Parigi, 24 marzo 2022 - Cabinet du garde des Sceaux

 

Fonte: FONDAZIONE ROBERT SCHUMANN

Traduzione a cura di Barbara de Munari

 

Dichiarazione Congiunta Giustizia - Comunicato stampa

Dichiarazione in occasione della riunione del gruppo dei ministri internazionali che condividono la stessa opinione sui crimini di guerra.

 

Oggi

il Ministro della Giustizia francese Eric Dupond-Moretti, nella sua qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri della Giustizia dell'Unione Europea,

il Ministro della Giustizia e della Sicurezza olandese Dilan Yeşilgöz-Zegerius come Paese ospitante la Corte Penale Internazionale a L'Aia,

il Ministro della Giustizia sloveno Marjan Dikaučič,

il Ministro della Giustizia bulgaro Nadejda Iordanova,

il Ministro della Giustizia della Repubblica di Lettonia Jānis Bordāns,

Marcin Romanowski, Sottosegretario di Stato polacco presso il Ministero della Giustizia,

Evelina Dobrovolska, Ministro della Giustizia della Lituania,

il Ministro della Giustizia del Lussemburgo, Sam Tanson,

il Ministro della Giustizia spagnolo, Pilar Llop Cuenca,

il Ministro svedese della Giustizia e dell'Interno, Morgan Johansson,

il Vice Ministro della Giustizia ceco, Richard Krpač,

il Ministro croato della Giustizia e della Pubblica Amministrazione, Ivan Malenica,

il Ministro greco della Giustizia, Kostas Tsiaras,

Marta Cartabia, Ministro italiano della Giustizia,

Maris Lauri, Ministro federale della Giustizia austriaco,

Alma Zadić, Ministro della Giustizia irlandese,

Helen McEntee, viceministro tedesco del Ministero degli Esteri federale,

Katja Keul, Ministro della Giustizia finlandese,

Anna-Maja Henriksson, Ministro della Giustizia portoghese,

il Ministro della Giustizia slovacco Maria Kolíková,

il Ministro maltese della Giustizia e del Governo Edward Zammit Lewis,

Nick Hækkerup, Ministro danese della Giustizia,

Vincent Van Quickenborne, Ministro belga della Giustizia,

Cătălin Marian Predoiu, Ministro rumeno della Giustizia,

Stephie Drakos, Ministro cipriota della Giustizia e dell'Ordine pubblico,

e Denys Maliuska, Ministro della Giustizia ucraino,

hanno partecipato di persona, virtualmente o in rappresentanza, a un incontro internazionale a sostegno delle indagini del procuratore della CPI [Corte Penale Internazionale, N.d.T.].

Sappiamo che le violazioni più gravi dei diritti umani accadono nel contesto dei conflitti armati. Le informazioni e le immagini che ci giungono sulla guerra di aggressione senza precedenti e illegale che la Russia sta conducendo contro l'Ucraina sono terribili. Per noi, la conclusione è chiara: la Russia ha la piena responsabilità di questa guerra di aggressione e della sofferenza del popolo ucraino. I diretti responsabili dei crimini di guerra e delle violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario sul suolo ucraino devono essere ritenuti responsabili delle loro azioni. Le vittime devono anche avere accesso a un ricorso e alla giustizia.

La rapidità con cui 41 Stati, tra i quali tutti gli Stati membri dell'UE, hanno riferito la situazione è un potente promemoria del fatto che non può esserci impunità per i principali crimini internazionali, come dimostra il fatto che il numero di Stati che hanno riferito la situazione continua ad aumentare. Tale denuncia non è solo simbolica, ma ha consentito di accelerare l'apertura delle indagini, che favoriranno l'accertamento dei fatti e la raccolta delle prove, che costituiscono la pietra angolare della lotta contro l'impunità. I ministri hanno riaffermato collettivamente il loro sostegno alla Corte Penale Internazionale.

Eurojust (*) è un attore chiave nel garantire il coordinamento più efficace possibile delle indagini svolte negli Stati membri dell'UE su questi presunti crimini di guerra. Tutti gli strumenti a disposizione di Eurojust (riunioni di coordinamento, squadre investigative comuni, etc.) devono essere utilizzati. La sua azione può avvantaggiare anche Paesi terzi, che hanno accordi di cooperazione con l'agenzia, nonché la Corte Penale Internazionale. Eurojust è stato quindi invitato a rafforzare ed esercitare pienamente il suo ruolo di coordinamento, in particolare mettendosi a disposizione del Procuratore della Corte Penale Internazionale, secondo necessità, nell'esercizio delle sue funzioni.

Francia, Paesi Bassi, Slovenia, Bulgaria, Lettonia, Polonia, Lituania, Lussemburgo, Spagna, Svezia, Repubblica Ceca, Croazia, Grecia, Italia, Estonia, Austria, Irlanda, Germania, Finlandia, Portogallo, Repubblica Slovacca, Malta, Danimarca, Belgio, Romania e Cipro s’impegnano a compiere ogni sforzo per prendere in considerazione il rafforzamento del loro sostegno presso la Corte Penale Internazionale, sia dal punto di vista finanziario sia da quello delle risorse umane.

Il Ministro della Giustizia ucraino, Denys Maliuska, ha dichiarato:

L'Ucraina a sua volta afferma il proprio impegno a condurre indagini efficaci su tutti i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità commessi sul suo territorio e dichiara la propria disponibilità a cooperare con la Corte Penale Internazionale al più alto livello.

L'Ucraina è convinta che gli sforzi dello Stato territoriale (Ucraina), uniti all'esercizio della giurisdizione universale da parte di altri Stati, all'azione di Eurojust e all'accelerazione delle indagini della Corte Penale Internazionale, possano avere un potente effetto sinergico. Il crimine di aggressione contro l'Ucraina non deve rimanere impunito perché contiene la somma degli altri crimini di diritto internazionale.

 

A nome della Presidenza del Consiglio dell'Unione Europea, il Ministro Dupond-Moretti ha dichiarato:

La Presidenza del Consiglio dell'Unione Europea desidera porre l’accento sul ruolo unico che Eurojust può svolgere nella raccolta di prove riguardanti presunti crimini di guerra in Ucraina. Eurojust ha una riconosciuta esperienza nel coordinamento delle indagini nazionali al fine di sostenere le azioni penali assicurando un coordinamento efficace e può lavorare a stretto contatto con le autorità giudiziarie degli Stati membri, con il procuratore ucraino e la procura della Corte Penale Internazionale al fine di garantire che i crimini di guerra siano portati di fronte alla giustizia.

Il presidente di Eurojust, Ladislav Hamran, ha dichiarato:

L'incontro di oggi conferma che la comunità internazionale, di là dalle discussioni, è ora pronta ad agire. Se siamo uniti nella nostra ambizione di rendere giustizia all’Ucraina, dobbiamo anche coordinarci, a livello sia politico sia operativo. Eurojust sostiene gli Stati membri dell'UE nelle loro indagini sui principali crimini internazionali e, proprio in questo momento, stiamo vedendo questi casi passare dalla fase di preparazione a quella di una concreta cooperazione operativa. Attraverso i nostri sforzi, continueremo a lavorare a stretto contatto con la Corte Penale Internazionale.

 

(*) EUROJUST – Agenzia dell’Unione Europea per la Cooperazione Giudiziaria Penale

 

Il giorno dell'Europa è arrivato? di Antoine CIBIRSKI, diplomatico europeo, specialista del mondo slavo e scrittore. Traduzione di Barbara de Munari. Fonte: FONDAZIONE ROBERT SCHUMANN, 21 marzo 2022, Bruxelles.

 

«Ma la spada di San Vladimir non fa paura …Tutto passerà. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. La spada sparirà, ma le stelle resteranno anche quando le ombre dei nostri corpi e delle nostre opere non saranno più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Perché dunque non vogliamo rivolgere il nostro sguardo alle stelle? Perché?».

Michail Afanas'evič Bulgakov - La Guardia Bianca - pubblicato sulla rivista Rossija nel 1924.

 

 

“ Il giorno dell’Europa è arrivato!” affermava un ministro lussemburghese nel 1991 all'inizio delle guerre jugoslave. Il contesto sembrava favorevole: una crisi inizialmente periferica, un relativo disinteresse da parte della Russia, il via libera degli Stati Uniti che spingevano anche l'Unione dell'Europa occidentale (UEO), la maggior parte delle cui attività sono state riprese dalla Politica di sicurezza e di difesa europea (PESD) , quindi dalla Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), ad intervenire. Il "perno" americano all'epoca non era ancora l'Asia, ma piuttosto la gestione della decomposizione del mondo sovietico, senza molto interesse per i Balcani occidentali. Per reazione, alcuni europei "frenavano" e temevano una sfavorevole ripartizione dei compiti: missioni di difesa collettiva "nobili" riservate alla Nato e missioni di pace, considerate "subordinate", all'Europa. Preveggenza strategica! Quattro anni dopo, conoscevamo i bombardamenti di civili, l'assedio di Sarajevo, i cessate il fuoco non rispettati, le mediazioni fallite, Srebreniça. Sperimentavamo le umiliazioni inflitte a una forza delle Nazioni Unite (UNPROFOR) con un mandato timoroso e regole di ingaggio eccessivamente restrittive. Gli inglesi e i francesi erano in questa situazione sul campo, ma non i tedeschi. La pace di Dayton, che la sola Francia chiama "Dayton-Parigi" (una concessione formale di Bill Clinton a Jacques Chirac), era in gran parte una Pax americana. In campo americano, Richard Holbrooke aveva tirato le fila e deciso tutto, mettendo in un angolo senza tante cerimonie i leader europei tra cui Carl Bildt, Jaques Blot e Pauline Neville-Jones. L'Europa – come le Nazioni Unite o l'OSCE – non ne usciva bene; solo la NATO era stata più o meno e tardivamente all'altezza del compito, con efficaci campagne di supporto aereo, poi robuste forze di interposizione e di pacificatori (IFOR di 55.000 soldati). L'Europa era umiliata, disunita e disarmata. Rimase inefficace e poco presente anche durante la guerra del Kosovo del 1998-1999, segnata dagli attacchi aerei della NATO e, ancora, dalle forze di pacificazione dell'Alleanza Atlantica (KFOR di 50.000 soldati).

