Da qualche giorno mi torna costantemente alla mente un ricordo, un aneddoto di qualche anno fa a Gerusalemme. Ero stata invitata dall'Università Ebraica a parlare davanti agli studenti, un pubblico di giovani Israeliani che avevano coscienziosamente preparato una serie di domande.

Uno di loro alzò la mano e mi chiese: «Come pensi che si possa essere un rappresentante religioso e difendere la laicità?». Un altro proseguì e mi chiese: «Come puoi essere sia un rabbino sia una femminista?». Poi un terzo studente pose una domanda abbastanza tradizionale: «Pensi che Israele possa essere sia uno Stato ebraico sia uno Stato democratico?».

È qui che interruppi la raffica di domande per farne una a mia volta, e invitare i miei interlocutori all'introspezione. Feci notare loro che continuavano, ognuno a modo proprio, a formulare la stessa domanda, che si potrebbe riassumere così: si può essere sia questo sia quello? Possiamo abitare contemporaneamente in un mondo e in un altro? 

O, per dirla in altro modo: i termini delle nostre equazioni ideologiche sono condannati a confrontarsi in modo così semplicistico? C'è, al contrario, una possibilità di introdurre un po' di complessità nei nostri dibattiti, di sfuggire alle letture impoverite delle nostre identità, della nostra laicità, del nostro femminismo o del nostro ebraismo, per fornirne espressioni meno caricaturali?

So perché questo ricordo mi ossessiona oggi: ne sento l'eco permanente nell'analisi degli eventi in corso in Israele. Continuo a leggere, dalla penna di molti commentatori, che lo Stato ebraico avrebbe sconfitto lo Stato democratico, che Israele avrebbe scelto l'ebraismo contro i valori liberali, la Bibbia e il Talmud contro l'illuminismo e la modernità... E ho voglia di urlare. 

Non che io non veda il pericolo in corso per la democrazia israeliana. Bisognerebbe essere molto ingenui per non riconoscere il fenomeno in atto, come uno specchio abbastanza preciso di ciò che colpisce altri paesi: l'ascesa del nazionalismo e del populismo, le ossessioni identitarie, l'attacco alle istituzioni democratiche, i media, l'indipendenza della magistratura, i diritti delle minoranze o i valori progressisti; l’ossessione nazionalista o religiosa per le identità «pure» o «autentiche»; la figura del leader intoccabile che parla in nome del popolo per rafforzare meglio il proprio potere o la propria protezione personale... Tutto ciò non è nuovo, e  piace a chi assapora la demonizzazione di Israele, a chi ama descriverne gli errori o i suoi difetti, più terribili di quelli del resto del mondo. 

Non c'è bisogno di perdere tempo a cercare di convincere questi ossessivi di qualcos'altro: faranno sempre di Israele il principale colpevole, un attore più immorale o contaminato degli altri, a pari colpa. Spiace per loro, ma la deriva nazionalista e antiliberale di Israele non è più immorale e pericolosa di quella che si manifesta altrove… O meglio, lo è altrettanto.

Resta l'altra catastrofe, a mio avviso più perniciosa, che consiste nel suggerire che la forza attiva dietro questa impresa di instabilità democratica abbia un nome: ebraismo. Ed è lì che io tremo. Mi infuria vedere questo nuovo governo alimentare una tale aberrazione, fare gargarismi sul rispetto dei valori ebraici «veri e ancestrali», ergersi a garante della purezza dell'identità e istituire ministeri a suo nome, delegittimare le voci plurali del mondo ebraico mondiale per "kosherizzare" solo una ricetta ortodossa e messianico - nazionale, per lottare contro l'uguaglianza tra uomini e donne, contro l'omosessualità, o per la supremazia etnica dei «valori ebraici».

Quindi no, lo Stato ebraico non ha vinto contro lo Stato democratico... per la semplice e buona ragione che entrambi sono i grandi sconfitti dell'attuale cambiamento. L'ebraismo è oggi l’oggetto di un sequestro ideologico, in nome di certezze messianico - nazionaliste che lo amputano di una parte di sé, di quello che potrebbe essere e di quello che potrebbe ancora essere.

Lo afferma il profeta Isaia nella forma di una famosa massima biblica: «Per Sion, io non tacerò» e la sua voce risuona oggi, per molti di noi, come una sacra ingiunzione. Per amore di Sion, dobbiamo parlare. 

