Tratto da +972 Magazine.
Traduzione: La Zona Grigia. La Bottega del Barbieri, 26 agosto 2025.
Ron Dudai è professore associato presso il Dipartimento di Sociologia e Antropologia dell’Università Ben-Gurion del Negev.
Israele e il negazionismo sul genocidio palestinese
Mentre gli abitanti di Gaza documentano in tempo reale uccisioni di massa e carestie, la risposta di gran parte della società israeliana è: “È tutto falso, e se lo meritano”.
di Ron Dudai
Dieci anni fa, negli ultimi giorni delle proteste settimanali congiunte palestinesi-ebraiche contro la costruzione del Muro di Separazione da parte di Israele nel villaggio di Al-Ma’asara, in Cisgiordania, uno dei nostri rituali pre-manifestazione era un discorso di Mahmoud, un rappresentante della comunità locale. Telefono in mano, dichiarava: “Non avremo un’altra Nakba, perché ora abbiamo questo. Abbiamo uno smartphone. Abbiamo Facebook. Cercheranno di scacciarci di nuovo, ma tutti lo vedranno e lo fermeranno. Nel ’48 non avevamo smartphone, né Facebook. Ora non accadrà più”.
Ripeteva questo mantra ogni venerdì: agli attivisti accanto a lui, ai soldati di fronte a noi e a se stesso. All’epoca, sembrava rassicurante. Ma si sbagliava.
La campagna genocida in corso da parte di Israele a Gaza potrebbe essere l’atrocità più accuratamente documentata della storia recente, misurata sia dall’enorme quantità di prove che dalla velocità della loro circolazione. Smartphone e social media, che erano ancora lontani anni luce durante i Genocidi in Bosnia e Ruanda, consentono di catturare gli eventi istantaneamente, da innumerevoli angolazioni, e di condividerli a livello globale in tempo reale, con i media tradizionali che svolgono ancora un ruolo di supporto non trascurabile.
Eppure, di fronte a un flusso incessante di foto e video di civili morti, bambini affamati e interi quartieri ridotti in macerie, gran parte dell’opinione pubblica israeliana, e una parte significativa dei sostenitori di Israele all’estero, reagisce in due modi: o è tutto falso, oppure gli abitanti di Gaza se lo meritavano. Spesso, paradossalmente, entrambe le cose contemporaneamente: “Non ci sono bambini morti a Gaza, ed è un bene che li abbiamo uccisi”.
UNA NUOVA ERA DI NEGAZIONE
La negazione delle atrocità è un fenomeno globale, ma la società israeliana l’ha trasformata in una sorta di arte. Non è un caso che una delle più importanti opere accademiche sull’argomento, “States of Denial” (Stati di Negazione – 2001) del sociologo Stanley Cohen, sia stata ispirata dalle sue esperienze come attivista per i diritti umani in Israele durante la Prima Intifada alla fine degli anni ’80.
Basandosi su queste esperienze, Cohen descrive un repertorio di negazionismo utilizzato sia dagli Stati che dalle società: “non è successo” (non abbiamo torturato nessuno); “quello che è successo è qualcos’altro” (non si è trattato di tortura, ma di “moderata pressione fisica”); “non c’era alternativa” (la “bomba a orologeria” ha reso la tortura un male necessario).
In Israele, questa logica affonda le sue radici nel mito della “purezza delle armi” (la convinzione che Israele agisca solo per autodifesa) e nella secolare mentalità del “sparare e piangere” (l’idea che gli israeliani possano commettere violenza ma mantenere una moralità unica perché ne soffrono in seguito). Ma per quanto ripugnante possa essere questa mentalità, si basa comunque su due presupposti importanti: che atrocità come la tortura, l’uccisione di civili e gli sfollamenti forzati siano essenzialmente sbagliate e quindi richiedano giustificazione o occultamento; e che la documentazione e la divulgazione della verità hanno valore, anche se solo come ostacolo da eludere.
Nonostante tutta la sua ripugnanza, l’ipocrisia insita nel mito della “purezza delle armi” ha la sua utilità: lascia spazio, per quanto stretto, alla correzione. Una volta svelato il divario tra retorica e realtà, può provocare imbarazzo e persino generare pressioni per il cambiamento. In un mondo del genere, le immagini catturate con un telefono e condivise all’istante hanno un peso reale.
Ma questo non è il mondo in cui viviamo oggi. In Israele, l’istinto di liquidare qualsiasi documentazione proveniente da Gaza come “falsa” è stato assorbito dal discorso dominante, dai più alti livelli del potere politico fino ai commentatori anonimi sui siti di notizie. Questo riflesso è radicato in una mentalità cospirazionista importata dai circoli di destra degli Stati Uniti, molto simile alla retorica dello “Stato Occulto” del Presidente Donald Trump, diventata una delle preferite del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e dei suoi sostenitori.