L'Europa doveva dunque cercare di riprendersi, di imparare la lezione dai fallimenti jugoslavi per raggiungere, tra il 1999 e il 2008, un momento davvero fertile e innovativo, un'età dell'oro di fermenti, non solo a livello intellettuale ma anche a livello di forze, di missioni e di strutture. Questo periodo è segnato da testi innovativi, lo spirito di Saint-Malo (dichiarazione franco-britannica del dicembre 1998, il vero punto di partenza della politica europea di sicurezza e difesa PESD), che invocava mezzi militari "autonomi e credibili" dell'Unione europea culminò nel Consiglio europeo di Helsinki: nel dicembre 1999 si decise di creare una forza d'azione rapida (FRRE) di 50.000-60.000 uomini che poteva essere schierata in 60 giorni per un periodo minimo di un anno, supportata da 400 aerei da combattimento e 100 navi. A questa FRRE si sarebbero potute aggiungere “forze multinazionali a vocazione prevalentemente europea” create a metà degli anni '90: European Corps, Euromarfor, Euroforce. Durante questo periodo, l'Europa era militarmente mondiale, con 23 operazioni e missioni europee in tutto il mondo (tra cui Aceh in Indonesia). Dal 2003 aveva una prima strategia di sicurezza europea, un corpo dottrinale coerente e visionario avviato da Javier Solana, in cui le nozioni di autonomia e sovranità europee apparivano già implicite.

Ma questo slancio si esaurì quasi simultaneamente. Lo spirito ricadde, le forze europee non furono mai impiegate nei conflitti, confermando così l'adagio "use it or lose it", valido anche per i Groupements tactiques (GTUE) creati nel 2006 con un livello di ambizione però molto più ridotto e limitato a 2.500 uomini. Le illusioni perdute si ripetevano regolarmente, durante le crisi in cui l'Europa non era mai in prima linea, se non a posteriori, per fare opera umanitaria, pagare, ricostruire e, se necessario, formare. Questo è stato il caso dell'Afghanistan e dell'Iraq. Abbiamo registrato una leggera ripresa nel 2008 (invasione della Georgia e mediazione del presidente Nicolas Sarkozy sotto la presidenza francese del Consiglio dell'Unione) e nel 2014 (prima invasione dell'Ucraina, creazione del format Normandia). Ma queste manifestazioni si limitarono a un piano diplomatico, mai valido in fase di prevenzione e ancor meno a livello militare.

Quanto alla questione delle relazioni strategiche con una Russia già ribelle e minacciosa, essa rimase sotto il monopolio esclusivo del dialogo russo-americano. I regolari tentativi francesi di rianimare un approccio europeo volto al rinvigorimento degli accordi, in rovina, sul controllo degli armamenti doveva scontrarsi con le risposte dilatorie e paradossali di partner timorosi. I quali si rammaricavano del duopolio USA-Russia in materia, rifiutandosi tuttavia di dare un contributo collettivo anche all'interno della NATO. Questo è stato il caso dell'OSCE nel 2008, con un'ambiziosa riunione ministeriale a Corfù che produsse testi minimi ad Astana solo nel 2010: la sua dichiarazione ministeriale è rimasta famosa per una formulazione spesso ripresa da allora da Sergei Lavrov, che stabiliva un principio di "sicurezza indivisibile ", utile per la propaganda contro l'allargamento della NATO e tuttavia smentito dalle azioni russe degli ultimi due decenni. L'Europa è stata quindi confinata a compiti di “soft power”, a un multilateralismo più o meno efficace e a tentativi di “dare l'esempio”, con scarsi effetti di follow-up sugli altri.

Tuttavia, la crisi economica e sanitaria le ha dato, a differenza delle crisi politico-militari, regolari occasioni di realizzarsi: nel 2008, dopo la crisi finanziaria, e molto più recentemente per la gestione della pandemia di Covid-19. Come spesso accade, l'Europa avanza solo stimolata dalla gravità della crisi. Dopo alcuni ritardi nella partenza, l'Unione europea ha fornito una risposta monetaria, finanziaria e di bilancio commisurata alla crisi sanitaria. Ha adottato un concetto di “autonomia strategica aperta” volto a ridurre le dipendenze in diversi settori (difesa, spazio, digitale, salute, energia, materiali rari) senza autarchia o protezionismo. Ha mostrato solidarietà con gli Stati più fragili. Ha compiuto nuovi passi nella sua integrazione economica togliendo un importante debito comune sui mercati.

La “messa in comune dei debiti” sembrava allora meno inaccessibile della “messa in comune delle teste nucleari”.

Perché questa "messa in comune delle testate" fu tentato. Nel 1995 il primo ministro francese, Alain Juppé, progettò “non una deterrenza condivisa, ma una deterrenza concertata con i nostri principali partner europei”. Il suo discorso non suscitò reazioni ufficiali, in particolare in Germania, paese destinatario per eccellenza. Dopo la Brexit, la Francia è l'unica potenza nucleare dell'Unione europea. Ma è sicuro che questo nucleare non-detto rimarrà tale ancora per qualche anno, nonostante l'accresciuta attualità della deterrenza. Ora, ovviamente, non sarebbe il momento di rimettere in discussione inconsapevolmente la validità della garanzia nucleare degli Stati Uniti.

L'AVVIO DELL'UNIONE EUROPEA

Negli ultimi cinque anni, il ritmo si è accelerato, così come gli avvertimenti, accompagnati da campanelli d'allarme finali, “wake up calls”. Il discorso alla Sorbona di Emmanuel Macron nel 2017, che metteva in evidenza "sovranità europea e autonomia strategica", inizia a trovare campi di applicazione. La presidenza Trump, i suoi dubbi sulla NATO e le sue amicizie con la Russia instillano dubbi anche tra gli atlantisti più ardenti. Eppure, una volta eletto Joe Biden, molti di quei dubbi cadono e molti in Europa preferiscono vivere con la confortevole illusione di una garanzia americana assoluta ed eterna. Né le condizioni del ritiro americano dall'Afghanistan, né l'AUKUS [AUKUS è un patto di sicurezza trilaterale tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, annunciato il 15 settembre 2021, N.d.T.] dovevano davvero svegliare gli europei che si condannavano a scomparire dal panorama strategico, nonostante gli sforzi francesi.

In questo contesto, la guerra russa contro l'Ucraina ha almeno il “merito” di innescare un vero e proprio sussulto in Europa. Un sussulto intellettuale per cominciare. La minaccia russa è stata spesso dimenticata, relegata, sottovalutata, almeno in Europa occidentale. Il nemico è la Cina, un “rivale sistemico”. La Russia non può che essere, nel peggiore dei casi, una potenza regionale marginalmente dirompente, con un PIL inferiore al Benelux! Gli avvertimenti, molteplici per due decenni, sono stati interpretati solo singolarmente, volta per volta, senza che fosse chiaro il filo conduttore comune.

Questi Europei hanno dimenticato le condizioni in cui il padrone del Cremlino è stato insediato al potere, "sbattendo i Ceceni nel cesso" nel 1999. Non ricordavano più le sue reazioni indignate nel 2004, durante le "rivoluzioni colorate" percepite esclusivamente come complotti alimentati dall'Occidente. Non hanno ascoltato il suo discorso a Monaco nel 2007. Nel 2008 sono stati sollevati dal fatto che la presidenza francese del Consiglio dell'Unione fosse riuscita a convincere Vladimir Putin a non "andare fino a Tbilisi per impiccare Saakashvili". Hanno dimenticato che c'era già stata una prima guerra in Ucraina nel 2014 che aveva portato all'annessione della Crimea e a un conflitto congelato nel Donbass. Con, in risposta, sanzioni deboli e prive di efficacia. Non hanno capito che la Siria poteva essere un banco di prova per l'esercito russo, come la Spagna lo era stata per le forze naziste, né che le forze di Wagner in Libia, nella Repubblica Centrafricana e in Mali potevano divenire una sorta di legioni Condor. Non hanno percepito la nuova tattica russa di soffocare le libertà e riprendere il controllo, in Bielorussia, come nel Caucaso meridionale e in Asia centrale (Kazakistan a gennaio). Hanno minimizzato la marcia costante, deliberata e spietata verso l'autocrazia con i leader dell'opposizione uccisi, avvelenati o imprigionati, una Memoria calpestata con la chiusura del Memoriale. Ogni colpo di avvertimento, annotato e cancellato nei conti delle perdite, era seguito dall’assopimento e dal ritorno alle proprie attività.

Alcuni trovarono circostanze attenuanti, in vaghi impegni verbali trent'anni prima o in sentimenti di umiliazione russi che erano molto pratici e troppo facilmente condivisibili. I partiti politici populisti hanno fatto eco ovunque in Europa, con compiacimento, trasmessi da social network, gruppi di troll e media sovvenzionati da Mosca. Le apprensioni ragionate dell'Est e del Nord Europa furono spesso anche percepite come esagerate o addirittura ossessive dall'Occidente. E poi c'era la NATO e noi stessi contribuivamo alla sicurezza del suo fianco orientale inviando alcune pattuglie aeree (di “enhanced forward presence” e “tailored forward presence”). Il soprassalto intellettuale europeo non era quindi per niente evidente.