Certo, so meglio di altri cosa rende complesso questo discorso, cosa a volte lo censura. L'odio antisemita, mentre fantastica sull'immancabile solidarietà ebraica, si diletta sempre delle dispute interne al popolo ebraico. L'ossessione antisionista, alla ricerca di tutto ciò che possa ledere ulteriormente il diritto di Israele a esistere, strumentalizza ogni critica, soprattutto quando è espressa da una «voce ebraica». 

Tuttavia, oggi voglio unire la mia voce a quella di tutti quegli amanti di Israele che si sentono traditi e che sanno benissimo che domani saranno accusati di essere i nemici del progetto che tanto hanno amato o nutrito.

Essendo accusata di tradimento o d’illegittimità, ho una certa abitudine in materia, e un bel po' di allenamento nell'esercizio. Negli ultimi anni ho così spesso sentito dire che non ero altro che un’imbrogliona, che il mio ebraismo non era abbastanza «barbuto» o dogmatico per essere autentico, che non esisteva una donna rabbino, che il mio sionismo di sinistra, la mia denuncia degli effetti della colonizzazione o la mia preoccupazione per la sofferenza palestinese mi hanno reso una traditrice, una ingenua o una irresponsabile.

E ho dovuto sperimentare così spesso scontri con voci conservatrici che ho finito per capire cosa ci distingueva davvero: non è, in fondo, né il nostro credo, né la nostra pratica, né il nostro attaccamento alla tradizione, né la nostra preoccupazione per il futuro del popolo ebraico. No, è qualcosa di più fondamentale: è il nostro rapporto con l'autenticità.

Molto spesso ho davanti a me qualcuno che è convinto di essere il «vero ebraismo, la «vera» tradizione, il legale rappresentante e funzionario di una fedeltà alla Storia e alle generazioni passate, un traduttore giurato della volontà di D-o, dei nostri padri o dei nostri maestri.

Di fronte a lui, e contro di lui, io affermo che nessuno di noi può avere il coraggio di dire ciò, e che io non sono il vero ebraismo più di quanto non lo sia lui, che la tradizione parla e ha sempre parlato con voci plurali, e che la storia, i suoi drammi, le sue sorprese e le sue tragedie hanno dato luogo a interpretazioni complesse e talvolta contraddittorie, ma mai illegittime.

Il libro di Ester, messaggio biblico di sopravvivenza diasporica e monito contro l'abuso del potere politico, non offre il messaggio del libro di Giosuè, la sua conquista militare e la sua passione per la sovranità. Essi parlano lingue diverse all'interno dell'ebraismo, in vari contesti e in varie geografie. 

Il messianismo ebraico ha prodotto il meglio e il peggio nella Storia, ha prodotto prodigi e catastrofi, ha suscitato speranze e falsi profeti. È stato elogiato o relativizzato, come uno slancio nostalgico per un passato che non esiste più o un'utopica promessa di giustizia a venire. Ha saputo unire o, al contrario, alimentare le divisioni.

Ha avuto molti volti, in diversi contesti storici. E la forza dell'ebraismo è stata quella di attingere dalla sua immensa biblioteca di risorse per la sopravvivenza e la resilienza, e di far risuonare questi libri attraverso le voci di uomini e donne impegnati nella loro epoca. Soprattutto, ha avuto l’occasione immensa di ascoltare le voci che gli hanno portato la  contraddizione.

L'interpretazione ebraica di un Ben Gvir è solo una voce/linguaggio di tutto ciò che l'ebraismo può parlare. Non è la mia lingua ebraica, non è quella in cui parlo ai miei figli, ai miei allievi o ai miei amici, non è quella in cui credo. Il suo messaggio esclusivo ed escludente ci impoverisce e ci condanna quando pretende di avere piena legittimità. Esso deve, in quanto tale, essere combattuto all'interno della stessa tradizione ebraica, e non solo dalle forze della democrazia moderna. Sta a noi non permettere che né il sionismo né l'ebraismo vengano rapiti da coloro che dicono esserne gli unici padroni. Sta a noi lottare per la democrazia in Israele, non contro l'ebraismo, ma con e grazie ad esso.

