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SPOSARSI IN TEMPO DI GUERRA IN ISRAELE, di Giuseppe Kalowski, Tel Aviv, 31 maggio 2024
Ieri sono stato al matrimonio del figlio di un mio carissimo amico, a Tel Aviv: Michael e Benedetta – che vivono entrambi da tempo in Israele – sono stati sposati dalla “spina dorsale” della Rabbanut di Roma, Rav Riccardo Shmuel Di Segni, Rav Yoseph Pino Arbib e Rav Avraham Alberto Funaro.
E, nel momento più emozionante della cerimonia, con la Chuppah che ci regalava un ineguagliabile tramonto sul mare, non ho potuto fare a meno di pensare (ma dove va la testa, in certi momenti?) al sindaco di Bologna che ha esposto la bandiera palestinese dal Palazzo comunale della sua città. Inutile e superfluo chiedersi perché non abbia fatto lo stesso il 7 ottobre con la bandiera israeliana...
Peccato non fosse presente, magari come invitato, al matrimonio... Forse (dico forse) ci avrebbe ripensato e, sempre forse, avrebbe capito lo stato d'animo – degli ebrei, israeliani e non – in questo tempo di guerra in cui si celebrano (ancora e sempre) matrimoni.
In Israele, da sempre, la voglia di pace, di convivenza e di felicità, prevale su tutto, e tuttavia, in Israele, la via di mezzo, il compromesso – portatore di guai più gravi in futuro – non è mai piaciuta.
Con questo sentimento nazionale, sebbene trascinati in una guerra sanguinosa non voluta – che ogni giorno provoca morti e feriti nella gioventù – e nonostante che il nord d'Israele sia rimasto disabitato per evitare vittime civili, la società israeliana risponde con il Matrimonio che, oltre ad essere grande mitzvah, rappresenta l'aspetto più alto della resilienza ebraica.
Portiamo con noi le nostre ferite, ricordando che, oggi come un tempo, le alleanze e le amicizie sono fondamentali per affrontare il male. Per riemergere dalle tenebre alla luce: questa è la storia ebraica. Superiamo il male attraverso l’unità e, non meno importante, grazie ai legami e alle profonde amicizie e, nelle ore più buie, dalla persecuzione nazifascista alla strage di Hamas, il popolo ebraico comunque riesce a guardare avanti.
Le voci e le parole dei Rabbanim, che celebrano un rito antichissimo e prezioso, calmano la mia anima inquieta – che vaga avvolta dalla luce di un tramonto accecante – e aprono un sempre nuovo e rinnovato varco tra noi e il Divino. Ne abbiamo tutti bisogno, consapevolmente o meno.
In realtà, ammettiamolo, abbiamo pochissimi luoghi fisici, nel mondo, che ci accolgano per celebrare i nostri riti e le nostre sacre ricorrenze, ma di tempo, tempo dello spirito e della preghiera, oh, di quello ne abbiamo tanto, tantissimo, infinito e circolare.
E le parole, già, le parole del Rito matrimoniale e anche altre parole (ieri sera tutte le parole si intrecciavano, con significanze arcane): qui, in Israele, diciamo insieme vinceremo; ma chi è incluso in insieme?
Insieme Ebreo? Insieme Israeliani? Insieme di chi vuole la pace? Insieme a chi cerca la luce?
Forse dovremmo iniziare a decodificare le parole.
Ma non oggi, domani.
Oggi c’è la cerimonia del matrimonio, con il suo fortissimo impatto emotivo e visivo che ci ricorda di rispettare e di non perdere tradizioni antiche e forti. La sua celebrazione è coinvolgente, ricca di usanze, rituali, nenie e litanie, è un'unione spirituale tra due persone e rappresenta l'adempimento dei comandamenti del Signore.
Oggi Israele non è guerra a Gaza, non è gioventù in divisa senza anima. Oggi si crea una nuova famiglia e, senza dimenticare quelle distrutte e gli ostaggi, si continua a guardare al futuro.
La vita, alle volte, diviene un turbine di impegni, obblighi e incertezze, ma oggi è un universo completo in se stesso e possiede in sé sentimenti ed emozioni, tocca corde differenti, che se ne stavano lì, tranquille, sopite, prima di cominciare il Rito.
Mi accorgo che solo così, solo attraverso il Rito, possiamo recuperare il giusto abbandono verso la Vita e ricominciare di nuovo tutto da capo.
Il Rito matrimoniale di Michael e Benedetta, così bello e compiuto nella sua perfezione, mi induce quella sensazione dolce-malinconica, quel delicato senso di perdita, quel piacevole struggimento che vorremmo sempre replicare… Mi sento come travolto da una tensione fisica che genera il mondo attorno a me.
Il fatalismo non appartiene all’anima ebraica, ma l’ostinazione e la nostalgia, quelle sì.
E oggi parlo anche di uno struggimento, di una melancolia agra e dolce alla fine, con la sensazione di incrociare qualcosa di immenso, che travalica la nostra vita, la supera e assurge a caposaldo per manifestare tutto, mentre fisso le onde che – lente – si increspano sul bagnasciuga.
