Riflessioni nel Tempo del Male

 

     Il filosofo Günther Anders (1902-1992) trasforma il motto di René Descartes (cogito ergo sum) in un cogitor ergo sum in versione laica: «Mi si pensa, dunque sono», riferendosi alla condizione esistenziale dell’uomo del XX secolo, alle tragedie della seconda guerra mondiale e della Shoah, della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki e, per quanto lo riguarda direttamente, alla sua situazione di profugo ed espatriato.

     Tutto, nel suo pensiero maturo, induce alla necessità di una riflessione sulla correlazione fra gli esseri umani. Marito di Hannah Arendt e cugino di Walter Benjamin, costretto a fuggire dalla Germania nel 1933 per le sue origini ebraiche, Anders scrive: «Io non ho avuto una vita. Non ricordo. Gli emigranti non ci riescono. Di quel singolare, 'la vita', noi, incalzati dalla storia universale, siamo stati defraudati».

     Anders si addentra con lucidità e amarezza in quella che a fatica menziona come vita (citata in latino nei suoi scritti) perché quello che gli è accaduto, i continui trasferimenti, prima a Parigi, poi in America, a New York e a Los Angeles, per fare ritorno in Europa nel 1950, stabilendosi a Vienna, con tutto quello che hanno significato in perdita di dignità e identità, lo hanno lasciato muto, spossessato di quelle qualità dell’esistenza che la possono rendere umana.

     Costretto a fuggire dalla Germania nazista, Günther Anders (registrato come Günther Siegmund Stern nei registri della comunità ebraica di Breslavia nel 1902) visse una vita da escluso, trascinandosi dietro un bagaglio apocalittico, come testimonianza di quella crisi del tempo lineare, il tempo del progresso, che Anders aveva declinato fin dalle prime opere. 

     Figlio dell'illustre psicologo Wilhelm Stern, ricevette una solida formazione umanistica. Assimilato come ebreo tedesco, allievo di Martin Heidegger e di Edmund Husserl, completò con quest'ultimo la sua tesi in filosofia nel 1923. Lo pseudonimo ‘Anders’ nacque da un invito del suo editore di Berlino a cambiare il suo cognome, Stern, in quanto era assai comune tra gli scrittori in Germania, suggerendo “qualcosa di diverso” (etwas anders in tedesco). Lui prese alla lettera il suggerimento e decise di chiamarsi “diverso”.

     Sposò nel 1929 Hannah Arendt, la sua brillante e inquieta allieva prediletta, da cui avrebbe divorziato nel 1937: il pessimismo di Anders era “difficile da sopportare”, confesserà lei in seguito, rivolta a Elfride Heidegger, mentre Anders, in un suo libro autobiografico, definirà la sua relazione con la Arendt come «il più grande amore della sua vita», anzi, «il primo e l’unico». Entrambi poi si risposarono, lui, dal 1945 al 1955 fu sposato con la scrittrice austriaca Elisabetta Freundlich; poi nel 1957 si sposò con la pianista ebreo-americana Charlotte Lois Zelka, morta nel 2001.

     Lei, nel 1940, sposò il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, con cui nel 1941 emigrò negli Stati Uniti d'America.

    Anders e Arendt non si lasciarono mai, in realtà, e rimasero sempre in contatto – anche da una sponda all’altra dell’oceano – sia durante la guerra, sia dopo, quando entrambi intrapresero le loro personali riflessioni sul Male e sulle sue cause contingenti. Un amore destinato e inevitabile.

     Scrive Anders: «Chiaramente il fatto che noi non abbiamo avuto una vita non significa che la materia della nostra esistenza sia stata povera. Se potessi radunare intorno a me tutte le figure che un giorno ho impersonato, o che mi hanno portato sulle loro spalle nel tempo e nello spazio fino a questo qui e ora, se potessi impilare dinanzi a me tutti i faits divers che mi sono capitati, ebbene, per numero e quantità tutto ciò arriverebbe a costituire una ricca esistenza umana. E tuttavia non emergerebbe nessuna singola vita, ma solamente vitae. Solamente vite, al plurale».

     Coraggio, malinconia, vergogna sono termini che tornano spesso in queste riflessioni. Il coraggio di «lasciarsi dare del codardo o del traditore», di vivere un’esistenza controcorrente, e spesso da oppositore, subendo ogni tipo di isolamento. Ma anche l’abisso della malinconia e della nostalgia, e la vergogna per le umiliazioni affrontate, per aver dovuto vivere mesi e mesi solo pensando a sopravvivere. «Hanno vissuto – sottolinea Anders – nella vergogna, per esempio, tutti quelli che, tradotti in un lager con la prospettiva di divenire rifiuti, sono stati costretti a trascorrere i giorni che restavano loro nell’attesa di essere eliminati. Rispetto a questa, la nostra vergogna era evidentemente puro privilegio. In effetti, chi è ancora vivo sente l’ingiustizia di tale privilegio come una vergogna ulteriore; ed esiste qualcosa come una comunità, piena di vergogna, composta da quelli che per caso non sono finiti nelle camere a gas».

     Hannah Arendt, invece, pur se toccata e infranta dal medesimo destino nello stesso Tempo del Male, riflette pragmaticamente con il suo sistema di analisi – influenzato da Heidegger – che contribuisce a renderla una pensatrice originale, trasversale ai diversi campi del sapere e delle specialità accademiche.