Eppure è successo. La violenza e gli errori di Putin hanno dilapidato questi guadagni di propaganda in pochi giorni, cambiato la narrativa e reso, almeno per il momento, l'Europa vincitrice nella guerra dell'informazione.

Quando gli Americani ci hanno avvertito pubblicamente all'inizio di febbraio dell'imminenza di un'invasione russa, senza dubbio abbiamo comunque preferito vedere gli assembramenti alle frontiere come una classica manovra intimidatoria, cui sarebbero seguiti semplicemente attacchi informatici e qualche presa territoriale con azioni ibride, come nel 2014. A nostra (parziale, N.d.T.) discolpa, avevamo ancora in mente le precedenti manipolazioni americane dell'intelligence che avevano preceduto, e giustificato per alcuni europei, la guerra in Iraq. Gli Europei hanno cominciato ad aprire gli occhi con sorpresa e ad ascoltare con stupore, il 21 febbraio, le invocazioni di guerra di Putin nel suo discorso televisivo, che parlava non di un impero sovietico e bolscevico, ma dell'Impero russo, più probabilmente quello di Caterina II (con l'Ucraina, il Caucaso, i paesi baltici, perfino la Finlandia) che non quello di Pietro il Grande. Alla fine gli Europei si sono svegliati il ​​24 febbraio sotto i colpi dei cannoni in Ucraina. Sono stati in grado di rispondere in modo rapido, fermo e unito. È stato adottato un regime di sanzioni senza precedenti, 500 milioni di euro sono stati sbloccati in due giorni per fornire

armi letali alle forze ucraine per difendersi dall'aggressione russa, attraverso un Fondo europeo per la pace, sono stati rilasciati fondi per i rifugiati, l’Ungheria e la Polonia si sono unite, la Germania ha cambiato il suo rapporto con la difesa, annunciando un aumento della sua spesa militare annuale a oltre il 2% del suo PIL e lo svincolo immediato di 100 miliardi di euro per modernizzare il suo esercito. La Danimarca ha annunciato l'organizzazione di un referendum sulla sua adesione alla politica di difesa comune e la Finlandia e la Svezia intendono avvicinarsi alla NATO.

 

IL GIORNO DELL'EUROPA SI AVVICINA?

Al Vertice di Versailles del 10 e 11 marzo, questi progressi sono stati ripresi e le prospettive sono state tracciate. Ora si tratta di registrarli a lungo termine. “L'Ucraina fa parte della nostra famiglia europea” (dichiarazione di Versailles) ma la famiglia europea dovrà ancora superare debolezze, insidie ​​e illusioni. I dibattiti sulle consegne di armi, come le palinodie sui MiG 29, le domande sulle no-fly zone, cioè sulle zone di sicurezza, sono solo all'inizio. La questione degli idrocarburi russi e dell'indipendenza energetica rimane per ora delicata e richiede alla Germania di fare, questa volta, scelte più giudiziose e solidali di quelle fatte abbandonando il nucleare.

A breve termine, il fattore militare prevarrà necessariamente sulle tentazioni e costruzioni diplomatiche.

La ricalibrata "bussola strategica" dell'Unione europea, che dovrebbe essere adottata dal Consiglio Europeo del 24 e 25 marzo, si confronterà infatti con l'evoluzione della situazione militare sul terreno in Ucraina e le contingenze delle alleanze. Questa "bussola strategica" dovrà confrontarsi anche con le reciproche politiche di armamento degli uni e degli altri. Così come la difesa europea non significa acquisti privilegiati di armi francesi e/o europee, il rapporto transatlantico rinvigorito dalla crisi ucraina non dovrebbe significare l'obbligo di acquistare sistemi americani, compreso l'F35. Partner come la Finlandia e la Svezia, in mancanza della NATO a breve termine, potrebbero mettere l’accento sulle clausole di solidarietà europea e sull'articolo 42, paragrafo 7 del TUE, che è letteralmente più vincolante dell'articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico.

L'atteggiamento e l'intimidazione nucleare di Putin potrebbero prendere di mira più in particolare alcuni partner europei, tra i quali gli Stati baltici (il passo di Suwałki tra la Lituania e la Polonia che porta all'exclave di Kaliningrad) e persino membri dell'Alleanza. Il regolare accenno al chimico, al biologico e al nucleare, dal 21 febbraio, nei discorsi di Putin come di Lavrov, il passaggio a una prima fase di allerta nucleare, gli attacchi alle centrali elettriche, danno una certa idea delle intimidazioni a venire. Stiamo già cercando di prevenire questa salita estrema dei toni, con responsabilità, determinazione e sangue freddo (rapporto americano di un lancio di prova di missili balistici intercontinentali; ricordo del carattere nucleare dell'Alleanza atlantica da parte del ministro degli Affari esteri francese).

 

In questo contesto, le ambizioni spesso francesi in merito alla difesa europea e all'autonomia strategica dovranno integrare le esacerbate preoccupazioni dell'Europa centrale e orientale, la situazione americana esistente e le procedure per esercitare le garanzie nucleari nel nostro continente, forse per raggiungere un migliore equilibrio tra “Europa della difesa” e un vero e proprio “pilastro europeo della NATO”, mai tentato. Esiste, agli occhi di alcuni puristi europei e francesi, un assoluto antagonismo tra la PESD e il concetto NATO dell'Iniziativa di sicurezza e di difesa europea (ESDI). Dato l'attaccamento viscerale e rafforzato dagli eventi di molti dei nostri partner della NATO, da un lato, e i significativi progressi dell’Europa nella difesa e delle prospettive americane per riequilibrare le loro priorità, dall'altro, è giunto il momento di conciliare questi due approcci dando sostanza al “pilastro europeo”. Sarebbe assurdo per gli europei potersi esprimere collettivamente nell'Alleanza, come hanno fatto per lungo tempo con successo nell'OSCE, quando questa organizzazione era viva e fertile? Sarebbe anormale che il posto degli europei si riflettesse meglio negli organi e nelle procedure dell'Alleanza, e negli alti comandi della NATO (SACEUR aggiunto a rotazione europea, ancor più che SACT)?

 

In queste condizioni, l'“autonomia strategica” sarebbe senza dubbio molto più facilmente accolta e incoraggiata da tutti i partner europei nel campo della difesa. E gli altri settori, altrettanto imperativi, dell'indipendenza energetica, industriale e tecnologica offriranno ulteriori opportunità agli Europei per raggiungere un'autentica e credibile "autonomia strategica", con tutti i mezzi e l'esperienza rinnovati dell'Unione europea.

Come estensione del Vertice di Versailles, e accompagnando una soluzione alla guerra in Ucraina, “la spada potrebbe scomparire e le stelle rimanere”; un decennio di Europa potrebbe allora prendere forma.

 

 

Il giorno dell'Europa è arrivato? di Antoine CIBIRSKI, diplomatico europeo, specialista del mondo slavo e scrittore. Traduzione di Barbara de Munari. Fonte: FONDAZIONE ROBERT SCHUMANN, 21 marzo 2022, Bruxelles.

 

«Ma la spada di San Vladimir non fa paura …Tutto passerà. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. La spada sparirà, ma le stelle resteranno anche quando le ombre dei nostri corpi e delle nostre opere non saranno più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Perché dunque non vogliamo rivolgere il nostro sguardo alle stelle? Perché?».

Michail Afanas'evič Bulgakov - La Guardia Bianca - pubblicato sulla rivista Rossija nel 1924.

 

 

“ Il giorno dell’Europa è arrivato!” affermava un ministro lussemburghese nel 1991 all'inizio delle guerre jugoslave. Il contesto sembrava favorevole: una crisi inizialmente periferica, un relativo disinteresse da parte della Russia, il via libera degli Stati Uniti che spingevano anche l'Unione dell'Europa occidentale (UEO), la maggior parte delle cui attività sono state riprese dalla Politica di sicurezza e di difesa europea (PESD) , quindi dalla Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), ad intervenire. Il "perno" americano all'epoca non era ancora l'Asia, ma piuttosto la gestione della decomposizione del mondo sovietico, senza molto interesse per i Balcani occidentali. Per reazione, alcuni europei "frenavano" e temevano una sfavorevole ripartizione dei compiti: missioni di difesa collettiva "nobili" riservate alla Nato e missioni di pace, considerate "subordinate", all'Europa. Preveggenza strategica! Quattro anni dopo, conoscevamo i bombardamenti di civili, l'assedio di Sarajevo, i cessate il fuoco non rispettati, le mediazioni fallite, Srebreniça. Sperimentavamo le umiliazioni inflitte a una forza delle Nazioni Unite (UNPROFOR) con un mandato timoroso e regole di ingaggio eccessivamente restrittive. Gli inglesi e i francesi erano in questa situazione sul campo, ma non i tedeschi. La pace di Dayton, che la sola Francia chiama "Dayton-Parigi" (una concessione formale di Bill Clinton a Jacques Chirac), era in gran parte una Pax americana. In campo americano, Richard Holbrooke aveva tirato le fila e deciso tutto, mettendo in un angolo senza tante cerimonie i leader europei tra cui Carl Bildt, Jaques Blot e Pauline Neville-Jones. L'Europa – come le Nazioni Unite o l'OSCE – non ne usciva bene; solo la NATO era stata più o meno e tardivamente all'altezza del compito, con efficaci campagne di supporto aereo, poi robuste forze di interposizione e di pacificatori (IFOR di 55.000 soldati). L'Europa era umiliata, disunita e disarmata. Rimase inefficace e poco presente anche durante la guerra del Kosovo del 1998-1999, segnata dagli attacchi aerei della NATO e, ancora, dalle forze di pacificazione dell'Alleanza Atlantica (KFOR di 50.000 soldati).

