(Ansa) - Roma, 14 nov - La fama di pianista straordinario che lo ha accompagnato già da enfant prodige e la gloria che lo accomuna ai grandi direttori d'orchestra di sempre tratteggiano il profilo di un gigante. A rendere leggendario e moderno Daniel Barenboim, giunto al traguardo degli 80 anni, è lo sguardo rivolto al futuro, contro le divisioni, per la pace, con l'occhio puntato ai giovani e ai bambini, animato dalla certezza che la musica può cambiare la vita e i rapporti tra le persone.

Proprio alla vigilia di questo suo compleanno speciale, però, il destino lo ha messo di fronte alla prova più dura. All'inizio dello scorso ottobre, Barenboim ha annunciato sui social "con un misto di fiducia e tristezza" di doversi fermare a causa di una malattia neurologica grave.

"Le mie condizioni di salute sono peggiorate nei mesi scorsi. Devo concentrarmi sul mio benessere fisico. Ho trascorso tutta la mia vita immerso nella musica, e continuerò a farlo il più a lungo possibile, fino a quando la mia salute me lo consentirà. Guardando al passato e al futuro, non sono soltanto contento, sono profondamente soddisfatto".

 

Le sue origini - nato il 15 novembre 1942 a Buenos Aires con nonni ebrei russi trasferitisi in Argentina all'inizio del secolo -, le esperienze che negli anni cinquanta lo hanno portato a Vienna, Salisburgo e Roma per stabilirsi finalmente nel 1952 con i genitori nel giovane stato di Israele, e infine il lungo capitolo berlinese lo hanno reso cittadino di più paesi, anche palestinese, senza però vincoli di appartenenza a una sola patria, tanto aperto alle sfide e a superare le divisioni da fondare nel 1999 con lo scrittore palestinese Edward Said la West Eastern Divan, orchestra che mette insieme musicisti ebrei e arabi.  

Questo suo essere cosmopolita si scontrò nel 2015 con il 'no' del ministro della cultura iraniana di vederlo protagonista di un concerto con i Berliner. "Non

abbiamo problemi con l'orchestra tedesca in Iran - disse il politico -, ma siamo contrari alla persona che la guida. Ha diverse nazionalità e una di queste è israeliana. Per ragioni di sicurezza e per prevenire problemi, l'abbiamo fermato".

 

Daniel Barenboim, grazie alla madre a soprattutto al padre che lo istruì con i capolavori della letteratura pianistica, ha regalato pagine fondamentali con le interpretazioni di Chopin e di Beethoven in particolare, per la registrazione integrale delle sonate e la direzione dei cinque concerti per pianoforte e

orchestra con Arthur Rubinstein. A 7 anni tenne il primo concerto

pubblico, a 10 debuttò a Vienna e a Roma, a 11 fu presentato a Wilhelm Furtwaengler che di lui disse "è un fenomeno". Da direttore ha calcato i palcoscenici più importanti del mondo, a partire da Londra dove debuttò nel 1967. Dal 1981 al 1999 ha diretto al festival wagneriano di Bayreuth, dal 1991 al 2006 la Chicago Symphony Orchestra, che nel 2006 lo ha nominato direttore onorario a vita, così come è avvenuto nel 2019 con i Berliner Philharmoniker per suggellare i 50 anni del  suo primo podio con loro. In Italia ha diretto, tra l' altro, a Santa Cecilia - dove nel 2012 ha celebrato i 60 anni di carriera sedendosi al pianoforte diretto da Antonio Pappano, a lungo suo assistente - e alla Scala, dove è stato direttore musicale dal 2011 al 2015 e sempre nel 2012 ha diretto la nona di Beethoven per Papa Ratzinger che al termine si è alzato in piedi per applaudirlo.

Daniel Barenboim si è sempre battuto per la pace, soprattutto in medio oriente, e non ha mai esitato a schierarsi. Nel luglio 2018 disse di vergognarsi di essere israeliano dopo l'approvazione da parte della Knesset della legge che qualificava Israele come "lo stato nazionale del popolo ebraico" trasformando gli arabi in Israele - scrisse su un quotidiano - "in cittadini di seconda classe, una forma molto chiara di aparteid".