E non posso evitare di pensare a tutte le vite che abbiamo perso, dal 7 ottobre in poi. A chi non c’è più, agli ostaggi, ai nostri giovani al fronte – tutti celebravano ogni giorno la Vita e l’Amore, come noi, questa sera.
C’è forse bisogno del giusto periodo, un tempo di cura, per guarire dalla fine, ma voglio ancora stupirmi delle cose semplici, sorridere, perché dopo il dolore la vita continua, perché, quando provi un dolore insopportabile devi pensare che la vita va avanti e vivere con il sorriso.
Resistono gli affetti che non hanno bisogno del tempo materiale, i rapporti che non hanno bisogno di essere nutriti dal tempo materiale.
Per questa sera, evitiamo di dividerci in buoni e cattivi, anche se mai nella storia così tanti si sono trasformati in utili strumenti di un asse del male.
Decido di non farmi risucchiare e, con parole antiche, non chiedo miracoli o visioni, ma la forza di affrontare il quotidiano, di preservarci dal timore di poter perdere qualcosa della vita, di non darci ciò che desideriamo ma ciò di cui abbiamo bisogno, di insegnarci l’arte dei piccoli passi.
Mazal Tov, Michael e Benedetta!
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La Rete Ebraica Europea per Israele, per la Pace e per la soluzione dei due Stati
«È ora che questa guerra finisca e che abbia inizio il giorno dopo».
Con queste parole il presidente Biden ha concluso il suo discorso del 31 maggio, in cui ha delineato un piano in tre fasi per porre fine alla guerra a Gaza e consentire il rilascio di tutti gli ostaggi. Ha presentato questo piano come quello israeliano, mettendo Benjamin Netanyahu in una posizione difficile. Se il primo ministro israeliano contraddicesse il presidente americano, lo farebbe passare per un bugiardo. Se approvasse questo piano, ciò porterebbe di fatto allo scioglimento della sua coalizione perché i suoi alleati di estrema destra non accetterebbero mai di sostenerlo.
Questo piano riprende il contenuto dei negoziati che si svolgono da diversi mesi tra le due parti attraverso l'Egitto, gli Stati Uniti e il Qatar. Si dettagliano le tre fasi durante le quali gli ostaggi verrebbero rilasciati gradualmente, parallelamente all'instaurazione di un cessate il fuoco, all'aumento degli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza e al loro ritorno nelle aree abitate liberate dalla presenza dell'esercito israeliano. Rendendo pubblico questo piano, il presidente americano si è rivolto all'ala sinistra del Partito Democratico, da un lato per dimostrare il suo impegno a porre fine alla guerra, preoccupato per la sicurezza e il benessere delle due popolazioni civili, e dall’altro alle due parti per costringerle a prendere posizione. Per il momento nessuno di loro ha dato una risposta ufficiale a questo piano che ha ottenuto il sostegno dei leader del G7. Da parte israeliana si insiste sui numerosi dettagli che restano da chiarire, mentre Hamas ha indicato che ci sono «molti elementi positivi» in questo piano. «Avevano però bisogno di vederli scritti su un foglio di carta».
In realtà questo piano è costruito su un’ambiguità. Per Israele, la cessazione delle ostilità può essere definitiva solo con «l’eliminazione delle capacità militari e governative di Hamas». E per Hamas deve garantire la sua sopravvivenza come organizzazione politica che dovrà essere associata alla gestione di Gaza dopo la guerra.
Biden è consapevole di queste differenze. Ma è anche consapevole che i due partiti hanno ciascuno la loro «buona» ragione per voler continuare questa guerra: Netanyahu perché è la condizione per la sopravvivenza del suo governo e, inoltre, gli permette di beneficiare di un rialzo dei sondaggi; Hamas perché gli permette di affermarsi come il vero rappresentante della causa palestinese nonostante il prezzo pagato dalla popolazione di Gaza, di cui certamente non si preoccupa. Per rompere questo blocco, Biden ha quindi rischiato di forzare la mano alle due parti con il rischio calcolato di provocare elezioni anticipate in Israele che, spera, rimuoverebbero Netanyahu dal potere e con la speranza di spingere il Qatar a esercitare le necessarie pressioni su Hamas per costringerlo ad accettare questo piano.
Biden si è rivolto anche direttamente all'opinione pubblica israeliana, presentando questo piano come l'ultima possibilità per recuperare gli ostaggi. Sapeva che avrebbe trovato in essa l’alleato necessario nella situazione di stallo tra lui e Netanyahu. E non aveva torto. Il giorno dopo il suo discorso, 250.000 israeliani hanno manifestato per sostenerlo. L'ultimo sondaggio mostra che il 62% di loro è favorevole alla liberazione degli ostaggi piuttosto che alla continuazione della guerra. Le loro famiglie si sentono sempre più abbandonate dal governo dopo che è stata appena annunciata la morte di quattro ostaggi in custodia. Le organizzazioni che avevano partecipato al movimento di protesta contro la riforma giuridica si stanno mobilitando sempre più per chiedere la caduta di questo governo e l'organizzazione di elezioni. Hanno intenzione di manifestare dal 16 giugno davanti alla Knesset e sperano di bloccare il Paese.