L'Europa doveva dunque cercare di riprendersi, di imparare la lezione dai fallimenti jugoslavi per raggiungere, tra il 1999 e il 2008, un momento davvero fertile e innovativo, un'età dell'oro di fermenti, non solo a livello intellettuale ma anche a livello di forze, di missioni e di strutture. Questo periodo è segnato da testi innovativi, lo spirito di Saint-Malo (dichiarazione franco-britannica del dicembre 1998, il vero punto di partenza della politica europea di sicurezza e difesa PESD), che invocava mezzi militari "autonomi e credibili" dell'Unione europea culminò nel Consiglio europeo di Helsinki: nel dicembre 1999 si decise di creare una forza d'azione rapida (FRRE) di 50.000-60.000 uomini che poteva essere schierata in 60 giorni per un periodo minimo di un anno, supportata da 400 aerei da combattimento e 100 navi. A questa FRRE si sarebbero potute aggiungere “forze multinazionali a vocazione prevalentemente europea” create a metà degli anni '90: European Corps, Euromarfor, Euroforce. Durante questo periodo, l'Europa era militarmente mondiale, con 23 operazioni e missioni europee in tutto il mondo (tra cui Aceh in Indonesia). Dal 2003 aveva una prima strategia di sicurezza europea, un corpo dottrinale coerente e visionario avviato da Javier Solana, in cui le nozioni di autonomia e sovranità europee apparivano già implicite.

Ma questo slancio si esaurì quasi simultaneamente. Lo spirito ricadde, le forze europee non furono mai impiegate nei conflitti, confermando così l'adagio "use it or lose it", valido anche per i Groupements tactiques (GTUE) creati nel 2006 con un livello di ambizione però molto più ridotto e limitato a 2.500 uomini. Le illusioni perdute si ripetevano regolarmente, durante le crisi in cui l'Europa non era mai in prima linea, se non a posteriori, per fare opera umanitaria, pagare, ricostruire e, se necessario, formare. Questo è stato il caso dell'Afghanistan e dell'Iraq. Abbiamo registrato una leggera ripresa nel 2008 (invasione della Georgia e mediazione del presidente Nicolas Sarkozy sotto la presidenza francese del Consiglio dell'Unione) e nel 2014 (prima invasione dell'Ucraina, creazione del format Normandia). Ma queste manifestazioni si limitarono a un piano diplomatico, mai valido in fase di prevenzione e ancor meno a livello militare.

Quanto alla questione delle relazioni strategiche con una Russia già ribelle e minacciosa, essa rimase sotto il monopolio esclusivo del dialogo russo-americano. I regolari tentativi francesi di rianimare un approccio europeo volto al rinvigorimento degli accordi, in rovina, sul controllo degli armamenti doveva scontrarsi con le risposte dilatorie e paradossali di partner timorosi. I quali si rammaricavano del duopolio USA-Russia in materia, rifiutandosi tuttavia di dare un contributo collettivo anche all'interno della NATO. Questo è stato il caso dell'OSCE nel 2008, con un'ambiziosa riunione ministeriale a Corfù che produsse testi minimi ad Astana solo nel 2010: la sua dichiarazione ministeriale è rimasta famosa per una formulazione spesso ripresa da allora da Sergei Lavrov, che stabiliva un principio di "sicurezza indivisibile ", utile per la propaganda contro l'allargamento della NATO e tuttavia smentito dalle azioni russe degli ultimi due decenni. L'Europa è stata quindi confinata a compiti di “soft power”, a un multilateralismo più o meno efficace e a tentativi di “dare l'esempio”, con scarsi effetti di follow-up sugli altri.

Tuttavia, la crisi economica e sanitaria le ha dato, a differenza delle crisi politico-militari, regolari occasioni di realizzarsi: nel 2008, dopo la crisi finanziaria, e molto più recentemente per la gestione della pandemia di Covid-19. Come spesso accade, l'Europa avanza solo stimolata dalla gravità della crisi. Dopo alcuni ritardi nella partenza, l'Unione europea ha fornito una risposta monetaria, finanziaria e di bilancio commisurata alla crisi sanitaria. Ha adottato un concetto di “autonomia strategica aperta” volto a ridurre le dipendenze in diversi settori (difesa, spazio, digitale, salute, energia, materiali rari) senza autarchia o protezionismo. Ha mostrato solidarietà con gli Stati più fragili. Ha compiuto nuovi passi nella sua integrazione economica togliendo un importante debito comune sui mercati.

La “messa in comune dei debiti” sembrava allora meno inaccessibile della “messa in comune delle teste nucleari”.

Perché questa "messa in comune delle testate" fu tentato. Nel 1995 il primo ministro francese, Alain Juppé, progettò “non una deterrenza condivisa, ma una deterrenza concertata con i nostri principali partner europei”. Il suo discorso non suscitò reazioni ufficiali, in particolare in Germania, paese destinatario per eccellenza. Dopo la Brexit, la Francia è l'unica potenza nucleare dell'Unione europea. Ma è sicuro che questo nucleare non-detto rimarrà tale ancora per qualche anno, nonostante l'accresciuta attualità della deterrenza. Ora, ovviamente, non sarebbe il momento di rimettere in discussione inconsapevolmente la validità della garanzia nucleare degli Stati Uniti.

L'AVVIO DELL'UNIONE EUROPEA

Negli ultimi cinque anni, il ritmo si è accelerato, così come gli avvertimenti, accompagnati da campanelli d'allarme finali, “wake up calls”. Il discorso alla Sorbona di Emmanuel Macron nel 2017, che metteva in evidenza "sovranità europea e autonomia strategica", inizia a trovare campi di applicazione. La presidenza Trump, i suoi dubbi sulla NATO e le sue amicizie con la Russia instillano dubbi anche tra gli atlantisti più ardenti. Eppure, una volta eletto Joe Biden, molti di quei dubbi cadono e molti in Europa preferiscono vivere con la confortevole illusione di una garanzia americana assoluta ed eterna. Né le condizioni del ritiro americano dall'Afghanistan, né l'AUKUS [AUKUS è un patto di sicurezza trilaterale tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, annunciato il 15 settembre 2021, N.d.T.] dovevano davvero svegliare gli europei che si condannavano a scomparire dal panorama strategico, nonostante gli sforzi francesi.

In questo contesto, la guerra russa contro l'Ucraina ha almeno il “merito” di innescare un vero e proprio sussulto in Europa. Un sussulto intellettuale per cominciare. La minaccia russa è stata spesso dimenticata, relegata, sottovalutata, almeno in Europa occidentale. Il nemico è la Cina, un “rivale sistemico”. La Russia non può che essere, nel peggiore dei casi, una potenza regionale marginalmente dirompente, con un PIL inferiore al Benelux! Gli avvertimenti, molteplici per due decenni, sono stati interpretati solo singolarmente, volta per volta, senza che fosse chiaro il filo conduttore comune.

Questi Europei hanno dimenticato le condizioni in cui il padrone del Cremlino è stato insediato al potere, "sbattendo i Ceceni nel cesso" nel 1999. Non ricordavano più le sue reazioni indignate nel 2004, durante le "rivoluzioni colorate" percepite esclusivamente come complotti alimentati dall'Occidente. Non hanno ascoltato il suo discorso a Monaco nel 2007. Nel 2008 sono stati sollevati dal fatto che la presidenza francese del Consiglio dell'Unione fosse riuscita a convincere Vladimir Putin a non "andare fino a Tbilisi per impiccare Saakashvili". Hanno dimenticato che c'era già stata una prima guerra in Ucraina nel 2014 che aveva portato all'annessione della Crimea e a un conflitto congelato nel Donbass. Con, in risposta, sanzioni deboli e prive di efficacia. Non hanno capito che la Siria poteva essere un banco di prova per l'esercito russo, come la Spagna lo era stata per le forze naziste, né che le forze di Wagner in Libia, nella Repubblica Centrafricana e in Mali potevano divenire una sorta di legioni Condor. Non hanno percepito la nuova tattica russa di soffocare le libertà e riprendere il controllo, in Bielorussia, come nel Caucaso meridionale e in Asia centrale (Kazakistan a gennaio). Hanno minimizzato la marcia costante, deliberata e spietata verso l'autocrazia con i leader dell'opposizione uccisi, avvelenati o imprigionati, una Memoria calpestata con la chiusura del Memoriale. Ogni colpo di avvertimento, annotato e cancellato nei conti delle perdite, era seguito dall’assopimento e dal ritorno alle proprie attività.

Alcuni trovarono circostanze attenuanti, in vaghi impegni verbali trent'anni prima o in sentimenti di umiliazione russi che erano molto pratici e troppo facilmente condivisibili. I partiti politici populisti hanno fatto eco ovunque in Europa, con compiacimento, trasmessi da social network, gruppi di troll e media sovvenzionati da Mosca. Le apprensioni ragionate dell'Est e del Nord Europa furono spesso anche percepite come esagerate o addirittura ossessive dall'Occidente. E poi c'era la NATO e noi stessi contribuivamo alla sicurezza del suo fianco orientale inviando alcune pattuglie aeree (di “enhanced forward presence” e “tailored forward presence”). Il soprassalto intellettuale europeo non era quindi per niente evidente.

Eppure è successo. La violenza e gli errori di Putin hanno dilapidato questi guadagni di propaganda in pochi giorni, cambiato la narrativa e reso, almeno per il momento, l'Europa vincitrice nella guerra dell'informazione.