* Isaia 62,1

 

Mappa di Gerusalemme, Piazza Safra a Gerusalemme -  Replica in mosaico di una xilografia del 1581 (Magdeburgo)

 

Testo dal francese in italiano a cura di: Barbara de Munari

Testo dal francese in inglese e in ebraico a cura di: Natasha Lehrer

https://www.tenoua.org/dh-israel-jan2023-en/?fbclid=IwAR02pkiK892BMr_Gu7z3gAYbteF9epvhhOdB8d72WX2prIvxoGoiMWWK-5k

https://www.tenoua.org/dh-israel-jan2023-he/?fbclid=IwAR1k-Oss3Cs2xJJ1CKyfMJoYc53MszIFBHvAyQNcHRNhxQlSPf8aIljpqkQ

 

לְמַעַן צִיּוֹן לֹא אֶחֱשֶׁה*

‏רבים ביקשו זאת: הנה תרגום לעברית של המאמר של דלפין הורבילר ‏שפורסם בעיתון תנועה השבוע

 

 

 

 

 

 

 

 

 AJAR NON ESISTE

Il doppio, il dibbuk e le ossessioni identitarie

 

Nel 1981 Bernard Pivot rivelò che Émile Ajar e Romain Gary erano la stessa persona. Uccidendosi, Romain Gary aveva ucciso anche Émile Ajar: il primo suicidio letterario senza consenso.

Nel 2022 inizia una nuova storia, a firma di Delphine Horvilleur: l'incontro con Abraham Ajar che si dichiara figlio di Émile Ajar, figlio di un padre fittizio, figlio di un libro. Egli sfida il mondo con acidità dal fondo della sua cantina, questo "buco ebraico", come lo chiama lui, mette in discussione la contemporaneità e con umorismo invita a ridere dei dogmi, delle nostre identità e delle nostre certezze.

Abraham, il figlio di Émile Ajar, il trucco letterario usato da Romain Gary per pubblicare La vita davanti a sé, parla.

Si rivolge a un misterioso interlocutore per rivisitare l'universo dello scrittore ma anche quello della Kabbalah, della Bibbia, dell'umorismo ebraico e degli attuali dibattiti politici su nazionalismo, identità e appropriazione culturale.

Alcune persone pensano che si scriva per liberarsi di qualcosa o di qualcuno che ci perseguita, ma è il contrario. Si scrive sempre per conservare, e continuare un dialogo con ciò che non c'è più, un dialogo che altrimenti la vita ci costringe a interrompere. Scriviamo perché le parole rafforzano sempre i legami. Fa famiglia, molto più solidamente del sangue e della filiazione biologica.

Esistono persone, poi, che sono in grado di descriverti tutto quello che è successo loro, di raccontarti un dettaglio dell'incendio dell'Inquisizione, un pogrom lituano, e contare i morti, al milione più vicino. Ricordano miliardi di cose che tutti gli altri hanno dimenticato. Tutto è registrato, registrato, commemorato... tranne un piccolissimo dettaglio: il nome di D-o...

Ed ecco il risultato: ci sono milioni di persone che cercano nella Bibbia, nei Vangeli e nel Corano una giustificazione per tutti i loro consolidamenti identitari, la formula magica di ogni cosa, un legittimo atto di proprietà per essere veramente se stessi. Si aggrappano al loro libro come a un test del DNA, che li ancorerebbe da qualche parte. Qualcosa che li fisserebbe nell'esistenza.

***

«Due uomini sono morti e per di più erano uguali»: quando lo scrittore Romain Gary si tolse la vita, nel 1980, uccise anche il sosia che si era inventato e in cui tutti credevano, Émile Ajar.

Delphine Horvilleur immagina quindi la storia di Abraham Ajar, ebreo, musulmano e cristiano, figlio fittizio di Émile Ajar, egli stesso scrittore inventato dal vero romanziere Romain Gary. Partendo dal principio che siamo prima di tutto i figli dei libri che abbiamo letto, Delphine Horvilleur ci invita a fare un passo verso l'estraneo che è dentro di noi.

Non è un testo (portato anche a teatro) sull'identità, ma un monologo contro l'identità, attraverso quella di un personaggio indefinibile che rivendica la sua non esistenza: lui, figlio fittizio di una vera e propria mistificazione letteraria, si offre di definire diversamente la realtà.

Scrivere è una strategia di sopravvivenza. Solo la finzione del sé, la reinvenzione permanente della nostra identità è in grado di salvarci, perché l'identità fissa, quella di chi ha finito di dire chi è, rappresenta la morte della nostra umanità. 

 

Delphine Horvilleur, narratrice e rabbino, manipola l'umorismo ebraico con una raffinatezza furiosa. 

Scrive in un libro e compone per il teatro il monologo esplosivo del figlio immaginario dello scrittore Romain Gary e di Émile Ajar, lui stesso doppio immaginario del primo. 