Per rassicurare l'opinione pubblica israeliana, il presidente Biden ha dichiarato che le capacità militari di Hamas oggi sono molto ridotte e che non è più in grado di organizzare un altro 7 ottobre. Inoltre, prendendo il controllo dell'asse Filadelfia, che costituisce il confine tra Gaza e l'Egitto, l'esercito israeliano ha iniziato a demolire tutti i tunnel che lo attraversavano e attraverso i quali Hamas si riforniva di armi e si arricchiva con le tasse sulle merci. Questa continua pressione su Hamas spiega senza dubbio l’aumento del lancio di Hezbollah, su richiesta degli iraniani, sul nord di Israele – quasi 1.000 razzi durante il mese di maggio. Il rischio di vedere scoppiare una guerra lì è forte e sarebbe molto più difficile di quella condotta per 8 mesi a Gaza – il numero degli Hezbollah è stimato in 200.000 uomini. Se è così, allora sarà senza dubbio difficile per i generali Benny Gantz e Gadi Eisenkot lasciare la coalizione di governo nonostante l’ultimatum che Gantz ha dato a Netanyahu di definire un piano d’azione per il dopoguerra entro l’8 giugno.
Le manifestazioni filo-palestinesi nelle università europee e americane, uno degli ultimi esempi è stato il tentativo di impedire la partecipazione di Elie Barnavi a una conferenza prevista per il 3 giugno presso l'Università Libera di Bruxelles, costringendo al trasferimento in un'altra sala sotto scorta, mi hanno spinto a scrivere questi pochi pensieri.
Le generazioni che si sono succedute dagli anni ’60 non hanno avuto l’opportunità di impegnarsi contro guerre paragonabili a quella del Vietnam – una guerra “imperialista” condotta dalla superpotenza americana contro un paese povero del continente asiatico. Con l’eccezione della guerra in Iraq, contro la quale i giovani occidentali hanno manifestato, le cause che li hanno mobilitati negli ultimi anni sono state generalmente cause sociali o ecologiche.
Gli anni di pace che l’Occidente ha conosciuto dopo la seconda guerra mondiale hanno fortunatamente risparmiato ai suoi giovani il confronto diretto con la guerra. Tuttavia, la guerra è lungi dall’essere scomparsa dal pianeta. Non si possono più contare quelle che hanno devastato il continente africano, l’Asia, l’America Latina o il Medio Oriente, nella quasi indifferenza della gioventù occidentale, nonostante i milioni di morti di tutsi, sudanesi, siriani, curdi e uiguri, sahrawi, yemeniti, congolesi … E la guerra che, da due anni, vede una democrazia nel cuore dell’Europa attaccata dal suo vicino russo, non mobilita nemmeno le masse nelle strade delle capitali occidentali.
Quando si è verificato il barbaro attacco commesso da Hamas il 7 ottobre sul territorio israeliano, le immagini filmate e trasmesse in diretta dagli stessi aggressori hanno turbato per diverse ore tutti quelli che le hanno viste. Ma, dal primo bombardamento effettuato in risposta dall’esercito israeliano a Gaza, queste immagini sono state cancellate, al punto che alcuni cominciarono addirittura a dubitare della loro veridicità. E le manifestazioni di sostegno all’uno o all’altro campo non si sono fatte attendere.
Non è certo la prima volta che il conflitto mediorientale infiamma gli animi e si impone nel dibattito pubblico in Occidente. Ma le manifestazioni non avevano mai raggiunto un tale livello di mobilitazione, soprattutto tra quei giovani che sostengono la causa delle vittime palestinesi ignorando le vittime dell’altra parte.
Come spiegare questo «doppio standard» tra, da un lato, un silenzio assordante di fronte alle guerre vicine o lontane, e, dall’altro, le reazioni alla guerra in corso tra israeliani e palestinesi? C’è innanzitutto un punto comune tra questa guerra e quelle intraprese dagli Stati Uniti in Vietnam o in Iraq: una democrazia “potente” si oppone a una popolazione “più debole”. In Occidente è ovviamente facile, e soprattutto potenzialmente più efficace, manifestare contro una democrazia che contro una dittatura. Manifestare contro la guerra in Ucraina o i massacri degli uiguri in Cina difficilmente disturberebbe i regimi di Putin o Xi Jinping.
Non ho dubbi sul grado di impegno degli attuali manifestanti a favore della causa palestinese. Ma noto che, mobilitandosi contro di lui, questi manifestanti riconoscono che lo Stato di Israele, nonostante le sue imperfezioni, appartiene alla famiglia delle democrazie liberali e che possiamo quindi sperare di spingere il suo governo a cambiare la sua politica. Gli israeliani, del resto, fanno la stessa cosa. Lo hanno dimostrato durante tutto l’anno scorso, riunendo ogni settimana diverse centinaia di migliaia di manifestanti – l’equivalente di altrettanti milioni in tutta la Francia – contro una riforma giuridica che metteva in discussione i poteri della Corte Suprema, che il governo voleva fosse adottata. E gli israeliani continuano a manifestare anche oggi per chiedere il rilascio degli ostaggi o le elezioni anticipate.