Quando gli Americani ci hanno avvertito pubblicamente all'inizio di febbraio dell'imminenza di un'invasione russa, senza dubbio abbiamo comunque preferito vedere gli assembramenti alle frontiere come una classica manovra intimidatoria, cui sarebbero seguiti semplicemente attacchi informatici e qualche presa territoriale con azioni ibride, come nel 2014. A nostra (parziale, N.d.T.) discolpa, avevamo ancora in mente le precedenti manipolazioni americane dell'intelligence che avevano preceduto, e giustificato per alcuni europei, la guerra in Iraq. Gli Europei hanno cominciato ad aprire gli occhi con sorpresa e ad ascoltare con stupore, il 21 febbraio, le invocazioni di guerra di Putin nel suo discorso televisivo, che parlava non di un impero sovietico e bolscevico, ma dell'Impero russo, più probabilmente quello di Caterina II (con l'Ucraina, il Caucaso, i paesi baltici, perfino la Finlandia) che non quello di Pietro il Grande. Alla fine gli Europei si sono svegliati il ​​24 febbraio sotto i colpi dei cannoni in Ucraina. Sono stati in grado di rispondere in modo rapido, fermo e unito. È stato adottato un regime di sanzioni senza precedenti, 500 milioni di euro sono stati sbloccati in due giorni per fornire

armi letali alle forze ucraine per difendersi dall'aggressione russa, attraverso un Fondo europeo per la pace, sono stati rilasciati fondi per i rifugiati, l’Ungheria e la Polonia si sono unite, la Germania ha cambiato il suo rapporto con la difesa, annunciando un aumento della sua spesa militare annuale a oltre il 2% del suo PIL e lo svincolo immediato di 100 miliardi di euro per modernizzare il suo esercito. La Danimarca ha annunciato l'organizzazione di un referendum sulla sua adesione alla politica di difesa comune e la Finlandia e la Svezia intendono avvicinarsi alla NATO.

 

IL GIORNO DELL'EUROPA SI AVVICINA?

Al Vertice di Versailles del 10 e 11 marzo, questi progressi sono stati ripresi e le prospettive sono state tracciate. Ora si tratta di registrarli a lungo termine. “L'Ucraina fa parte della nostra famiglia europea” (dichiarazione di Versailles) ma la famiglia europea dovrà ancora superare debolezze, insidie ​​e illusioni. I dibattiti sulle consegne di armi, come le palinodie sui MiG 29, le domande sulle no-fly zone, cioè sulle zone di sicurezza, sono solo all'inizio. La questione degli idrocarburi russi e dell'indipendenza energetica rimane per ora delicata e richiede alla Germania di fare, questa volta, scelte più giudiziose e solidali di quelle fatte abbandonando il nucleare.

A breve termine, il fattore militare prevarrà necessariamente sulle tentazioni e costruzioni diplomatiche.

La ricalibrata "bussola strategica" dell'Unione europea, che dovrebbe essere adottata dal Consiglio Europeo del 24 e 25 marzo, si confronterà infatti con l'evoluzione della situazione militare sul terreno in Ucraina e le contingenze delle alleanze. Questa "bussola strategica" dovrà confrontarsi anche con le reciproche politiche di armamento degli uni e degli altri. Così come la difesa europea non significa acquisti privilegiati di armi francesi e/o europee, il rapporto transatlantico rinvigorito dalla crisi ucraina non dovrebbe significare l'obbligo di acquistare sistemi americani, compreso l'F35. Partner come la Finlandia e la Svezia, in mancanza della NATO a breve termine, potrebbero mettere l’accento sulle clausole di solidarietà europea e sull'articolo 42, paragrafo 7 del TUE, che è letteralmente più vincolante dell'articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico.

L'atteggiamento e l'intimidazione nucleare di Putin potrebbero prendere di mira più in particolare alcuni partner europei, tra i quali gli Stati baltici (il passo di Suwałki tra la Lituania e la Polonia che porta all'exclave di Kaliningrad) e persino membri dell'Alleanza. Il regolare accenno al chimico, al biologico e al nucleare, dal 21 febbraio, nei discorsi di Putin come di Lavrov, il passaggio a una prima fase di allerta nucleare, gli attacchi alle centrali elettriche, danno una certa idea delle intimidazioni a venire. Stiamo già cercando di prevenire questa salita estrema dei toni, con responsabilità, determinazione e sangue freddo (rapporto americano di un lancio di prova di missili balistici intercontinentali; ricordo del carattere nucleare dell'Alleanza atlantica da parte del ministro degli Affari esteri francese).

 

In questo contesto, le ambizioni spesso francesi in merito alla difesa europea e all'autonomia strategica dovranno integrare le esacerbate preoccupazioni dell'Europa centrale e orientale, la situazione americana esistente e le procedure per esercitare le garanzie nucleari nel nostro continente, forse per raggiungere un migliore equilibrio tra “Europa della difesa” e un vero e proprio “pilastro europeo della NATO”, mai tentato. Esiste, agli occhi di alcuni puristi europei e francesi, un assoluto antagonismo tra la PESD e il concetto NATO dell'Iniziativa di sicurezza e di difesa europea (ESDI). Dato l'attaccamento viscerale e rafforzato dagli eventi di molti dei nostri partner della NATO, da un lato, e i significativi progressi dell’Europa nella difesa e delle prospettive americane per riequilibrare le loro priorità, dall'altro, è giunto il momento di conciliare questi due approcci dando sostanza al “pilastro europeo”. Sarebbe assurdo per gli europei potersi esprimere collettivamente nell'Alleanza, come hanno fatto per lungo tempo con successo nell'OSCE, quando questa organizzazione era viva e fertile? Sarebbe anormale che il posto degli europei si riflettesse meglio negli organi e nelle procedure dell'Alleanza, e negli alti comandi della NATO (SACEUR aggiunto a rotazione europea, ancor più che SACT)?

 

In queste condizioni, l'“autonomia strategica” sarebbe senza dubbio molto più facilmente accolta e incoraggiata da tutti i partner europei nel campo della difesa. E gli altri settori, altrettanto imperativi, dell'indipendenza energetica, industriale e tecnologica offriranno ulteriori opportunità agli Europei per raggiungere un'autentica e credibile "autonomia strategica", con tutti i mezzi e l'esperienza rinnovati dell'Unione europea.

Come estensione del Vertice di Versailles, e accompagnando una soluzione alla guerra in Ucraina, “la spada potrebbe scomparire e le stelle rimanere”; un decennio di Europa potrebbe allora prendere forma.

 

 

Con l’accompagnamento del musicista e compositore Marco De Simone, su repertorio di musica barocca con chitarra classica, il matematico di origine ebraica Michele Mele (Università degli Studi del Sannio) racconta la storia del matematico Nicolas Saunderson, primo scienziato non vedente della storia.

"Devo ammettere di invidiare gli scienziati, essi soli conoscono il linguaggio del vero e, mentre conversano con Dio, l'universo scorre tra le loro dita" (Sir William Sterndale Bennet).

Michele Mele, matematico e ricercatore universitario, autore del libro, “L’universo tra le dita”. Storie di scienziati ipovedenti o non vedenti, per le edizioni Efesto di Roma.

Introducendo l’argomento ai ragazzi, Mele ha raccontato della sua malattia che l’ha reso gravemente ipovedente, ma che non gli ha impedito di raggiungere importanti successi: “Prima di essere ipovedente sono tante altre cose, matematico, appassionato di calcio, suono il pianoforte” ha esordito salutando gli alunni presenti in aula polivalente e quelli collegati dalle altre aule.

La vita di Michele Mele è segnata dal problema agli occhi, che si è presentato all’improvviso spegnendo in lui la vista, ma non la gioia di vivere che dopo la maturità, l’ha portato a conseguire la laurea in matematica all’Università di Salerno e il Dottorato alla Federico II di Napoli, prima di occuparsi di ricerca all’Università del Sannio.

Fiducia, contesto, e inclusione: questi i tre concetti sui quali l’autore ha posto l’attenzione degli studenti, prima di rispondere alle loro domande, con un invito a non scoraggiarsi davanti alle difficoltà. Descrivendo la sua esperienza da studente, a scuola e all’università ha poi raccontato di situazioni positive e di contesti inclusivi, ma anche di pregiudizi e di problemi.

Rispetto al suo percorso universitario e alla sua attività di ricerca, Mele collegato dalla sua abitazione, rivolgendosi ai giovani cremaschi ha detto che può essere legittimo avere il dubbio: “Come fa una persona ipovedente a fare tutto questo? Ci si può chiedere, ma se il dubbio può essere legittimo, anche se risultato del pregiudizio – ha proseguito Mele – la certezza di chi pensa che non si possa riuscire a farcela, diventa discriminatoria. Solo il supporto della famiglia ha consentito di superare gli ostacoli”.

Parlando del suo ambito di studio, la matematica e le discipline scientifiche, stimolato dalle domande degli studenti, l’autore ha descritto le difficoltà ancora oggi presenti, poiché non c’è un sistema completo per consentire la scrittura in forma matematica per i non vedenti: “Scrivo in codice che poi interpreto in forma matematica”, ha concluso.

Anche per questo, ci sono poche persone cieche o ipovedenti che sono impegnate nelle discipline scientifiche, contrariamente a quanto accade in altri ambiti: “Ci sono musicisti, artisti, avvocati, ma gli scienziati sono visti come un’eccezione – ha aggiunto Mele – ci sono dei pregiudizi che allontanano gli ipovedenti dalle discipline scientifiche”. Ed ecco perché nel suo libro ha deciso di raccontare le storie di dieci personaggi del mondo scientifico, che come lui condividono malattie legate alla perdita della vista: dal matematico di fine seicento Nicholas Saunderson, all’ingegnere John Metcalf, al medico Jacob Bolotin, fino ai giorni nostri, con i chimici Mona Minkara e Henry Wedler.