     Lei cerca di reagire con altri strumenti filosofici, adottando il concetto greco di φρόνησις, cioè la capacità di giudicare identificata anche con l'intuizione e che è in sostanza quella forma di conoscenza capace di indirizzare la scelta. Per la cultura greca questo concetto era la virtù principale dello statista, e del politico in genere, a differenza della saggezza, tipica del filosofo. Hannah Arendt ritiene che questa capacità rifletta quello che viene definito il senso comune, il buon senso, poiché si basa sulla natura del mondo in quanto realtà comune. Dunque l'oggettività del mondo viene, secondo lei, letta dalla soggettività dell'uomo attraverso i cinque sensi. Il giudizio, per la Arendt, deve essere affiancato al πείθειν ovvero alla capacità del persuadere, che lo statista o il politico devono possedere per entrare in empatia con la comunità.

     Lui fu il cofondatore del movimento antinucleare nel 1954. Pubblicò il suo diario filosofico di una conferenza internazionale su Hiroshima e la sua corrispondenza con il pilota Claude Eatherly che guidò la spedizione per lo sganciamento della bomba su Hiroshima. I suoi libri politicamente aspri dal 1960 inclusero una lettera aperta al figlio di Adolf Eichmann, un discorso sulle vittime delle guerre mondiali. Nel 1967 prese parte come giurato al Tribunale Russell per rendere pubbliche le atrocità del Vietnam.

     Lei, nel suo resoconto del Processo ad Eichmann (1960 – 1962) per il New Yorker (che divenne poi il libro La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme1963) sollevò, tra mille polemiche, la questione di come il male potesse essere non essere radicale: anzi forse era proprio l'assenza di radici, di memoria, il non ritornare sui propri pensieri e sulle proprie azioni mediante un dialogo con se stessi (dialogo che Arendt definisce due in uno e da cui, secondo lei, scaturisce e si giustifica l'azione morale) che aveva trasformato personaggi spesso banali in autentici agenti del male. Questa stessa banalità aveva reso, come accaduto nella Germania nazista, un popolo acquiescente, quando non complice, con i più terribili misfatti della storia, contribuendo a far sentire l'individuo non responsabile dei propri crimini, senza il benché minimo senso critico.

     E così espresse la sua protesta verso l'omologazione cui la costringeva la dottrina razzista della Germania hitleriana: «Se sottolineo tanto esplicitamente la mia appartenenza al gruppo degli Ebrei cacciati dalla Germania a un'età relativamente giovane è perché desidero prevenire taluni malintesi che insorgono fin troppo facilmente quando si parla di umanità. In questo contesto, non posso passare sotto silenzio il fatto che per molti anni ho ritenuto che la sola risposta adeguata alla domanda: chi sei? Fosse: un'Ebrea. Solo questa risposta teneva conto della realtà della persecuzione...».

 

     Lui riesce a trovare parole di gratitudine per essere riuscito a salvaguardare la propria lingua ed averne scoperta una nuova, o altre ancora, e per aver potuto dare spazio a quella vita intellettuale che ha permesso a tanti profughi di andare oltre «un’esistenza balbuziente » grazie alla scrittura. Proprio per questo, dice, «non c’è nessuno che meriti la nostra dedica quanto lei, la nostra maestra: l’epoca buona di miseria del nostro esilio».

     E afferma, in modo provocatorio, di essere un «conservatore ontologico, poiché oggi ciò che conta è più di tutto conservare il mondo, qualunque esso sia».

 

     Dopo il 1945 viviamo, per Anders, in un’epoca con una scadenza, potranno essere anni, secoli, forse millenni, ma una cosa è certa: nessuno di noi potrà assistere alle conseguenze che porteranno a un mondo senza l’uomo. E conclude, in un’intervista intitolata Sulla fine del pacifismo: «Nei cimiteri in cui riposeremo nessuno verrà a piangerci. I morti non possono piangere altri morti».

 

     E, piano piano, Günther Anders e Hannah Arendt si avvicinano di nuovo, le loro riflessioni filosofiche si incontrano e si incrociano, maturano nell’esperienza del Male – ritirandosi però, pure e intatte, nel momento escatologico.

     Dalla consapevolezza di ciò che stava accadendo all’umanità intera, nacque in Günther Anders l’esigenza di una nuova filosofia: un incrocio tra metafisica e giornalismo, cioè un filosofeggiare che tenesse al centro della riflessione la condizione odierna dell’uomo. Dopo lo sgancio dell’atomica, decide di dedicarsi all’impegno politico, interrompendo così la sua ricerca filosofica.

Questa scelta viene spiegata da Anders nel secondo volume de L’uomo è antiquato dove afferma: «sentivo assai più ineludibile il partecipare effettivamente alla battaglia combattuta da migliaia di persone contro una simile minaccia; e dunque, se ho piantato in asso il mio primo volume, è stato perché non volevo piantare in asso la cosa che in esso avevo rappresentata».

     Hannah Arendt, invece, difese il concetto di “pluralismo” in ambito politico. Secondo lei, grazie al pluralismo, il potenziale per la libertà politica e l'uguaglianza tra le persone si sviluppano. Importante è la prospettiva di inclusione dell'altro, ovvero di ciò che ci è estraneo.

 

     Senza grottesche e pericolose evasioni dalla realtà, feriti e consapevoli, impegnarono le loro Vite per amore del mondo.

©Barbara de Munari