Un’altra spiegazione di questo «doppio standard» mi sembra molto più preoccupante in termini di conseguenze. Nasce da una lettura manichea del conflitto, con, da un lato, la parte dei «buoni», dei «deboli», dei «non bianchi», degli «oppressi», dei «non occidentali» e, dall'altro, la parte del «malvagio», del «forte», del «bianco», del «colonialista», dell’«occidentale»… Una visione così semplicistica, frutto della cultura wokista oggi in voga, promette disgrazie attuali e future per entrambi popoli. A questi manifestanti che aspirano soprattutto a stare dalla «parte buona» vorrei ricordare ciò che ha scritto Amos Oz sul conflitto in «Aiutateci a divorziare! Israele-Palestina, due Stati adesso», Gallimard 2004.[1]
A ciò si aggiunge, purtroppo, un’altra lettura che non mi aspettavo più di vedere emergere con questa forza nel dibattito pubblico: la rinascita dell’antisemitismo. Ci eravamo abituati (anche se non rassegnati) alla presenza dell’antisemitismo nelle frange nauseanti dell’estrema destra.
Ma oggi la parola «sionista» viene usata al posto della parola «Ebreo» per attaccare chiunque, israeliani o cittadini Ebrei che vivono nella diaspora, sostenga il diritto degli israeliani a difendere il proprio Stato – anche coloro che criticano la politica del loro governo nei confronti dei palestinesi. E questo non inganna nessuno.
Perché cosa significa la parola «sionista»? Significa riconoscere che gli Ebrei hanno diritto al loro Stato, anche perché lì si è radunata la metà del popolo ebraico e buona parte di coloro che vivono nella diaspora vi sono indefettibilmente legati. E non riconoscere questo diritto equivale ad antisemitismo, quando il movimento sionista ha al suo interno, come tutti i movimenti nazionali, tanti sostenitori sia di destra sia di sinistra – e questi ultimi da anni si battono per uno Stato palestinese accanto a Israele.
Constatare che oggi, in Francia, è tra i cittadini che affermano di appartenere ad una certa sinistra che il discorso antisionista è sempre più dominante, è molto preoccupante per il futuro delle nostre democrazie e per quello della sinistra. E il fatto che alcune persone sostengano questo discorso per elettoralismo – o, peggio, sotto l’influenza degli islamisti – è ancora più preoccupante.
[Di David Chemla. Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari] – David Chemla è membro fondatore, con Alain Rozenkier, dell’Associazione “La Paix Maintenant”.
[1]
Questa non è una lotta tra il Bene e il Male. Si tratta piuttosto di una tragedia nel senso antico del termine, di un conflitto tra due cause uguali l'una e l'altra... I palestinesi sono in Palestina, perché la Palestina è la patria, e l’unica patria, del popolo palestinese…. Gli Ebrei israeliani sono in Israele, perché non c’è nessun altro paese al mondo che gli Ebrei, come popolo, come nazione, possano chiamare la loro patria…. I palestinesi vogliono il paese che chiamano Palestina. Hanno buone ragioni per volerlo. Gli Israeliani vogliono esattamente lo stesso paese, esattamente per le stesse ragioni…. Ciò si traduce in una tragedia… Ciò di cui abbiamo bisogno è un compromesso doloroso…. Per me la parola compromesso significa vita. Il contrario significa fanatismo e morte…. Compromesso significa che il popolo palestinese, come il popolo ebraico israeliano, non sarà mai più schiacciato e umiliato”. E Amos Oz conclude dicendo agli europei: «Se avete il più piccolo slancio di aiuto e di simpatia da offrire, che non vada all'uno o all'altro, ma a entrambi. Non dovete più scegliere tra filo-israeliani o filo-palestinesi, dovete essere a favore della pace ».
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NELLA PELLE DI UN ALTRO
Di Delphine Horvilleur, traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari
31 MAGGIO 2024
Quando studiavo a Gerusalemme, negli anni '90, viaggiavo molto spesso tra Francia e Israele. Ricordo che all'epoca dicevo spesso che il posto al mondo in cui mi sentivo più a casa era l'aereo. Per me la casa era questo luogo di mezzo, questo momento che mi collegava a questi due spazi, due geografie, due società, e che mi permetteva di vederli un po’ da lontano.
Questa settimana, in un certo senso, l'ho sperimentato di nuovo. Per la prima volta dal 7 ottobre ho preso l'aereo che collega questi due Paesi. Non tornavo da circa un anno. Ho avuto però l'impressione che in realtà fossero passati secoli dall'ultima volta che avevo messo piede lì perché, evidentemente, il mondo è cambiato e gli eventi ci costringono ad accettare ciò che non è più e che non sarà mai più lo stesso.
È come se, a partire dal mese di ottobre, dovessimo contare il tempo diversamente, non come il calendario civile che ci dice che siamo nel 2024, non come il calendario ebraico che dice che è l'anno 5784, ma a partire da questa data nelle nostre vite che ci hanno portato in un altro tempo. Forse dovremmo proprio dire che è il 237° giorno dell'anno 0 del nuovo e terrificante mondo.