 

 

SCRIVI DI NOI di Cristiano Longoni

Recensione © Barbara de Munari

13 marzo 2022

 

Un racconto iniziatico di Amore, sull’Amore, e di formazione, nelle sue infinite forme, variabili e sfaccettature.

In spazi fatti di memoria, attenzione, sensazioni e complessità.

Eretico, dissacrante, innamorato, tenero, liquido, affaticato e sognante, brutale e raffinato.

Un libro sulla necessità dell’Incontro con l’Altro da sé come unica possibilità di spinta al cambiamento e all’evoluzione personale.
E anche perché, scrive Cristiano Longoni, “ci sono momenti in cui l’unica azione sensata è fermarsi, guardare e non negare ciò che stai vivendo:

Accomodati.
Lascia solo che sia.
Il Sé parla tutte le lingue del mondo, ma ascolta solo la tua.
E non c’è proprio bisogno di fare nulla.
L’essenziale non è costruire, è togliere 
e per togliere è solo necessario che tu sia.  Null’altro!”.

 

In un bagno, sullo specchio appannato dall’acqua calda, si formano, davanti agli occhi del protagonista – Alqun – sei nomi di donna, come se il dito di un genio provocatorio e invisibile stesse tracciando altrettante Architetture d’Amore: e così appare Viola (il corpo terreno), e Isabella (l’inconscio), e Tecla (il desiderio), e poi Rebecca (la ragione), Ilenia (l’amore collettivo), Ophelia (la volontà collettiva), e infine Susanna e/o Lidras (il Sé individuale).

Così come C.G. Jung individua le forme primarie delle esperienze vissute dall'umanità nello sviluppo della coscienza in dodici figure: l’Innocente, l’Orfano, il Guerriero, l’Angelo custode, l’Amante, il Cercatore, il Distruttore, il Creatore, il Sovrano, il Mago, il Saggio, il Folle.

 

Ma, prima di tutto, o dopo il tutto, Francesca, la Madre, sua madre, il grande mare da cui il protagonista deve emergere. Il mare in cui le sei personalità femminili confluiscono e dal quale, anch’esse, a loro volta, sono emerse.

Sono junghiano, dice Cristiano Longoni, ognuno ha le sue sfighe.

E ho sempre scritto spinto da ciò che è definito il Daimon, la “creatura divina”, presente in ognuno di noi e che spinge per portare a compimento ciò che la nostra anima si è scelta prima di nascere.

Lo sguardo che Alqun rivolge allo specchio appannato, come in un sogno, è quello che è in grado, insieme a un atto di Volontà, di permettergli di trasformarsi, di divenire altro da sé, di modificare i propri eterni equilibri statici. E alla Fine ci sarà la conferma – come in un sogno, di avere tutto compreso.

Il libro reca, in apertura, una citazione di Jung: “… Perciò chi vuol conoscere la psiche umana… sarebbe consigliabile per lui… dire addio allo scrittoio e, armato di tutta la sua limitata umanità, vagabondare per il mondo, a vedere con i propri occhi gli orrori… e sperimenterebbe sulla propria pelle l’amore e l’odio, la passione in tutte le sue forme… e sarà un vero conoscitore dell’anima…”.

Alqun sperimenta come essere se stessi sia un percorso di evoluzione, prima di tutto interiore, che non ha forma o regole ed è unico per ciascuno di noi. Essere se stessi non si realizza misurandosi sugli altri o reagendo al loro modo di porsi rispetto a noi, ma piuttosto con il conoscere, accettare e seguire la propria natura, trovando ed emettendo il proprio segnale unico, agganciando la sintonia interna con noi stessi, con ciò che vogliamo e, soprattutto, con ciò di cui abbiamo bisogno, arrivando a esprimerci nel modo in cui il nostro cuore si sente comodo e sereno, e la nostra mente quieta.

 

Scrive Cristiano Longoni: “… per tutto questo c’è un’unica soluzione: la capacità di sostare con l’altro (e con se stessi – aggiungerei io) nell’incertezza e nel caos e, con il suo tempo, immaginare le tappe verso la fine del cammino”.

 

L’esperienza di Alqun è la storia di un peregrinare d’Amore e di Desiderio, che si lega e lo lega al passato, ma anche a un progetto di un futuro coerente con se stesso, alla possibilità di collegarsi o dissociarsi dal mondo in modo sano e

all’opposizione cosciente-inconscia all’individualità-collettività, non negando ma accettando e integrando gli opposti, senza identificarsi del tutto con essi e differenziandoli dal Sé.

E così, lungo il suo cammino, Alqun incontrerà e vivrà i suoi Archetipi d’Amore, integrando in primo luogo i suoi aspetti consci e inconsci e gradualmente integrando gli opposti (persona e ombra, cosciente e inconscio) fino a raggiungere se stesso.

 

Con Viola incontra il corpo terreno e inizia a essere consapevole dell’esistenza di impulsi e desideri e contenuti psichici inespressi o non direttamente osservabili. Si rende conto che esiste una gran parte di se stesso che è stata ignorata (da lui stesso) e cercherà di avvicinarsi alla sua comprensione, perché è arrivato un momento in cui il suo sviluppo gli ha fatto vedere quel bisogno.

 

Con Isabella incontra l’inconscio, l’ombra. Nasce la consapevolezza che esiste qualcosa di più nel Sé, e che non c’è solo una parte cosciente ma anche un inconscio – con i suoi desideri e impulsi inconsci, che hanno comunque un grande valore e che non devono essere negati ma integrati, accettando l’ombra come parte integrante della nostra natura.

 

Con Tecla e Rebecca incontra il desiderio e l’animus/anima, in relazione agli archetipi sessuali che fanno comunque parte della sua personalità e della comunità in cui vive – e inizia ad integrare la polarità maschile / femminile. Questo processo comporterà l’integrazione dell’archetipo identificato dal suo sesso con la parte tradizionalmente identificata con il sesso opposto. Alqun deve integrare l’anima o archetipo femminile (che corrisponde a elementi come sensibilità, affetto ed espressione emotiva) – così come la donna lo fa con l’archetipo maschile animus (correlato a vigore e vitalità, forza, ragione e saggezza).

 

Con Ilenia e Ophelia si presentano l’amore collettivo e la volontà collettiva che iniziano a illuminare le aree oscure e sconosciute della psiche, allargando la consapevolezza e comunque restituendo anche umiltà. La saggezza acquisita dà significato alla scoperta dell’ignoto, per raggiungere il culmine con la coincidenza o integrazione degli opposti. I vari elementi che compongono la mente di Alqun si sono integrati (conscio e inconscio, individuo e collettivo, persona e ombra) e l’integrazione dei diversi aspetti della personalità darà loro funzionalità e valore, anche a quelli repressi e negati per tutta la vita.

 

Alqun può rendere il suo progetto di vita coerente con se stesso e vivere la sua vita come individuo libero – in grado di distinguersi e di separarsi dal mondo.

Ma la vera cura, in termini di “guarigione” la si ottiene solo con l’Amore. L’amore, però, non è solo una sensazione o un sentimento, ma una disposizione, e presuppone tutta la persona nella sua interezza – con tutto il cuore e con tutta l’anima e con ogni forza e ogni pensiero, perché ogni processo di trasformazione necessita del confronto, della relazione.

Essere un individuo è essere un anello in una catena, sempre; non si tratta di una situazione totalmente separata, chiusa in se stessa, priva di legami con l’esterno.

E ti rendi conto di quanto tu sia legato agli altri esseri umani, di quanto poco tu possa esistere senza avere rapporti, senza responsabilità e doveri, e senza che altre persone siano in relazione con te.

E Alqun capisce di essere un anello in una catena e non un elettrone sospeso da qualche parte nello spazio o fluttuante nel cosmo senza uno scopo. È parte di una struttura atomica, e questa struttura atomica è parte di una molecola che, con le altre, costituisce un corpo.

Scrive Jung: “Sia nella mia esperienza di medico sia nella vita, mi sono trovato di fronte al mistero dell’amore e non sono mai stato capace di spiegare cosa esso sia”.

Qui si trovano il massimo e il minimo. Il più remoto e il più vicino. Il più alto e il più basso. E non si può mai parlare di uno senza considerare anche l’altro. E non c’è nulla da aggiungere. Perché noi siamo, nel senso più profondo, le vittime o i mezzi e gli strumenti dell’amore cosmico.

L’amore non viene mai meno, sia che parli con la lingua degli angeli sia che tracci la vita della cellula con esattezza scientifica, risalendo fino al suo ultimo fondamento.

 

Infine, al termine di questo processo alchemico, se possedesse un granello di saggezza, l’uomo chiamerebbe l’ignoto con il nome più ignoto, cioè con il nome di Dio.

Sarebbe una confessione di imperfezione, di dipendenza, di sottomissione, ma, al tempo stesso, una testimonianza della sua libertà di scelta.

E Cristiano Longoni, ironico, malinconico e sognante, scrive:

 

Passa la vita davanti ai fianchi
Passa e s’irride di rossi o di bianchi
Passa e si scorda dei nostri giorni
Passa e t’attende sinché non ritorni.

E il suo amico Jung chiosa:

… “In verità, sopravvive chi ama.

Perché mai non ce ne siamo accorti?

Ho visto dunque che sopravvive chi ama

e che è proprio lui a offrire,

senza sospettarlo, ospitalità agli dei”.  (C.G.Jung, Libro Rosso).