Il grande maestro, che dal 1992 è direttore musicale della Staatsoper di Berlino, ha lanciato il suo invito alla condivisione anche in piena emergenza virus in occasione dell'ultimo concerto di capodanno a Vienna con i Wiener Philharmoniker. "Vedere così tanti musicisti che suonano insieme come un'unica comunità con lo stesso sentimento ci fa capire che il covid non è soltanto una catastrofe sanitaria ma anche umana, che ci allontana gli uni dagli altri. Tutti dovremmo prendere esempio da questa straordinaria orchestra e cercare di vivere insieme e uniti questa catastrofe".

L'orchestra West Eastern Divan per i giovani, un asilo musicale creato per i bambini a Berlino nel 2005 e una scuola nel 2021 per accompagnare i ragazzi fino alla maturità sono il segno di quanto Barenboim abbia sempre guardato alle nuove generazioni anche in risposta alla scarsa attenzione della classe politica per la cultura.

Tra i tanti aneddoti che hanno colorato la sua lunga storia musicale, uno riporta lontano, al suo esame del corso di perfezionamento all'Accademia nazionale

di Santa Cecilia. Dei dieci giurati della commissione soltanto uno votò contro. Anni dopo a Parigi il grande Arturo Benedetto Michelangeli gli confessò di essere il 'colpevole'. Non aveva voluto colpire lui ma criticare il padre che aveva scelto di fargli suonare l'ultima sonata di Beethoven. "Per quel pezzo, mi disse, c'è bisogno di una maturità che tu allora non potevi avere". (Ansa). (di Luciano Fioramonti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

'Hitler. La caduta', di Volker Ullrich (Adnkronos)

 

Nell'estate del 1939 Adolf Hitler era all'apice della gloria.

Attraverso un'aggressiva politica estera, aveva riportato la Germania allo status di grande potenza e sembrava destinato a realizzare i suoi progetti più ambiziosi. Ben pochi riuscirono a scorgere nella sua visione del mondo - improntata alla conquista dello "spazio vitale a est" e all'eliminazione degli ebrei dalla Germania e, se possibile, dall'Europa intera - i germi dei tragici sviluppi futuri. Eppure, con l'attacco all'Unione Sovietica nel giugno 1941 e l'ingresso in guerra degli Stati Uniti nello stesso anno, le sorti della Germania nazista iniziarono a cambiare.

Volker Ullrich dedica questo secondo volume della sua imponente ricerca agli anni più terribili nella storia del Terzo Reich, quelli dominati dalla smania di conquista di un dittatore che, del tutto impreparato al compito di comandante e stratega, se ne arrogò le funzioni e pianificò le operazioni con i suoi generali, fino ai minimi dettagli.

L'autore rivolge quindi particolare attenzione ai rapporti fra Hitler e l'élite della Wehrmacht, cercando di chiarire in quale misura lo stato maggiore fosse coinvolto nelle decisioni più rilevanti e quali iniziative intraprese per favorirle o, eventualmente, ostacolarle. È in quelle occasioni che i tratti chiave della personalità del Führer emergono con più evidenza.

Hitler era un giocatore d'azzardo e al tempo stesso era profondamente insicuro; bastava la minima battuta d'arresto per turbarlo ed era pronto a incolpare i suoi subordinati per i propri errori catastrofici; e quando si rese conto che la guerra era persa, si imbarcò nell'annientamento della stessa Germania come punizione del popolo tedesco che non gli aveva consegnato la vittoria.

L'opera di Ullrich offre dunque uno spaccato affascinante sulla personalità del Führer, sondando gli abissi del suo carattere, quei complessi, quelle ossessioni e quelle spinte omicide che erano all'origine dei suoi pensieri e delle sue azioni, poiché, senza un'opportuna messa a fuoco del ruolo nefasto che esercitò, né il corso della storia né la via verso l'Olocausto troverebbero una descrizione e una spiegazione adeguate.

È difficile pensare a una biografia definitiva di Hitler - l'argomento è troppo vasto, l'uomo troppo contraddittorio e le fonti ingovernabili - ma queste pagine si avvicinano quanto più possibile a tale traguardo.

 

 

 

 

 

(ansa) - Roma, 23 nov - La storia di Aracy de Carvalho - l'angelo di Amburgo - che, impiegata nel Consolato brasiliano nella città tedesca, ha salvato centinaia di Ebrei dall'Olocausto e ha trovato l'amore della vita con João Guimarães Rosa, allora vice-console e poi il più grande scrittore brasiliano del ventesimo secolo: da giovedì 24 novembre, in prima serata, su canale 5, debutta in prima visione assoluta la miniserie "Passaporto per la libertà". 