Oppure dire, come suggeriscono molti israeliani che ho incontrato, ebrei o non ebrei, che sia ancora (e sempre) il 7 ottobre. Un giorno che non passa, anzi una notte che continua all'infinito. Sarebbe quindi il 7 ottobre 2023, 237 giorni fa.
In effetti, e l’ho visto lì, è come se il tempo si fosse fermato, immobilizzato o fermato di colpo in un dolore infinito che si riverbera in tutta la regione, dolore israeliano e dolore palestinese, lutto israeliano e lutto palestinese, l’impossibile consolazione israeliana e l’impossibile consolazione palestinese. La rabbia degli uni e degli altri, la disperazione degli uni e degli altri...
E ancora e ancora metterò delle e, qualunque cosa dicano, qui o là, coloro che vogliono vedere o percepire solo il dolore di un campo, di una parte, di un mondo, e che minimizzano, relativizzano o negano apertamente il dolore dell'altro.
Ci sono così tante cose che vorrei raccontarvi di questo viaggio emozionante che ho appena fatto. Una drasha non sarà sufficiente.
Quindi in poche parole: questa settimana sono stata ufficialmente invitata al Festival Internazionale degli Scrittori a Gerusalemme e ho potuto tenere conferenze anche a Tel Aviv e ad Haifa. Soprattutto, ho avuto la possibilità e l’onore di incontrare ebrei e arabi, israeliani e palestinesi, di condividere momenti commoventi con le famiglie i cui figli sono ancora tenuti in ostaggio a Gaza, ho potuto parlare con genitori i cui figli sono morti in combattimento, che sanno che non si riprenderanno mai dal loro dolore, ho potuto dialogare con arabi israeliani la cui famiglia è sotto le bombe a Rafah o altrove, persone che non hanno notizie dai loro cari e si aspettano, ogni minuto, il peggio, e si trovano divisi tra il loro radicamento nella società israeliana e il loro attaccamento al sogno palestinese.
Ho incontrato artisti, cantanti, attori, scrittori, poeti, coreografi, ho incontrato intellettuali, pensatori e rabbini, e ho pregato con loro per il ritorno degli ostaggi, per la pacificazione delle famiglie in lutto, e anche per i bambini palestinesi... perché no, contrariamente a quanto alcuni vogliono credere, la società israeliana che ho incontrato non è del tutto insensibile al dolore degli altri. Ci sono, come in ogni stato in guerra, persone che, dal profondo del loro dolore o della loro rabbia, non riescono più a pensare all'altro. Ma ci sono anche persone che, come candele nel buio, hanno deciso, anche lì, di inviare altre luci, per rifiutarsi di perdere la propria dignità o di negare all'altro la sua piena umanità.
Ho incontrato persone che pensano una cosa e altre che la pensano esattamente al contrario, persone che si interrogano sul senso del combattere e altre che lo ritengono necessario, persone che pensano che la vendetta sia necessaria e altre che sanno che la vendetta non porta mai da nessuna parte e che finisce per trascinarti nell’odio e nel ciclo della violenza.
Ho parlato con persone che sostengono l’operazione militare e altre che ne mettono in dubbio il significato oggi.
Ho parlato con persone che mi hanno spiegato perché sostengono il governo e altri che mi hanno detto perché non perdoneranno mai i loro leader per averli portati a questo, e perché ora chiedono nuove elezioni.
Ho parlato con persone che hanno perso la fiducia negli altri e non credono più nella pace, ma anche con altri che, più che mai, sono pronti a battersi per una soluzione a due Stati, affinché – mi si perdoni l’espressione – dal fiume al mare, ci sia spazio per gli altri, pacificazione, rispetto, riconoscimento, dignità per tutti.
Forse è questo che dovrebbe significare questo slogan, diversamente da tutto ciò che gli abbiamo fatto dire.
Piuttosto che quello che tutti vedono esposti sui muri delle nostre città europee, sulle piazze delle università americane o nelle manifestazioni dove si scatenano tante passioni; e qui, dove agitiamo parole, grida, in modo così manicheo e spesso senza cultura del territorio, della storia del conflitto, o più precisamente senza una reale preoccupazione per chi lì vive e dovrà convivere lì.
Perché la situazione si potrebbe riassumere così, in fondo in un modo molto semplice: oggi non ha senso dirsi filo-israeliani o filo-palestinesi. L’unica posizione degna, secondo me, l’unico impegno utile, è quella di essere per la pace, per il futuro comune, per il riconoscimento che deve esserci spazio per tutti.
Dal Medio Oriente dove ho ascoltato parole diverse, voci complesse, disaccordi esposti davanti a me, a volte in modo estremo, ho assistito da lontano allo spettacolo di ciò che i media mi hanno trasmesso dalla scena europea. E devo dire che mi cadevano le braccia.
Ho guardato le immagini di questi cartelli per le strade di Parigi che dicevano “Morte ai sionisti”, che denunciavano un “genocidio”, gli appelli al boicottaggio delle istituzioni culturali israeliane, tutto ciò che cerca di mettere in caricatura il conflitto, di non vedere il dolore da una parte e la brutalità dall’altra, immaginare che il lutto sia da una parte e la barbarie dall’altra, che si possa disumanizzare un campo impunemente, e dire come ha detto questa settimana un funzionario eletto della Francia ribelle che “ No, non apparteniamo alla stessa specie umana”.