 

 

Il paesaggio massonico negli Stati Uniti d’America

 

Discorso tenuto presso la Giurisdizione di York, La Marque

Alain de KEGHEL, 33° già TPSGC del S.C. RSAA-GODF

Parigi, 19 febbraio 2022

 

[Traduzione a cura di Barbara de Munari]

 

   Il Rito di York e de La Marque del GODF, il principale dei riti tradizionali praticati negli Stati Uniti nelle logge simboliche, ma anche un attore importante negli alti gradi, mi fa l'onore di invitarmi alla sua Giurisdizione al GODF e per il suo 20° anniversario, per esporvi oggi la mia visione del paesaggio massonico americano, tanto fantasticato. Vi ringrazio per questa attenzione fraterna e segno di fiducia amichevole nei confronti di un Fratello della nostra Obbedienza che ha avuto il privilegio abbastanza raro di praticare attività massoniche per sette anni negli Stati Uniti e di sviluppare lì reti di contatti e di scambi che durano ancora. Si tratta quindi di una restituzione di esperienze sul campo che vengo a condividere con voi in tutta modestia e senza alcuna pretesa di esaustività. Ho già scelto questo modo di condivisione quando mi sono impegnato qualche anno fa a scrivere un libro dedicato alla Massoneria in Nord America, il cui obiettivo era tentare di costruire ponti, senza negare nulla di ciò che siamo nel GODF.

   Naturalmente non fu un caso che io avessi scelto come titolo di questo libro un riferimento al famoso Défi américain di Jean-Jacques Servan-Schreiber. Né è solo perché le nostre strade si sono incrociate all'inizio degli anni '90. Si era instaurata un'amicizia con JJSS e la mia scelta costituiva un omaggio alla visione di colui che fu uno dei primi a impegnarsi in un'indagine completa, partendo dall'osservazione degli Stati Uniti, per assemblare gli elementi del complesso puzzle dell'Impero Americano,  per chiarire le incomprensioni.

   Scriveva Jean-Jacques Servan-Schreiber: “Non siamo alla presenza di un imperialismo politico classico, di un desiderio di conquista, ma, più meccanicamente, di un traboccamento di potere dovuto alla differenza di ‘pressione’ tra l’America settentrionale e il resto del mondo, Europa compresa. Questa superpotenza dell'America si fa sentire, ... il suo carattere più nuovo è l'accelerazione...".

   La nostra discussione qui è limitata all'Ordine massonico nella sua dimensione americana. Ma il mio libro mirava naturalmente a una presa di coscienza su ciò che stava arrivando e si stava preparando e di fronte al quale la Massoneria francese ed europea non dovrebbero rimanere spettatori indifferenti.

   E in effetti, la Massoneria in Nord America ha ancora un peso considerevole. È differente per molti aspetti dalle Gran Logge dell'Europa continentale, ma non meno dalle Obbedienze del Regno Unito. Questo spazio è in sostanza del tutto sconosciuto, ad eccezione di un numero limitato di Massoni francesi che lo frequentano. Alain Bauer ed io abbiamo avuto questa particolarità e questa complicità pragmatica proprio vent'anni fa, prendendo insieme strade secondarie. Quindi, oggi, ho un po' la sensazione della ricomposizione di un legame disciolto. Era un'epoca in cui, a prescindere da ogni altra considerazione, le forze vitali univano i loro sforzi con l'unica preoccupazione dell'efficacia. Anche la creazione della Giurisdizione di York faceva parte di questa dinamica innovativa.

   È con un approccio che si affranca il più possibile dai luoghi comuni che mi propongo di sorvolare qui, nel breve tempo a noi concesso, la complessità del composito edificio massonico degli Stati Uniti, che poggia su una base essenzialmente di York. Eccoci arrivati dunque al cuore del nostro tema di oggi: le Gran Logge regolano un certo numero di disposizioni che si applicano ai loro perimetri giurisdizionali e quindi alle Officine dei gradi simbolici. I gradi successivi alla Maestranza e in particolare i due grandi Supremi Consigli del Rito Scozzese Antico e Accettato fanno lo stesso. Queste due sfere distinte e complementari mostrano delle singolarità. Le parentele anglosassoni non escludono le specificità americane, a cominciare dal posto occupato dai side degrees, mentre non è così in Gran Bretagna. L'Ordine massonico americano, complesso per natura, è talvolta difficile da definire per chi si muove nel nostro ambiente gallico.

   Ovviamente, i Massoni americani rivendicano, come noi e a ragione, le tradizionali radici "andersoniane" che condividono con i loro fratelli separati del Vecchio Continente. La Massoneria francese, come quella di Londra, appare come un filo di Arianna. Non c'è dunque nulla di male nell'ammettere la composita filiazione storica che li lega a essa, sapendo astrarsi dalla dottrina, talvolta con pragmatismo, come avviene in California.

   Il declino della Massoneria americana, oggetto di fiumi d'inchiostro che rendono un po' troppo facile il nostro compiacimento, anche se corrisponde a una certa realtà, merita un'analisi realistica per misurarne la reale ampiezza, senza il pathos della decadenza, né il panegirico della rinascita. Quando si parte da più di 4 milioni di Massoni nel 1957, un effettivo oggi inferiore a 1,5 milioni non è del tutto trascurabile e riflette chiaramente una tendenza. Non di meno, non è ancora un corpo sull'orlo dell'abisso.

   Una rapida rassegna storica ci ricorda che ci vorranno più di cento anni, dopo l'arrivo del Mayflower in terra americana, prima che compaiano tracce di documentata attività massonica. Spesso molto distanti tra loro, le logge ebbero presto bisogno di una coesione obbedienziale posta sotto l'autorità di un Gran Maestro provinciale, nominato dal Gran Maestro della Gran Loggia d'Inghilterra, Henry Price. I primi documenti che ne fanno fede risalgono al 30 luglio 1733. Un anno dopo, Benjamin Franklin cura la prima versione americana delle Costitutions di Anderson, la prima opera massonica pubblicata negli Stati Uniti. Lui stesso avrebbe poi assunto le responsabilità di Gran Maestro Provinciale della Pennsylvania... prima di divenire Maestro Venerabile della celebre Loge des Neuf Sœurs a Parigi. Si tratta delle prime indicazioni di complicità massonica transatlantica che ci interessano direttamente.

   Fin dai primi mesi dopo la sua nomina, Franklin informa il Gran Maestro a Londra del desiderio dei Massoni della sua Giurisdizione di eleggere un Gran Maestro Provinciale e i suoi consiglieri, in attesa dell'insediamento di un Gran Maestro autonomo per l'America. Un approccio senza dubbio in anticipo sui suoi tempi, ma che prelude sia a un'affermazione sia a una volontà di emancipazione dei Fratelli americani che già si distaccano dall'Europa. Tuttavia fu solo nel 1778, due anni dopo la Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776 a Filadelfia, che ebbe luogo la separazione ufficiale dalla Gran Loggia d'Inghilterra.

   Infatti, l'autorità obbedienziale territoriale non è già più esercitata a Boston dalla sola Gran Loggia d'Inghilterra, che si trova quindi in una situazione di "competizione" con la Gran Loggia di Scozia.

   La prima obbedienza americana vede dunque la luce in Pennsylvania. Attraversata da correnti contrarie – i lealisti contro i sostenitori patriottici della Rivoluzione americana, erede anche delle famose liti sui riti tra Ancients e Moderns – questa  prima obbedienza americana in senso stretto vive le vicissitudini dei periodi travagliati che avrebbe attraversato la società civile. È così che, inoltre, dalla fine degli anni '80 del Settecento, viene riconosciuta la prima loggia nera, creata dal predicatore e schiavo emancipato Prince Hall, iniziato nel 1775 da una loggia irlandese.

   Durante la Guerra d'Indipendenza, i Massoni si ritrovano in una situazione di “missionari dell'Ordine”, ma ciascuno nel proprio campo, contrariamente al principio di “centro di unione” enunciato da Anderson. Questa situazione insurrezionale non costituisce in alcun modo un ostacolo a un forte insediamento della Massoneria o all'attività delle logge, che vediamo moltiplicarsi abbastanza rapidamente. È così anche nei nuovi territori durante la marcia verso il Far West, che è accompagnata, anch’essa, da una notevole espansione della presenza massonica.

 

Massoneria, “establishment” fondatore e potere

   Le grandi figure americane che hanno fatto parte della Massoneria sono tante e oggetto di un culto dei "padri fondatori". La loro eredità si fonde con il fervido patriottismo, e il culto della bandiera e del giuramento di fedeltà alla nazione, come, ma forse un po' di più, la società civile.

   George Washington, ovviamente, ha un posto preminente che nessuno gli contesta in questo pantheon di prestigiosi antenati, con La Fayette, un'altra figura emblematica, che gli è strettamente associata e, in misura minore, con Grasse-Tilly. C'è chi, invece, è veramente odiato, come Cerneau, che ebbe la tracotanza di pretendere di sfidare il RSAA sul suolo americano.

   Benjamin Franklin è anche uno dei Massoni americani particolarmente venerati e a Philadelphia, dove fu proclamata, il 4 luglio 1776, l’indipendenza degli Stati Uniti, un monumento rende omaggio ai firmatari della Costituzione americana, dei quali un terzo era costituito da Massoni. Questo mostra quanto gli inizi politici degli Stati Uniti siano stati segnati dal sigillo dell'Illuminismo e della filosofia massonica.

   Oggi dobbiamo ammettere che la memoria collettiva americana tende un po' a dimenticare il notevole ruolo svolto dal giovane generale La Fayette nella conquista dell'indipendenza. Ma La Fayette resta sempre un simbolo emblematico, un po' facile è vero, dei legami franco-americani. Il suo vascello, l'Hermione, ristrutturato a Rochefort, e il suo viaggio trionfale, che ho potuto accompagnare in America, ne sono state toccanti testimonianze nel 2015.