Abraham Ajar, discendente inventato dell'autore di La vita davanti a sé, alias Gary/Ajar, parla. Diventa pitone o topo bianco, padrone o schiavo, donna o uomo, cristiano, ebreo o musulmano. Scopre se stesso e mille altri sé allo stesso tempo, in uno specchio teatrale piantato davanti al nostro inconscio, come un essere indefinibile, in un mondo e in un tempo che li esaspera tutti.

 

***

Prima di Biancaneve, prima del Gatto con gli Stivali, prima dei Sette Nani e della Fata Carabosse, Nina Kacew, la madre dello scrittore Romain Gary, al secolo Romain Kacew, sussurrò al figlio i nomi della vasta schiera di nemici contro i quali un uomo degno di questo nome deve battersi.

C’era prima di tutti Tatoche, il dio della stupidità, metà scimmia e metà intellettuale. Nel 1940 era il cocco e il teorico dei tedeschi, dopo si è appollaiato sulle spalle dei nostri scienziati, e a ogni esplosione nucleare la sua ombra si fa un po’ più alta sopra la terra.

C’era Merzavka, il dio delle certezze assolute, una specie di cosacco ritto sopra cumuli di cadaveri; ogni volta che uccide, tortura e opprime in nome delle sue verità religiose, politiche o morali, la metà del genere umano gli bacia le scarpe con commozione.

C’era Filoche, il dio della meschinità, dei pregiudizi, del disprezzo, dell’odio che, affacciato alla guardiola della portineria, all’ingresso del mondo abitato, grida: «Sporco americano, sporco arabo, sporco ebreo, sporco russo, sporco cinese, sporco negro…».

E vi sono numerosi altri dei, più misteriosi e più loschi, più insidiosi e nascosti, difficili da identificare…

 

Già compromesso dal suo rapporto simbiotico con la madre, impregnato ogni giorno dall'idea di un "sé puro" e di un'appartenenza "autentica" alla nazione, all'etnia o alla religione, soffocato, da anni, anche da uomo, Romain Gary elabora, per sopravvivere, una sua chiave segreta per l'emancipazione da questo tutto – amato e insieme insopportabilmente opprimente: Émile Ajar.

E così, firmato da Romain Gary con lo pseudonimo di Émile Ajar, apparve Pseudo, nel 1976, un anno dopo la vittoria al Goncourt del romanzo che ha per indimenticabile protagonista Momo, il ragazzo della banlieue di Belleville .
Gary aveva già contribuito a rendere verosimile la sua beffa segreta – aveva già vinto il Goncourt nel 1956 con Le radici del cielo e il regolamento del concorso non gli consentiva una seconda vittoria – convincendo Paul Pavlowitch, giovane figlio di una cugina, a impersonare Émile Ajar.

Pavlowitch si immedesimò talmente nel ruolo da interpretarlo alla luce del sole, rilasciando interviste, arrivando persino a occupare un posto da editor presso Mercure de France – la casa editrice delle opere di Ajar – e disperdendo (apparentemente) le nubi del mistero.

Quando qualche giornalista scoprì la sua parentela con Romain Gary, il vero autore de La vita davanti a sé non si scompose. Decise un azzardo più grande. Scrisse e pubblicò, sempre sotto l’identità di Ajar, questo libro in cui inventò uno zio violento, tirannico e manipolatore che gli somigliava: Tonton Macoute. L’azzardo venne ricompensato. Tutti i critici lo riconobbero nel personaggio di Tonton Macoute. A nessuno, però, venne in mente che Romain Gary potesse essere Émile Ajar. Alla pubblicazione dell’opera, il recensore dell’Express parlò, anzi, di «un libro vomitato frettolosamente da un giovane scrittore diventato famoso e montatosi la testa».
In realtà Pseudo, cui Gary aveva lavorato da quando aveva vent’anni, è uno straordinario libro sui meandri della creazione letteraria e, in virtù di questo, una delle opere maggiori dell’autore de La vita davanti a sé.
Con un andamento tumultuoso di monologhi, flussi di coscienza e stili, registri e personaggi presi dalla realtà e trasfigurati, Romain Gary appronta in queste pagine la sua «difesa Ajar», la difesa di uno pseudonimo che è, contemporaneamente, la difesa della letteratura come aperta dissimulazione della realtà.

Come scrisse nel suo libro-testamento, pubblicato postumo, Vita e morte di Émile Ajar: «in Pseudo (…) ogni cosa è romanzo».

Persino il suo autore.