Questa settimana ho ripensato a una frase che ho ripetuto molte volte dal 7 ottobre e che ripeterò ancora e ancora: posso capire che in Medio Oriente l’immenso dolore e il lutto degli israeliani e dei palestinesi impediscano loro di sentire o di pensare alla sofferenza altrui, aumenta la loro indifferenza o il loro spirito di vendetta, ma non perdonerò e non troverò nessuna scusa valida per chi, oggi, qui, a migliaia di chilometri, è incapace di empatia con tutti, incapace di riconoscere l’immensità del lutto, della sofferenza, del trauma e dell’ingiustizia che ognuno subisce.
Questa settimana al Festival Internazionale degli Scrittori a Gerusalemme, ho pensato molto al potere e alla promessa eterna della letteratura. Ciò può sembrare molto fuori luogo e insignificante di fronte al dolore dei bambini di Rafah e delle madri israeliane che non vedranno ritornare i propri figli. Ma ho pensato a cosa permettono la scrittura e la lettura: mettersi, anche solo per un attimo, nei panni di un altro, di un personaggio la cui storia, mondo, cultura e dolore non sono i nostri, ma con cui ci è dato di empatizzare. E mi sono detta che questa capacità era senza dubbio ciò che più mancava all’umanità intorno a noi e che dovevamo provare a ritrovare.
Mi scuso per avervi esposto in questo sermone e un po' in generale i miei sentimenti di questa settimana in Israele.
Mi rendo conto che alcuni avrebbero preferito che io parlassi, come faccio ogni settimana o quasi, dell'episodio della Torah che leggiamo in tutte le sinagoghe, di questo brano del Levitico che leggiamo in questo Shabbat e che costituisce ciò che chiamiamo parasha della settimana.
Ma invece di questa lettura di parasha, vi invito a pensare a cosa significa anche la parola parasha in ebraico. Non designa soltanto il brano della Torah che leggiamo nelle sinagoghe. In ebraico, è al cuore di un'espressione che designa un “crocevia”: in ebraico chiamiamo un incrocio ‘parashat drakhim’, la parasha delle strade, il luogo dove le strade si incrociano e dove si presentano a noi più strade, diverse strade che ci è possibile prendere.
Siamo, mi sembra, nel luogo della parasha, nel parashat drakhim, all'intersezione tra molti percorsi possibili. E il percorso che prenderemo, sia qui sia là in Medio Oriente, con le nostre azioni o con le nostre parole, determinerà il futuro.
Ci troviamo in un tempo sospeso tra mondi, esattamente come ci troviamo su un aereo tra paesi. E questo 237esimo giorno dopo il disastro potrebbe, se vogliamo, anche essere il primissimo di un altro tempo. Per fare questo basta scegliere insieme un po’ più di intelligenza, moderazione, dignità, cultura storica ed empatia.
Shabbat Shalom
[Drasha pronunciata dal rabbino Delphine Horvilleur il 31 maggio 2024 durante il servizio kabbalat shabbat del JEM, Parigi].
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L’ULTIMO ABBRACCIO - di Giuseppe Kalowski, Tel Aviv,
06 giugno 2024
All’interno del mondo ebraico, e questa è la sua forza e la sua bellezza, convivono mille pensieri, mille posizioni, mille modi di intendere il mondo, di leggerlo e di immaginarlo. La guerra tra Israele e Hamas, innescata dall’atroce attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre, non fa eccezione a questa diversità.
È con lo sguardo di un ebreo italo - israeliano, innamorato di questa doppia identità, della sua storia e dei suoi valori comuni, di ciò che trasmette dell'anima e della civiltà occidentale, che sempre tento di sostituire la tentazione del fatalismo e della disperazione con un'azione a favore della pace e della vita durature – anche se gli ultimi mesi sono stati tra i più difficili della nostra vita. E sappiamo ormai che Hamas non vuole né la liberazione degli ostaggi, né la salute, né la felicità dei palestinesi; ama solo la morte, quella degli ebrei soprattutto, ma anche quella di coloro che pretende di rappresentare.
Il male esiste, ecco tutto.
È con questo stato d’animo, e con questi pensieri, che alle 18.30 di oggi mi sono recato alla manifestazione dell'associazione “Casa di Ben Gurion” – proprio davanti alla casa dove ha vissuto a Tel Aviv il Primo Ministro d’Israele.
La via ora si chiama Ben Gurion Boulevard, ed ha ospitato una cerimonia molto più intima di quella che, quasi contemporaneamente, si teneva a “Piazza degli Ostaggi”.
Si tratta di una casa semplice, in una via modesta, eppure è riuscita, e riesce sempre, a catalizzare emozioni e sentimenti fortissimi – quasi sovraumani.
È come se, recandosi lì – in una sorta di preghiera laica, ma attenzione, nell’Ebraismo in generale e in Israele in particolare, laicità e spiritualità sono indissolubili – le persone cercassero e trovassero conforto, come se stessero appoggiando la testa sulla spalla di qualcuno che è lì per ascoltare e per spiegare, in una parola, per confortare.