Ripercorre gli atti di coraggio e i relativi rischi corsi da questa autentica eroina moderna. Aracy de Carvalho (1908 - 2011), figlia di un brasiliano e di una tedesca, lascia San Paulo con il figlio, per trovare fortuna nella Germania degli anni '30. Aracy lavora alla sezione passaporti del Consolato brasiliano di Amburgo. Con sotto gli occhi il dramma degli Ebrei perseguitati dai nazisti, inizia ad aiutarli procurandogli i passaporti che gli avrebbero garantito una via di fuga in Brasile e, quindi, la salvezza. La giovane donna non ha l'immunità diplomatica e se fosse stata scoperta sarebbe stata condannata alla morte.

"Ha rischiato la vita per aiutare altre persone, superando le sue paure, pur di lottare per quello che credeva profondamente giusto. La sua è una figura che mi ha colpito e insegnato molto", afferma l'attrice Sophie Charlotte, che interpreta la protagonista. "È stato un viaggio faticoso: è bello che il pubblico possa finalmente conoscere questa vicenda. Un esempio concreto di come le donne, con il loro potere, abbiano saputo trasformare il mondo, senza che la storia le abbia sapute ricordare".

Passaporte para liberdade (titolo originale) è una produzione internazionale targata Estúdios Globo, Sony Pictures Television e Florest. Location delle riprese, l'Argentina e Rio de Janeiro, che sono state usate come set per riprodurre la Germania degli anni '30.

(Ansa).

 

 

(ansa) New York, Sotheby’s metterà all'asta in gennaio con una stima tra tre e cinque milioni di dollari un ritratto da poco attribuito ad Agnolo Bronzino che, secondo lo storico dell'arte italiano Carlo Falciani, potrebbe essere l'autoritratto dello stesso artista da giovane.

Opere di Bronzino appaiono solo raramente sul mercato. Sotheby's ne ha venduta una (ritratto di giovane uomo con un libro) nel 2015 per oltre nove milioni di dollari. "È' una delle scoperte più eccitanti degli ultimi anni per questo artista, ed è notevole che un quadro di questa qualità, un vero capolavoro della ritrattistica del cinquecento, sia rimasto sconosciuto finora alla comunità degli studiosi", ha detto Falciani.

La tela sarà venduta per beneficenza: tutti i proventi andranno a una 'charity' che aiuta sopravvissuti all'Olocausto e a un'altra a sostegno dei non vedenti.

Il nuovo ritratto fu confiscato all'inizio della seconda guerra mondiale a Ilse Hesselberger, una ricca vedova di Monaco di Baviera, che nel 1938, mentre i nazisti acceleravano le persecuzioni degli ebrei tedeschi, andò con la figlia Trudy a Milano a trovare parenti. Trudy, come previsto, partì poi per l'America, mentre la madre, di religione protestante ma ebrea di origine, rientrò a Monaco.

Identificata come ebrea dalle nuove leggi razziali, fu presto privata delle sue proprietà e costretta a 'donare' oltre centomila marchi per la costruzione di una struttura che fu poi usata come centro di smistamento verso i campi di sterminio.

Pagando senza sapere la vera destinazione di quei fondi, Ilse sperava di comprare la libertà. Fu invece deportata anche lei nel novembre 1941 sul primo treno per il campo di Kaunas nella  Lituania occupata dove cinque giorni dopo finì nelle camere a gas.

Il ritratto ora attribuito a Bronzino era stato nel frattempo acquisito dalla Cancelleria del Reich e destinato al 'Çhrermuseum', uno stravagante complesso che Hitler voleva costruire a Linz, in Austria, e che non fu mai realizzato.

Finita la guerra, le truppe americane trovarono il quadro, assieme ad altri capolavori, in una miniera di sale in Austria, da dove passò nelle mani del governo tedesco che solo di recente lo ha restituito agli eredi. (Ansa).

 

 

 

 

 

(ansa) - Roma, 23 nov - "Dagli archivi vaticani emerge moltissimo ma non quello che si cerca, la prova della complicità o la prova dell'assoluzione di pio XII ma emerge un materiale enorme sugli stati in guerra, sulla condizione degli ebrei, lettere drammatiche di persone che chiedono aiuto, descrizioni di situazioni terribili. E poi emerge il ruolo della santa sede, del papa, che sono una fragile navicella in un oceano europeo in tempesta".

