Perché la musica è fondamentale per la preghiera ebraica

La tradizione ebraica insegna che la musica apre la porta alla connessione divina.

 

La musica è la più immateriale ed effimera di tutte le forme d'arte. Non possiamo vedere la musica, non possiamo afferrarla con le nostre mani, ma possiamo sentirla agire attraverso di noi e attraverso il mondo. Come tale, la musica rappresenta la nostra connessione con il divino, dell'uno con l'altro, e con il tutto. La musica è una preghiera senza parole che apre la nostra immaginazione alla fonte divina di tutta la vita.

Nel sistema numerologico ebraico noto come Gematria, il valore numerico delle parole per preghiera, tefillah, e canto, shirah, è identico. Da ciò possiamo vedere che la musica è una forma di preghiera e la preghiera è una forma di musica. Sono come due gambe del trono spirituale, che si sostengono a vicenda. Infatti, il Talmud ci insegna che musica e preghiera sono virtualmente sinonimi, dichiarando:

Dove c'è il canto, c'è la preghiera (Berakhot 6a)

Qual è la fonte di questo collegamento? È possibile che la musica possa aprire le nostre orecchie e il nostro cuore in modo che possiamo percepire meglio le sfumature e le sottigliezze del mondo che ci circonda? Se apriamo le nostre labbra e cantiamo i nostri canti imperfetti, possiamo connetterci con i canti divini di tutta la creazione? I nostri canti di preghiera possono aprire le porte del paradiso? Le nostre melodie possono svelare misteri divini?

La tradizione ebraica suggerisce che si può. I profeti dell'antico Israele si circondavano di musica, usando il suo potere per aiutarli a entrare in uno stato d’animo estatico. In una storia, il profeta Eliseo voleva ascoltare la parola di Dio, quindi chiese a un musicista di iniziare a suonare. Non appena il musicista suonò, iniziarono le capacità profetiche di Eliseo: "E quando il musicista suonava, la mano di Dio era su di lui". (II Re 3:15).

In un'altra storia, Saul, che non era ancora divenuto re, si unì a un gruppo di profeti e musicisti itineranti che suonavano un'arpa, un tamburo e un flauto per aiutare i profeti a entrare in uno stato di coscienza espansa. (I Samuele 10:5-6). Questi tre strumenti — arpa, tamburo e flauto — rappresentano i tre elementi paradigmatici della musica: armonia, ritmo e melodia. Unendosi al gruppo dei musicisti, Saul scoprì che questa esperienza musicale-profetica aveva permesso allo spirito di Dio di posarsi su di lui permettendogli di trasformarsi in un ish acher, una persona diversa, per trovare una realtà alternativa di se stesso in cui era divenuto capace non solo di profetizzare, ma di salire al trono d'Israele.

La musica, possiamo supporre, deve aver aperto le orecchie dei profeti, consentendo loro di sentire la voce divina che parlava attraverso di essi. La musica, in questo senso, ha funzionato come un'unità di ricognizione d'élite che s’infila attraverso i baluardi e le barriere difensive dei profeti, o come un amante dalle parole dolci che corteggia la sua amata. La musica ha aperto la strada al grande dono dell'amore divino, delle profezie che abbiamo almeno in parte conservato nelle parole della Torah e poi nella poesia e nella scrittura.

È possibile che la musica possa anche aiutarci a entrare in regni diversi e scoprire realtà alternative in cui potremmo raggiungere versioni migliori di noi stessi? La musica può aprirci alla nostra ispirazione e alle nostre preghiere come ha aperto i percorsi dei profeti?

Il maestro chassidico del XVIII secolo Nachman di Breslov suggerisce che potrebbe esserci rimasto qualcosa cui possiamo accedere da questa fonte di profezia. Un musicista sacro, spiega, è chiamato chazzan – una parola ebraica con la stessa radice della parola hazon, che significa "visione", e che è anche il termine moderno comune per un capo di preghiera. Il chazzan, ci dice Rebbe Nachman, «strappa il canto dal luogo dove i profeti si abbeverano».

Le melodie formano una scala divina che collega la terra con il cielo. In ebraico, la parola sulam significa sia "scala" sia "scala musicale". Forse la storia più famosa di un percorso verso il cielo è la storia della scala di Giacobbe, in cui il patriarca sogna una scala su cui gli angeli salgono e scendono. Gli angeli, secondo l'autorità medioevale di Maimonide, avevano una funzione essenziale: cantare.

La scala di Giacobbe doveva quindi essere una specie di scala musicale, con angeli melodici che salivano e scendevano insieme alle preghiere dell'umanità. Quando cantiamo, noi speriamo di condurre noi stessi all’esperienza di uno stato di elevazione, un assaggio del cielo, uno sguardo alle migliori versioni di noi stessi.

Essere un musicista allora significa essere un militante dello spirito. Ma la musica non fa questo da sola. Ci chiede di reagire, di aprirci, di cambiare insieme con lei. Dobbiamo permettere al suono del nostro canto di risvegliarci, di portarci all'azione positiva, di lasciare che la musica ci aiuti a svolgere il nostro lavoro nel mondo con sensibilità e grazia.

In definitiva, le melodie sono solo un mucchio di note: se sono fondamentalmente prive di significato o trascendenti dipende interamente da come scegliamo di ascoltare, da come scegliamo di dirigere le nostre intenzioni e se ci lasciamo congiungere alla musica. Il canto non è una fuga dalla vita, ma un tentativo creativo di ricordarci ciò che è ancora possibile. La musica ci offre, gradino dopo gradino, di salire verso il cielo, dove speriamo di scoprire la parte migliore di noi stessi, in modo da poter poi emulare quella santità nella nostra vita di tutti i giorni. Cerchiamo di trovare le nostre melodie, cerchiamo di trovare le nostre preghiere e consentiamo a noi stessi di dare vita al mondo.

Questo saggio è adattato da "The Torah of Music: Reflections on a Tradition of Singing and Song" di Joey Weisenberg. Traduzione di Barbara de Munari.