Uno dei principali sostenitori di questo stile di negazione è Alex Jones, figura mediatica di estrema destra. Nel 2012, il fedele alleato di Trump affermò che la sparatoria alla scuola elementare Sandy Hook, in cui furono assassinati 20 studenti e sei adulti, fosse una messa in scena. Nonostante le prove schiaccianti, Jones insistette sul fatto che tutte le riprese del massacro, genitori in lutto, persino i corpi delle vittime, fossero false, parte di una cospirazione Democratica per minare il diritto degli americani a portare armi.
Questo tipo di linguaggio ha iniziato a insinuarsi nella società israeliana ancor prima del 7 Ottobre, prima su internet e poi nelle arene ufficiali. Con il protrarsi della guerra, è diventata una risposta diffusa, spesso istintiva: un video di genitori palestinesi che cullano il corpo di un neonato? “Attori che tengono in braccio una bambola”. Foto di civili uccisi dai soldati israeliani? “Generate dall’Intelligenza Artificiale, manipolate o scattate altrove”. E così via, all’infinito.
Questa retorica è stata spesso associata al termine “Pallywood”, una fusione di “Palestinese e Hollywood”. Importata dagli ambienti di destra statunitensi all’inizio degli anni 2000, suggerisce che le immagini della sofferenza palestinese non siano affatto reali, ma parte di un’elaborata industria cinematografica: una vasta cospirazione in cui palestinesi, organizzazioni per i diritti umani e media internazionali collaborano per inventare atrocità.
In un’epoca precedente in cui le atrocità venivano negate, le affermazioni di messa in scena erano quantomeno elaborate. Molti ricordano ancora il caso di Muhammad Al-Durrah, il dodicenne ucciso a Gaza nel settembre 2000, la cui morte divenne un simbolo della Seconda Intifada. Israeliani e i loro sostenitori si impegnarono enormemente per cercare di screditare il filmato: centinaia di ore di analisi, reportage e persino documentari, analizzando angolazioni di ripresa, dati balistici e dettagli forensi per sostenere che l’intero evento fosse stato inscenato.
Oggi, negare non richiede più tale sforzo. Le intricate teorie del complotto del passato hanno lasciato il posto a una forma più rozza di negazionismo che gli studiosi chiamano cospirazionismo: il rifiuto istintivo di qualsiasi prova che contraddica i propri interessi, considerandola inventata. La documentazione viene semplicemente liquidata con una sola parola: “Falso”.
POST-VERITÀ, POST-VERGOGNA
Prendiamo, ad esempio, le prove innegabili della carestia di massa a Gaza. La logica è dolorosamente semplice: una popolazione tenuta sotto assedio, e la cui intera autosufficienza è stata distrutta, morirà inevitabilmente di fame. Eppure in Israele, dai commentatori anonimi in rete ai più alti livelli di governo, la risposta istintiva rimane la stessa: “È tutto falso”.
Netanyahu ha parlato della “percezione di una crisi umanitaria”, presumibilmente creata da “foto messe in scena o ben manipolate” diffuse da Hamas. Il Ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha liquidato le immagini di bambini pelle e ossa come “realtà virtuale”, citando come prova la presenza di adulti “ben nutriti” accanto a loro. L’esercito ha affermato che Hamas stava riciclando immagini di bambini yemeniti o fabbricando falsi generati dall’Intelligenza Artificiale. Il giornalista di Ynet Itamar Eichner, altrimenti fortemente critico nei confronti del governo, ha ribadito lo stesso sentimento: “I palestinesi capiscono che le foto di bambini affamati sono un punto debole. Le foto sono probabilmente messe in scena e i bambini potrebbero essere affetti da altre malattie”.
Questo schema di negazione emerge anche nel dibattito accademico. Un recente rapporto del Centro per gli Studi Strategici Begin-Sadat dell’Università Bar-Ilan, intitolato: “Sfatare le accuse di Genocidio: un riesame della guerra tra Israele e Hamas (2023-2025)”, includeva una sezione intitolata “Fonti false e altre generate dall’Intelligenza Artificiale”.
Sebbene le prove documentate di atrocità siano sempre state accolte con evasioni e negazioni, la situazione oggi è completamente diversa. Nell’era della “post-verità”, una combinazione di accresciuto sospetto nei confronti della manipolazione dell’Intelligenza Artificiale, l’erosione della fiducia nei media istituzionali e il crollo dei guardiani democratici ha reso l’istinto di gridare “falso” a qualsiasi cosa sgradita molto più diffuso e potente che mai.
Nel frattempo, il riprovevole rifiuto della stragrande maggioranza dei media israeliani di mostrare ciò che sta realmente accadendo a Gaza fa sì che, quando le immagini riescono a passare, la risposta del pubblico è spesso poco più di una scrollata di spalle collettiva di disprezzo. Eppure, quasi ogni volta, quella scrollata di spalle è accompagnata da un “se lo meritavano”, mentre negazione e giustificazione si intrecciano in quello che può sembrare un paradosso, ma che in realtà riflette due facce della stessa medaglia.