E quel qualcuno è e rimane l’immagine e il ricordo di David Ben Gurion.
Insieme a Ghil Segal, membro dell'esecutivo dell’Organizzazione Sionistica Mondiale, si è voluto ricordare le madri di quei giovanissimi e di quelle giovanissime che non ce l'hanno fatta il 7 ottobre.
Erano presenti molti parenti di queste famiglie in lutto e gente, come me, passata lì per caso.
Due madri hanno preso la parola sul palco, due mamme che hanno perso i loro figli e che in comune hanno la data del compleanno: oggi, 6 giugno.... e la data della loro morte, il 7 ottobre.
La compostezza e la dignità delle madri sono state impressionanti e struggenti.
La prima, che ha perso una splendida ragazza, che oggi avrebbe compiuto 22 anni, ha raccontato gli ultimi giorni prima del 7 ottobre e di come ha saputo dalla stessa figlia, telefonicamente, che non l'avrebbe più rivista.
La seconda che ha perso il suo Idan, 21 anni oggi, inconsolabile ma composta, misurata, si è chiesta e ci ha chiesto se era possibile abbracciare per l'ultima volta il proprio figlio attraverso una foto, un'immagine.
Non era possibile, purtroppo, ma il suo rimarrà un abbraccio che continuerà finché vivrà. E per il suo compleanno, oggi, i suoi amici lo hanno festeggiato come se lui fosse lì tra loro, con un abbraccio, quello sì, eterno.
La manifestazione, discreta, composta, straziante, si intitolava, appunto, “L'ultimo abbraccio”, ed era l'abbraccio delle madri ai figli che non ci sono più.
Le donne hanno un nesso essenziale con il potere di elevare il potenziale del mondo fisico e quando Hashem va oltre i limiti del finito e dell'infinito, la massima prova della Sua trascendenza è la sua essenza, che si deve cercare nella materia.
E così è avvenuto oggi, alla “Casa di Ben Gurion”: le donne sono state l’anello di congiunzione tra il mondo e Hashem.
Ho scritto che il male esiste. E qui, ieri, ce n’era un esempio tangibile, quanto tangibile, è difficile anche descriverlo, delle sue conseguenze, all’interno di ciascuno noi, nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra anima.
Amalek sa esattamente che cosa dire, a chi e in quale momento.
Può essere anche come un vento freddo che spegne lentamente la nostra sensibilità verso la provvidenza e l’amore con cui Hashem guida e anima la nostra vita.
Le madri di “L'ultimo abbraccio” ci insegnano molto, in questo senso.
Che cosa si fa quando si è disperati?
Si cerca di ricucire. Lentamente. Guardando in faccia la disperazione. Affrontandola. Dandole forma. Attraversandola. Tentando di andare oltre.
E, così, sembra di riuscire a raggiungere altri mondi.
E il groviglio di fili emotivi dentro di te si ammorbidisce.
Ci si focalizza sul punto, sul presente, e lo si affronta.
Si affronta tutto ciò che è divenuto improvvisamente disarmonico, confuso, caotico e vuoto.
Non si vince. Si accoglie. E si cerca di comprendere – anche se è difficilissimo.
Tuttavia, cucendo tutto questo dolore immenso, ci colleghiamo a quel filo sottilissimo che appartiene a tutta l'umanità e ai suoi misteri.
Cucendo tutto questo strazio infinito è come se ci trasformassimo in un ragno che tesse la sua ragnatela, raccontando silenziosamente al mondo tutti i segreti della vita.
Intrecciando i fili, intrecci i tuoi pensieri, le tue emozioni.
E ti colleghi al divino che è in te e che tiene in mano l'inizio del filo.
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- Scritto da Barbara de Munari
- Categoria: DIARI
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RISVEGLI, di Giuseppe Kalowski, corrispondente da Tel Aviv - 26 maggio 2024
Sono a Ramat Ahaial, quartiere di uffici e start up e mentre in Europa – divisa e stretta nella morsa di un antisemitismo crescente e con due guerre, ai suoi confini est e nel suo mare sud orientale – si dibatte e si discute in merito alla soluzione “due popoli, due stati” (sempre che non si tratti di un semplice slogan), questa mattina, all’ora di pranzo, e dopo più di quattro mesi di pausa e di silenzio, nuovi razzi sono stati lanciati da Rafah verso il centro di Israele. Rivendica Hamas: “Grande attacco missilistico su Tel Aviv”.
La raffica di razzi è stata lanciata verso il centro di Israele, attivando il sistema di difesa Iron Dome.
Sirene d'allarme hanno risuonato a Herzliya, Kfar Shmaryahu, Ramat Hasharon, Tel Aviv, Petah Tikva e in diverse comunità più piccole.
Dei razzi sparati da Hamas, uno solo è riuscito a sfuggire alle maglie della contraerea israeliana. Si è abbattuto su Herzliya, città sulla costa a nord di Tel Aviv. Le schegge del razzo hanno investito il tetto di una casa, ferendo leggermente una donna che era all'interno.
Il servizio di ambulanze di Magen David Adom ha invece affermato che due donne che sono rimaste leggermente ferite dopo essere cadute mentre correvano verso i rifugi antiaerei.