 

***

«Mi sono davvero divertito. Arrivederci e grazie»: così scrisse Romain Gary, in una lettera indirizzata al suo editore, Gallimard, poco prima di togliersi la vita. Con una vera e propria «poetica del fare pseudo», cioè divenire un personaggio che non si appartiene mai, inafferrabile, sempre altro sia a se stesso sia da se stesso, Émile Ajar, Romain Gary stesso, pseudonimo di Roman Kacev, non sono altro, da questo punto di vista, che nomi di questa poetica, tentativi, cioè, di uscire dall’«impostura dell’esistenza» reale e di vivere la propria autentica esistenza nella verità della letteratura.

Si aggiunga che Ajar non fu l’unico pseudonimo di Romain Gary (Kacev); egli aveva, infatti, anche scritto un romanzo poliziesco-politico, Le teste di Stéphanie, con il nome di Shatan Bogat e una allegoria satirica, L'uomo con la colomba, firmata Fosco Sinibaldi (sin- sostituisce gar- in Gar-ibaldi).

Grazie al suo spirito di mistificazione (Gary e Ajar significano rispettivamente "brucia!" e "brace" in russo; alcune frasi si trovano identiche negli scritti di entrambi gli autori), Romain Gary fu l'unico scrittore a ottenere due volte (cosa impossibile per statuto del Premio in questione) il Premio Goncourt. La prima volta nel 1956 con il suo pseudonimo usuale, per Le radici del cielo, e la seconda volta nel 1975 con lo pseudonimo di Émile Ajar, per La vita davanti a sé.

***

Ossessioni identitarie, tribalismi esclusivi e competizioni tra vittime, tutto quotidianamente viene sbranato da coloro che difendono l'idea di un "sé puro", e di un'appartenenza "autentica" alla nazione, all'etnia o alla religione. Stiamo soffocando, eppure, da anni, un uomo detiene, secondo Delphine Horvilleur, una chiave per l'emancipazione: Émile Ajar.

E quest'uomo non esiste... È un trucco letterario, è il nome che Romain Gary ha usato per dimostrare che non siamo solo ciò che diciamo di essere, che c'è sempre la possibilità di reinventarsi con la forza della finzione letteraria e con la possibilità offerta dal testo di scivolare nei panni di qualcun altro.

Nel testo Il n’ya pas de Ajar, un uomo (interpretato sul palcoscenico da una donna...) afferma di essere Abraham Ajar, figlio di Émile, figlio di un trucco letterario. Chiede così al lettore/spettatore che lo visita in una cantina, il famoso “buco ebraico” di La Vie avant soi: sei figlio della tua stirpe o figlio dei libri che hai letto? Sei sicuro dell'identità che affermi di incarnare?

Parlando direttamente a un misterioso interlocutore, Abraham Ajar rivisita il mondo di Romain Gary, ma anche quello della Kabbalah, della Bibbia, dell'umorismo ebraico... e anche dei dibattiti politici di oggi (nazionalismo, trans identità, antisionismo, ossessione per il genere o politica delle identità, appropriazione culturale, etc.).

Il testo dell'opera è preceduto da una prefazione di Delphine Horvilleur su Romain Gary e la sua opera.

In ogni libro di Gary si nascondono i "dibbuk", i fantasmi che scappano dalle antiche storie yiddish, quelli di una madre i cui sogni lo hanno costruito, quelli di un padre di cui inventa l'identità, con i fantasmi di un'Europa distrutta e le ceneri della Shoah, e l'ingiunzione di essere un “mensch”, un uomo al culmine della Storia.

E Romain Gary diviene il personale dibbuk di Delphine Horvilleur.

Lei scrive: «Avevo 6 anni quando Gary si è suicidato, l'età in cui stavo imparando a leggere e a scrivere. Mi è sembrato spesso, nella mia vita di lettrice e poi di scrittrice, che Gary fosse uno dei miei personali "dibbuk"... E che io continuassi a riscoprire ciò che ha saputo dimostrare magistralmente: la scrittura è una strategia di sopravvivenza. Solo la finzione dell'io, la reinvenzione permanente della nostra identità è in grado di salvarci. L'identità fissa, quella di chi ha finito di dire chi è, è la morte della nostra umanità».

E ha immaginato un monologo di Romain Gary (alias…) contro l'identità, il monologo di uno/a che sul palco attacca violentemente tutte le ossessioni del momento. Con la fascinazione per l'unico scrittore che ha saputo vincere due volte il Premio Goncourt, attraverso un sotterfugio che suscita indignazione e ammirazione insieme, Delphine Horvilleur ci parla dell'identità, di cosa significa e di cosa comporta.