Come ha recentemente dichiarato il Ministro del Patrimonio Amichai Eliyahu: “Non c’è carestia a Gaza, e quando vi mostrano foto di bambini affamati, guardate attentamente: vedrete sempre uno grasso accanto a loro, che mangia benissimo. Questa è una campagna messa in scena”. Nella stessa intervista, ha aggiunto: “Non c’è nazione che sfami i suoi nemici. Abbiamo forse perso la testa? Il giorno in cui restituiranno gli ostaggi, non ci sarà più fame. Il giorno in cui uccideranno i terroristi di Hamas, non ci sarà più fame”.
Dopo due decenni di assedio, durante i quali noi israeliani abbiamo cercato di allontanare Gaza e i suoi 2 milioni di residenti palestinesi dalla vista e dalla mente, l’attacco del 7 Ottobre ha brutalmente riportato alla luce ciò che avevamo cercato di dimenticare.
Forse è stato allora che le due risposte, “falso” e “se lo meritavano”, si sono pienamente unite. La prima è al servizio dell’immagine nazionale (“i nostri figli non commettono atrocità”) e delle esigenze dell’Hasbara (Propaganda Sionista), guadagnando tempo sulla scena internazionale. La seconda è una reazione cruda e viscerale al dolore e all’umiliazione di essere colpiti da coloro che sono stati a lungo considerati inferiori. Insieme, si fondono in una reazione che prevale su qualsiasi appello alla moralità, non richiede pause e non esige scuse.
E qui sta la seconda sfida alla convinzione che smartphone e social network possano fermare le atrocità. La lotta per i diritti umani ha a lungo dato per scontato che documentare gli abusi avrebbe “svergognato” i colpevoli, spingendoli a cambiare comportamento. Ma cosa succede quando i colpevoli non provano più vergogna e ignorano apertamente la censura morale e persino l’idea stessa di verità? In tal caso, la documentazione e la distribuzione, per quanto rapide o diffuse, perdono il loro potere.
Infatti, come dimostrano i rapporti sui diritti umani e le petizioni presentate ai tribunali internazionali negli ultimi due anni, i dirigenti militari, politici e culturali israeliani ora ammettono apertamente, e di propria iniziativa, ciò che in altre circostanze le organizzazioni per i diritti umani avrebbero faticato a dimostrare.
Dopo decenni di negazione della Nakba, arrivando persino a vietare il termine stesso, i legislatori israeliani ora dichiarano con orgoglio che Israele sta perpetrando una seconda Nakba a Gaza. Laddove un tempo i volontari di B’Tselem dovevano filmare meticolosamente le atrocità in Cisgiordania, solo per ricevere una scusa o l’altra, come quella che gli incidenti erano stati “estrapolati dal contesto”, oggi sono gli stessi soldati israeliani a registrare le violazioni dei diritti umani e a pubblicarle sui social media senza esitazione.
Ciò cui stiamo assistendo è il crollo del tradizionale ciclo di rivelazione, negazione e conferma. In una tale realtà, a cosa servono gli smartphone e i social media?
CREPE NEL MURO
Sebbene il beneficio di documentare le atrocità sia molto inferiore a quanto sperassimo in passato, è comunque significativo. Mentre scrivo, sembra che le risposte istintive del tipo “falso” e “se lo meritavano” stiano finalmente incontrando barriere solide.
Di fronte alle vaste e incessanti prove della carestia a Gaza, le grida di “falso” si stanno facendo sempre più frenetiche e disperate. La feroce accusa, ripetuta all’infinito nel discorso israeliano, secondo cui un bambino di Gaza affetto da una malattia preesistente assolverebbe in qualche modo Israele dalla responsabilità di averlo fatto morire di fame, a quanto pare non è riuscita a fermare la crescente consapevolezza in Israele della sofferenza palestinese e della sua fondamentale ingiustizia.
I colpi di scena ormai comuni nelle argomentazioni israeliane, che a Gaza ci sia effettivamente la fame, ma che la colpa sia di Hamas; che sia una conseguenza involontaria della guerra; o che il mondo sia ipocrita perché non tratta la carestia in Yemen allo stesso modo, ci riportano tutti al repertorio di negazioni descritto da Stanley Cohen. Eppure suggeriscono anche qualcos’altro: il riaffiorare esitante di imbarazzo, e forse persino di vergogna, almeno in alcuni segmenti della popolazione israeliana.
Ciò che sembra aver contribuito a questo cambiamento sono, da un lato, le reazioni della comunità internazionale alla carestia e, dall’altro, la possibilità di riconoscere la fame senza coinvolgere direttamente soldati e piloti (i nostri “figli migliori”). Eppure, anche l’enorme accumulo di foto e documentazione inconfutabile da Gaza ha giocato un ruolo. La perseveranza di individui e organizzazioni nel documentare e denunciare, da Gaza e oltre, e nel convalidare e far circolare questo materiale in Israele e nel mondo, ha avuto un impatto.
Ma i piani di Israele di occupare Gaza e di trasferire forzatamente i suoi residenti in quello che potrebbe equivalere a un campo di concentramento, prima della loro possibile espulsione definitiva dalla Striscia, minacciano di trasformare qualcosa di già disastroso in qualcosa di ancora peggiore. L’opinione pubblica israeliana si ritirerà ulteriormente nella negazione o sarà costretta finalmente a confrontarsi con la realtà?