Molte altre persone hanno ricevuto cure per l'ansia, ma non ci sono feriti gravi.
Con la ripresa (forse) dei negoziati sul rilascio degli ostaggi e le pressioni dopo la decisione dell'Aja, Israele sta modificando la sua operazione a Rafah. Lo ha detto una fonte israeliana a Times of Israel.
L'Idf - ha spiegato - continuerà a operare ma lo farà per ora in modo relativamente contenuto.
Ci sentiamo sconcertati, per usare un eufemismo, e oscilliamo tra l’ansia e la necessità di mantenere i nervi saldi – per noi, per i nostri cari, per i bambini, che ci guardano, per i nostri soldati al fronte ed io penso che si stia vivendo il momento storico più difficile dalla nascita dello Stato d'Israele.
Mille domande trafiggono la mia anima e, per ciascuna di esse, mille risposte – o nessuna.
Intanto, ieri sera, la polizia di Tel Aviv è intervenuta per disperdere un gruppo di manifestanti che aveva organizzato un sit-in in piazza della Democrazia, bloccando il traffico sulla vicina via Kaplan.
I manifestanti, riporta Times of Israel, chiedevano un accordo sulla liberazione degli ostaggi e la rimozione del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Nella serata avevano marciato lungo via Begin per unirsi alle famiglie degli ostaggi. Uno striscione recitava: 'Il governo si è arreso (sugli ostaggi). La gente li riporterà a casa'.
Domenica scorsa il ministro per gli Affari della Diaspora e la Lotta contro l'antisemitismo del governo Netanyau, Amichai Chikli, intervenendo sul palco della kermesse di Vox al palazzo Vistalegre, fra le bandiere israeliane dispiegate sullo sfondo, ha detto che “l'offensiva israeliana a Gaza è una battaglia per il futuro della civiltà occidentale” e che “Israele non ha alternativa che combattere e vincere”.
Chikli non ha lesinato elogi a Santiago Abascal, “l'unico leader di un partito che ha visitato lo Stato di Israele dopo il 7 ottobre”.
E, ha aggiunto, l'unico cosciente dei rischi che corre l'Europa “sul punto di scomparire”.
“Non abbiamo altra opzione che lottare e vincere per il bene dei nostri figli e del mondo libero”.
All’Europa e al mondo intero, ma soprattutto all’Europa, Chikli ha detto: “Non dimenticate come è iniziata questa guerra”.
E mentre mi chiedo e mi interrogo (anche) sul destino degli Accordi di Abramo, su dove siano finiti, due ore dopo il lancio dei razzi, i bambini sfilano per strada, sotto casa mia, per Lag BaOmer. Cuccioli resilienti e ostinati Figli di Israele.
Tra ferite vecchie e nuove, dopo il brutale attacco di Hamas a Israele, il 7 ottobre 2023, lo schema degli Accordi di Abramo, che doveva presto culminare nella normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Israele, è entrato in crisi. Congelato, indebolito, posticipato da una guerra dai confini ancora imprevedibili.
Tuttavia, tornare sui propri passi rispetto a Israele sarebbe una sconfitta troppo grande, un segno di debolezza politica interna e regionale, poiché rimetterebbe in discussione le strategie di politica estera.
Penso che gli Accordi di Abramo siano nell’occhio del ciclone di una guerra (forse) inaspettata: rappresentavano una relazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi, Bahrein e Stati Uniti, e dunque costituivano un successo di espansione geopolitica ma anche il riconoscimento formale della sovranità di Israele.
Il nuovo conflitto scoppiato tra Hamas e Israele ha segnato un duro contraccolpo a questi Accordi, che avrebbero dovuto sancire la stabilità delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Israele.
Un tempismo tutt’altro che casuale, considerando che Hamas è un gruppo terroristico (riconosciuto come tale dall’Unione Europea e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale UE, 4 febbraio 2022, L 25) che da solo non avrebbe potuto accedere alle risorse necessarie per sferrare l’attacco e che invece assume il ruolo di “cavallo di Troia” di altri attori internazionali, tra cui l’Iran.
Non mi conforta pensare che, tempo fa, ero stato un facile profeta: gli scenari geopolitici mutano rapidamente, con la possibile conseguenza di una polarizzazione delle alleanze nella regione del Medio Oriente, dove ciascuno invoca il principio di legittima difesa collettiva.
Soldati israeliani sono stati catturati, uccisi e feriti, durante l'operazione di resistenza avvenuta sabato pomeriggio nella Striscia settentrionale di Gaza: erano stati attirati in un tunnel nel campo profughi di Jabaliya, ma, questa sera, si grida alla strage e al massacro per il nuovo raid israeliano su Rafah.
In realtà nessun luogo è sicuro, né di qua né di là, e mi accorgo che esiste davvero una espressione massima del male, che è un male banale, un male che si esercita non per avere un vantaggio diretto ma semplicemente perché non tolleri che un altro esista. Ecco, questo tipo di male secondo me è il più pericoloso che esista.
Tra informazione e contro-informazione, tra propaganda e contro-propaganda, nessuno è innocente – o, forse, l’età dell’innocenza è ormai svanita, per tutti.
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