 

Lo dice lo storico e fondatore della Comunità di Sant'Egidio, Andrea Riccardi, intervistato dall'ansa in occasione dell'uscita del suo libro, "La guerra del silenzio. Pio XII, il nazismo, gli ebrei", presentato con Anna Foa, Donatella Di Cesare e il cardinale Josè Tolentino de Mendonca.

Il ruolo pur controverso nella storia di papa Pacelli, per Riccardi "si chiarisce perché si capisce che il papa aveva dei limiti nella sua azione e scelse un tipo preciso di azione che è quello di condannare non facendo i nomi ma condannando i princìpi, allo stesso tempo scelse di aiutare e sperava per una cosa che non avvenne, mediare per la pace". 

 

Su che cosa dica la vicenda della persecuzione ebraica … Riccardi osserva: "innanzitutto l'antisemitismo nella chiesa viveva un antigiudaismo che si trova ad esempio in alcuni funzionari vaticani, l'indifferenza in Italia, pensiamo anche a quello che ci dice Liliana Segre sull'indifferenza, ma la lezione della guerra è una lezione incredibile anche per la chiesa cioè la chiesa deve parlare di pace avendo i popoli contro, cioè avendo gli stessi cattolici tedeschi, francesi immersi in una prospettiva nazionale. Questo è il grande problema. Si può tracciare una linea tra Pio XII e Francesco? Io non lo so se si può tracciare, certo c'è una continuità nella santa sede del novecento, quella di considerare la guerra un orrore, una cosa che lascia l'umanità peggiore".

Ma secondo lei in Pio XII era più forte l'avversione al nazismo o al comunismo?

"L'opposizione al comunismo era forte ed era giustificata soprattutto dopo la distruzione delle chiese nell'Europa dell'est, ma l'avversione al nazismo non era da meno. Mi spiego meglio, lui sapeva che il nazismo poteva distruggere la chiesa cattolica e sperava di poter trattare con una parte del nazismo e questa è una ingenuità". (Ansa).

 

 

(Arc) cultura: Memoria, ghetti e campi sterminio guardando all'oggi. Apertura a Trieste della conferenza internazionale "La vita dietro alle barricate"

 

Trieste, 23 nov - "Perché dobbiamo scavare nel dolore? Perché ci serve la memoria per non dimenticare che cosa accadde nei ghetti e nei campi di sterminio della seconda guerra mondiale".

 

È la riflessione che l'assessore regionale alla cultura Tiziana Gibelli ha portato alla conferenza internazionale "La vita dietro alle barricate" apertasi oggi nella sede di Androna Campo Marzio dell'Ateneo triestino e promossa dal Festival viktor Ullmann e dal Dipartimento di Studi umanistici dell'Università in collaborazione con il Museo della Comunità Ebraica "Carlo e Vera Wagner".

 

Per tre giorni Trieste ospita studiosi di alto livello provenienti da tutto il mondo come Dieter Pohl dall'Università di Klagenfurt, Vincent Slatt dello United State Holocaust Memorial Museum di Washington, Anna Hajkova dell'Università di warwick (Regno Unito) e Stephen Naron dell'Università di Yale (USA).

L'obiettivo del convegno è quello di fare il punto della situazione sui più recenti dibattiti storiografici in merito agli holocaust studies, mettendo il focus sul respiro interdisciplinare che essi hanno assunto nell'ultimo decennio e di cui il convegno vuole farsi piattaforma per fornire uno spazio comune di dialogo tra le varie voci che animano questa discussione.

 

 

Riferendosi alla figura di Viktor Ullmann "è giusto conoscere e rendere omaggio a un grande musicista - ha aggiunto Gibelli – che nei tempi più bui della storia fece intravedere attraverso l'arte che valeva la pena resistere e continuare a difendere i valori della nostra libertà".

 

Due passaggi più personali da parte dell'assessore: in uno ha ricordato la vicinanza della propria famiglia alla Comunità Ebraica di Milano. "I miei genitori aiutarono carissimi amici Ebrei a fuggire dalla persecuzione per rifugiarsi in Argentina", ha confidato Gibelli, che ha voluto anche dedicare un cenno ad Arduino Agnelli, studioso e senatore della Repubblica cui è dedicata la sala dove si è aperto il Convegno internazionale. "È stata una figura importante del novecento per questa città. Agnelli credeva nella giustizia vera …".