Segue una breve ma vivace riflessione sulla nozione di identità, sull'ebraicità, sul fondamentalismo, sul razzismo e persino sull'epigenetica.

Grande ammiratrice di Romain Gary, l'autrice dedica la prima parte del suo libro agli strettissimi legami "intellettuali" che la legano a questo scrittore e al suo pensiero. Evoca la natura degli scambi che avrebbe voluto avere con lui, accennando al fatto che il suo rifiuto di ridursi a un'identità, in particolare alla sua ebraicità, "lo rende un autore molto ebreo", e quanto questo aspetto della sua personalità tuttavia penetri, consapevolmente o meno, nelle sue scelte e nei suoi testi. 

Il rifiuto di Gary di lasciarsi definire da un'identità o da un'unica definizione di sé ha molto a che fare, secondo Horvilleur, con la sua ebraicità. In un certo senso, la sua sfida all'identità lo rende un autore molto ebreo… per fare in modo che tu non sia mai completamente te stesso, rendendo straniero il tuo posto in te stesso. Sapendo in questo modo, ovunque tu sia, che non sarai mai completamente a casa.

Insomma, in ebraico, puoi "essere stato" e puoi "essere in divenire", ma non puoi assolutamente essere... né binario, né non binario, né uomo, né donna.

Sei stato e diventerai, ma sei necessariamente nel mezzo della tua mutazione.

Barbara de Munari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il festival Nessiah torna con spettacoli dal vivo nella sua XXVIesima edizione.
Il tema di quest’anno è “Arte ebraica tra precetti e creatività”.

TUTTI GLI SPETTACOLI SONO A INGRESSO LIBERO FINO A ESAURIMENTO POSTI

 

 

DOMENICA 27 NOVEMBRE  2022 | ORE 11.30

SINAGOGA DI PISA

VIA PALESTRO 24

ARTE EBRAICA
TRA PRECETTI ECREATIVITÀ

 http://www.festivalnessiah.it/conferenza/

 

 

DOMENICA 27 NOVEMBRE  2022 | ORE 18.00

SINAGOGA DI PISA

VIA PALESTRO 24
 

AVINU MALKENU

MUSICA SINAGOGALE ITALIANA

 http://www.festivalnessiah.it/avinu-malkenu/

 

MERCOLEDÌ 30 NOVEMBRE | ORE 18.00

SAMMARTINO – SPAZIO ARSENALE 

VIA SAN MARTINO 63
 
I AM NOT THERE

(IO NON SONO QUI)

I AM NOT THERE (USA 130’)
REGIA TODD HAYNES
CON CHRISTIAN BALE, CATE BLANCHETT, HEATH LEDGER
PROIEZIONE IN LINGUA ORIGINALE CON SOTTOTITOLI IN ITALIANO
http://www.festivalnessiah.it/i-am-not-there/

 

 

DOMENICA 4 DICEMBRE | ORE 18.00

AUDITORIUM DI PALAZZO BLU 

LUNGARNO GAMBACORTI, 9

IL GUANTO NERO

CHAGALL E LO SPIRITUALE NEL SOGNO

 

OPERA DA CAMERA
PER VOCE NARRANTE, SOPRANO, BARITONO, CLARINETTO, VIOLONCELLO E PIANOFORTE

TESTO E MUSICA DI DELILAH GUTMAN
http://www.festivalnessiah.it/il-guanto-nero/

 

 

MERCOLEDÌ 7 DICEMBRE | ORE 18.00

SAMMARTINO – SPAZIO ARSENALE

VIA SAN MARTINO,  63
 

NO DIRECTION (HOME)

DA BOB DYLAN AD HERBERT PAGANI, IL RAPPORTO TRA MUSICA POESIA E DISEGNO

http://www.festivalnessiah.it/no-direction-home/

 

 

SABATO 10 DICEMBRE | ORE 21.00

TEATRO S. ANDREA 

VIA DEL CUORE, PISA
 

NESHAMOT
(ANIME)

 

SPETTACOLO TEATRALE ISPIRATO ALL’OMONIMO LIBRO DI ROY CHEN

http://www.festivalnessiah.it/neshamot/

 

 

DOMENICA 11 DICEMBRE | ORE 18.00

GIPSOTECA DI ARTE ANTICA

PIAZZA S. PAOLO ALL’ORTO, 20
 

NUANCE EBRAICHE

 

OMAGGIO ALLA MUSICA CLASSICA DEL NOVECENTO ISPIRATA AL FOLCLORE EBRAICO

 http://www.festivalnessiah.it/nuance-ebraiche/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Esposti oltre 170 oggetti eccezionali per raccontare quasi due millenni di scambi e conflitti che hanno plasmato questo crocevia dell'Eurasia.

