. Appassionato viaggiatore di viaggi lenti e consapevoli, effettuati a piedi o con mezzi di fortuna, indagatore delle terre di confine e dei luoghi dimenticati, ha percorso itinerari sconosciuti al turismo di massa, soprattutto nell'Est europeo, nel profondo Nordest italiano, lungo il fiume Po. Di questo girovagare animato da ideali minimi e chiari, e degli incontri che ne sono derivati con un mondo di personaggi autentici e di territori strani e meravigliosi, ha dato conto con uno stile asciutto e fotografico, che non si compiace mai di sé stesso ma tende a restituire con immediatezza e semplicità il vissuto, in numerosi libri, tra cui occorre citare almeno: Danubio. Storie di una nuova Europa (1990); La leggenda dei monti naviganti (2007); Tre uomini in bicicletta (con F. Altan, 2008); L'Italia in seconda classe (2009); Trans Europa Express (2012); Morimondo (2013); Come cavalli che dormono in piedi (2014); entrambi nel 2015, La cotogna di Istanbul. Ballata per tre uomini e una donna (da leggere soltanto ad alta voce) e Il CiclopeAppia (2016); La regina del silenzio (2017); Il filo infinito (2019); Il veliero sul tetto. Appunti per una clausura (2020); Canto per Europa (2021); Una voce dal Profondo (2023); Verranno di notte (2024). Nel 2024 lo scrittore è stato insignito del Campiello alla carriera.