 

Parigi, 25 nov. - (Adnkronos) - Da Alessandro Magno a Marco Polo, da Gengis Khan a Tamerlano, passando da Samarcanda a Bukhara, il Louvre illumina la storia della Via della Seta in Asia Centrale mettendo in mostra oltre 170 oggetti eccezionali per raccontare quasi due millenni di scambi e conflitti che hanno plasmato questo crocevia dell'Eurasia.

Animismo, zoroastrismo, manicheismo, buddismo, nestorianesimo, ebraismo e islamismo ma anche influenze greche, iraniane, cinesi, indiane e della steppa russa: tutto ciò racconta la grande esposizione dal titolo "Splendori delle oasi dell'Uzbekistan" che il museo di Parigi ospita fino al 6 marzo 2023.

 

Tra le 170 opere selezionate da Yannick Lintz, ex direttore del Dipartimento di Arti islamiche del Louvre e recentemente nominato responsabile del Musée Guimet des Arts asiatiques, la più antica è una scultura in serpentino scoperta nella valle di Fergana e risale al III millennio a.C. Seguono gli oggetti che evocano la Battria, un'antica regione dell'Asia centrale. Nel III secolo le vie carovaniere erano già ben sviluppate, governate tra le montagne del Pamir e il Mare d'Aral da una pletora di stati-oasi impregnati di ellenismo. I principi della dinastia Kushan che li detenevano facevano modellare in argilla le loro effigi e quelle delle loro divinità: queste vestigia policrome e talvolta monumentali, sono state estratte dagli anni '70 del secolo scorso dai siti di Dalverzine-Tépé e Kaltchayan, poi pazientemente ricostituite e restaurate da un'équipe archeologica franco-uzbeka.

 

Alla cultura Kushan, che ha lasciato tesori d'oro e palazzi affrescati, succedettero a ondate gli Unni: questi nomadi divennero rapidamente aristocratici dei principati, avendo l'occhio e la mano sugli incessanti convogli di tessuti, carta, spezie, pigmenti, presto anche porcellana e polvere. La gente viveva sotto l'egida del Dio della Seta, una figura visibile in un pannello votivo del VII secolo; poco distante è esposta una forchetta e un cucchiaio pieghevoli, portati alla luce da Rocco Pante, archeologo e curatore scientifico del Louvre.

 

La superstar dell'hip-hop, nell'occhio del ciclone per alcune uscite a dir poco non politically correct, ha annunciato con largo anticipo la sua candidatura.

 

Joe Biden e Donald Trump non saranno da soli. All'improvviso, in un venerdì mattina di fine novembre, è infatti arrivata un'altra candidatura alle elezioni presidenziali del 2024. Si tratta di Kanye West, un rapper che sogna la Casa Bianca. Ma attenzione a pensare che il suo modello possa essere Barack Obama solo perché questo è stato il primo presidente non bianco degli Stati Uniti d'America. Anzi, tutto il contrario.

 

Kanye West ha più volte fatto sapere di ammirare Donald Trump. E anzi, le sue ultime affermazioni sono arrivate dopo che West è stato avvistato al golf club Mar-a-Lago diTtrump all'inizio della settimana, accompagnato da Nick Fuentes, un influente suprematista bianco. Ha addirittura affermato di aver chiesto proprio a Trump di essere il suo compagno di corsa verso le urne. Ricevendo un (prevedibile) rifiuto.

 

La star della musica hip hop, che ha cambiato legalmente il suo nome in Ye, ha persino già postato sui social media un video del logo della sua campagna elettorale, accompagnato dalla didascalia ‘ye 24’. Già nel 2020 si era candidato, ricevendo però solo 70 mila preferenze. Tanti quanti gli stadi che riempie coi suoi concerti. Quando West si è candidato alle presidenziali del 2020, ha annunciato la sua campagna troppo tardi per apparire sulla scheda elettorale in almeno sei stati. Ha tenuto un solo comizio, in cui è scoppiato in lacrime mentre parlava di aborto, e ha finanziato due spot televisivi. Alla fine, è stato indicato come candidato solo in 12 stati.

 

Che cosa significa la candidatura di Kanye West

 

Per la sua candidatura nel 2024, il rapper ha spiegato di aver arruolato il commentatore Milo Yiannopoulos come manager della sua campagna. Ex redattore della testata di destra Breitbart, Yiannopoulos è stato ampiamente evitato dai conservatori tradizionali dopo che nel 2017 è emerso un video in cui sembrava giustificare la pedofilia.

 

Il lancio della campagna elettorale di West avviene mentre il rapper deve affrontare una serie di dannose controversie. Ha provocato una tempesta di critiche dopo aver partecipato alla settimana della moda di Parigi con una maglietta che riportava lo slogan "white lives matter", una frase adottata dai suprematisti bianchi, che hanno iniziato a usarla nel 2015 come risposta al movimento "black lives matter". West ha poi affermato che i suoi critici sono stati pagati da una cabala segreta di Ebrei, un comune punto vista dell'antisemitismo.

Poiché ha continuato a fare commenti antisemiti online e in interviste televisive, il 45enne è stato abbandonato dalla sua agenzia di talenti, mentre aziende di moda come Gap, Adidas e Balenciaga hanno dichiarato che non avrebbero più lavorato con lui. Il musicista ha poi commentato di aver perso "2 miliardi di dollari in un giorno". All'inizio della settimana, la rivista Rolling Stone ha riportato le affermazioni secondo cui West avrebbe usato "bullismo e giochi mentali" per creare un "ambiente tossico" tra i dipendenti Adidas che lavoravano alle sue scarpe yeezy.

 

Intanto, ci si interroga sulla sua candidatura, che stavolta è arrivata con largo anticipo. Solo una boutade oppure qualcosa di più?

 

(Affaritaliani.It | esteri)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(Ansa) - New York, 14 nov - 'Saturday Night Live' nella bufera per aver affidato a Dave Chappelle la conduzione dell'ultima puntata. Il controverso comico afro-americano ha aperto lo show satirico della nbc con una serie di battute giudicate dalle organizzazioni ebraiche americane un pericoloso volano per l'antisemitismo.

Già al centro di polemiche per frasi razziste e anti-trans nel suo ultimo special su netflix, Chappelle aveva esordito il monologo iniziale dello show leggendo un breve proclama: "denuncio l'antisemitismo in tutte le sue forme e difendo i miei amici nella comunità ebraica". Poi, alzando lo sguardo dal foglio: "questo Kanye, è il modo con cui guadagni tempo", aveva aggiunto rivolgendosi a  Kanye 'ye' West, il rapper e stilista di 'streetwear' la cui carriera nella musica e nella moda è stata travolta da  una serie di recenti esternazioni antisemite.

"Ho imparato in 35 anni di carriera che ci sono due parole in inglese che non devi mai pronunciare una accanto all'altra. Sono l'articolo 'the' e la parola 'ebrei'. Non te ne viene niente di buono", aveva detto poi Chappelle, osservando che "l'illusione che gli ebrei dominano lo show business" non è "una cosa pazza da pensare", ma "è una pazzia da non dire a voce alta". Quanto a Kanye, "ha rotto le regole. Se sono neri è una gang, se sono italiani è una cosca mafiosa. Se sono ebrei è una coincidenza e non bisogna mai parlarne".

Frasi che il ceo di Anti-Defamation League Jonathan Greenblatt ha subito criticato, accusando 'snl' (e la nbc che manda in onda il programma satirico del sabato notte) di aver fatto da cassa di risonanza all'antisemitismo: "non dovremmo aspettarci che Chappelle sia una bussola di moralità, ma ci disturba vedere 'snl' non solo normalizzare ma addirittura popolarizzare l'antisemitismo. Perché le sensibilità degli Ebrei devono essere negate o sminuite praticamente ad ogni passo? Perché il nostro trauma scatena applausi?".

Polemico anche il critico di 'Time out New York' Adam Feldman, secondo cui "il monologo di Chapelle ha fatto di più per normalizzare l'antisemitismo di tutto quel che ha detto Kanye West. Tutti sanno che Kanye è un matto, mentre Chappelle si presenta come uno che dice verità difficili, ed è peggio".

La scelta di Chappelle come 'host' di snl aveva provocato polemiche alla vigilia: secondo il 'New York Post', smentito peraltro da collaboratori del comico, alcuni 'writer' del programma avevano deciso di boicottare la puntata. Il monologo ha avuto peraltro un grande successo di pubblico con 3,2 milioni di spettatori su 'youtube' in meno di 24 ore, più di qualsiasi altro video di 'snl' da maggio. (Ansa). (di Alessandra Baldini)