   Dobbiamo accettare che la matrice britannica del nostro Ordine iniziatico continui a permeare l'intera Massoneria americana e che la nostra influenza massonica soa necessariamente tanto più limitata in un paese che ha sempre uno sguardo diffidente se non condiscendente nei nostri confronti e male accetta la nostra pretesa di continuare a svolgere un ruolo alla “corte dei grandi” presso il Consiglio di Sicurezza dell'ONU e altrove.

   Se intendiamo meglio avvicinarci ai nostri Fratelli separati americani, è importante iniziare a conoscerli meglio. Bisogna tener conto del contesto socio-culturale in cui essi vivono e si evolvono fin dall'inizio della loro giovane storia. In effetti, i loro parametri e riferimenti sono, per molti aspetti, molto diversi da quelli dei loro Fratelli dell'Europa continentale e soprattutto latina. Le prime logge del Nord America portano senza dubbio il segno del contesto unico del New England e dei WASP (White Anglo-Saxon Protestant, protestanti anglosassoni bianchi).

    L’anima spiritualista cristiano-protestante è forse tanto più evidenziata da quando il famoso affaire Morgan, passò in quei luoghi nel 1826 e lasciò tracce profonde fino al punto di minacciare l'esistenza stessa delle logge americane. In un paese il cui motto è In God we trust, è cosa mal vista, anche oggi, il pretendere di affermarsi come un libero pensatore. È persino un'incongruenza inconcepibile nella mente di un massone americano, per il quale il Grande Architetto dell'Universo, nozione di riferimento intangibile, può essere solo il Dio rivelato. La laicità è, essa stessa, una nozione estranea all'universo americano e, di conseguenza, semplicemente difficile da concepire per una mente “americana” normale. Il nostro convento del 1877 è stato e continua a essere sovra-interpretato, creando una sfiducia difficile da superare.

   Un sondaggio condotto all'inizio del 2001 dal Pew Research Center è abbastanza indicativo al riguardo: il 70% degli intervistati considerava importante per loro che il Presidente degli Stati Uniti avesse profonde convinzioni religiose, anche se la Costituzione americana garantisce la separazione tra Chiesa e Stato. Inoltre, è proprio a causa del famoso Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che garantisce l'assoluta libertà di esercizio religioso, retaggio del Mayflower delle origini, che esiste una tale profusione di sette e di gruppuscoli religiosi di ogni tipo, più che in ogni altra parte del mondo. È altresì rilevante che il 45% degli intervistati nel corso del suddetto sondaggio abbia dichiarato di partecipare a una funzione religiosa almeno una volta la settimana. Tuttavia, la società americana è, per definizione, dinamica: un altro sondaggio condotto nel 2011 e che garantisce l'anonimato degli intervistati, ha rivelato che quasi un americano su quattro ha ammesso di non credere in nessun dio.

   Sebbene costi fatica ammetterlo, non sorprende che Albert Pike abbia intitolato la sua opera principale d’insegnamento massonico, Morals and Dogma, testo tuttora autorevole. Un altro dei più noti teorici della Massoneria americana, Albert G. Mackey, fu anche lui autore di opere di riferimento di simile ispirazione deista, tra le quali l’Encyclopedia of Freemasonry  e il libro Symbolism. E nel 1908, Arthur Steiner ha persino offerto un approccio ancora più audace nel suo libro Étude sur la franc-maçonnerie américaine  per gettare "più luce sulla Massoneria americana intesa come religione".

 

Dato che stiamo ragionando insieme su questo universo...

   La progressione iniziatica americana obbedisce anche a usanze notevolmente diverse da quelle prevalenti in Europa. L'ingresso dell'iniziato nella loggia – che quindi non si chiama “iniziazione” – e l'accesso alla maestranza avvengono il più delle volte nell'arco di pochi mesi, quando non si limitano a poche settimane, periodo di tempo necessario per imparare a memoria i rituali dei tre gradi simbolici che vengono trasmessi esclusivamente per tradizione orale e mai riprodotti integralmente. I Massoni americani sostengono che l'apprendimento e la lenta progressione iniziatica possono benissimo avvenire anche attraverso una pratica che si acquisisce durante la vita di loggia. E questa resta di fatto, per la maggior parte, dedicata esclusivamente agli aspetti che si riferiscono alla conoscenza della tradizione e del rito, almeno per gli assidui. Ed è qui che iniziano le tristi note. I Massoni americani stanno sempre più disertando i loro templi. E i circa 1,4 milioni di iscritti non corrispondono ad altrettanti assidui.

   Quanto agli alti gradi, che alcuni chiamano all’inglese side degrees (perché è risaputo che, dall'altra parte della Manica e nelle file della Gran Loggia di Londra, contano soprattutto, se non unicamente, i primi tre gradi), sono conferiti al RSAA, dal 4° al 32°, nell'arco di una tornata di una fine settimana e nell’ambito di una cerimonia collettiva che riunisce "promozioni", o falls, di diverse dozzine di Fratelli Maestri. Si tratta di comunicare molto rapidamente i rudimenti di questi gradi, svuotati così della maggior parte del loro contenuto. L'accesso al 33° e ultimo grado è invece molto più selettivo e strettamente riservato a un numero veramente limitato di Massoni americani.

   Per quanto riguarda la segregazione, nonostante i significativi sviluppi benefici indotti dal pastore Martin Luther King, le comunità massoniche bianche e nere non si mescolano ancora, o molto poco, in un paese in cui persistono tradizioni di comunitarismo. La Massoneria "nera" della Gran Loggia Prince Hall, ma anche quella delle logge di più recente creazione, come Hiram Abif, Gran Logia de Lengua Española o Omega, hanno sviluppato propri sistemi di alti gradi, del tutto indipendenti, ma con caratteristiche sostanzialmente identiche a quelle delle due giurisdizioni “bianche”. A volte si appoggiano più volentieri al GODF, ma sono di dimensioni limitate.

   Vale la pena dire una parola sulle Gran Logge: in perfetta simmetria con la costruzione istituzionale federale, ogni Stato, tranne quello delle Hawaii, ha avuto una Gran Loggia sovrana e indipendente dal 1813, che emana le proprie regole. In termini di riconoscimento delle obbedienze terze, i landmark posti in essere dalla Gran Loggia Unita d'Inghilterra, organismo dogmatico che definisce unilateralmente le cosiddette norme di "regolarità", ulteriormente modificate nel 1989, costituiscono comunque una base comune. Queste Gran Logge sono in numero di cinquanta, compreso il Distretto di Columbia, cioè la capitale federale, Washington. La loro autorità giurisdizionale si esercita su circa 13.000 logge "bianche", mentre trentasei Gran Logge dell'Obbedienza di Prince Hall governano le circa 5.000 officine "nere", per un totale di circa 500.000 iscritti, contro oggi meno di un milione e mezzo di Massoni "bianchi". Cifre sicuramente ancora impressionanti per un europeo, ma da meditare, avvicinandole ancora una volta agli oltre quattro milioni di iscritti del 1957, come detto in precedenza.

   In assenza di una Gran Loggia nazionale di tipo giacobino, che non avrebbe potuto essere accolta più di quanto non avrebbe potuto essere accolto un potere civile federale accentratore, anche il motto degli Stati Uniti E Pluribus unum assume il suo pieno significato paradossale comunitario in campo massonico. Le cinquanta Gran Logge, infatti, gestiscono i rapporti tra loro nell'ambito della conferenza dei Gran Maestri delle Gran Logge del Nord America (Messico, Stati Uniti e Canada), dotata di un segretariato nominato a rotazione da uno dei Gran Maestri americani.

   Fu durante questi incontri annuali che il nostro amico, il Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, Alain Bauer, venne eccezionalmente invitato a parlare nel 2003, su invito del Gran Maestro e segretario allora in carica, Tom Jackson, a seguito di una riunione co-organizzata con il mio concorso a Sacramento, sotto l'egida della Gran Loggia della California e del suo valoroso Segretario Generale John Cooper III, più volte, poi, invitato qui, in Rue Cadet, a prendere la parola a sua volta. L'evento fu significativo. L'intervento del nostro Gran Maestro fu la prima incursione, senza alcuna concessione del Grande Oriente di Francia, in questo cenacolo, dove i landmark regnano sovrani. La Gran Loggia di Francia, allora in un'eterna ricerca di improbabili riconoscimenti, ne ebbe inevitabilmente una profonda amarezza. La Gran Loggia Nazionale Francese, invece, mostrò la propria totale indifferenza, sapendo immutabili le regole di esclusività di cui beneficiava, che questo evento, eccezionale ma circostanziale, non metteva in pericolo. Resta non meno vero che, anche se non sconvolgeva l'ordine del mondo massonico, questo discorso di un Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, in questo contesto molto formale dove si svolgono importanti consultazioni e sono adottati i principali orientamenti strategici e dove prevale la via del consenso, ebbe un grande significato simbolico.

   Oltre alla Massoneria simbolica e al cosiddetto ‘sistema di comitato’, il corpo massonico americano si compone dei seguenti riti:

-         Nel rito del Royal Arch, il grado noto anche come La Marque è conferito solo agli ex Venerabili di loggia e costituisce il primo di una serie di altri cinque gradi capitolari. È organizzato in un grande capitolo generale le cui origini risalgono al 1798. I capitoli locali sono amministrati sotto l'autorità di un grande capitolo in ciascuno degli Stati in cui esistono. Questo grado fu conferito per la prima volta negli Stati Uniti d'America come side degree nel 1753, nella loggia di Fredericksburg (Virginia).

-         Il Rito della Cripta, creato nel 1783 a Charleston (South Carolina), fa riferimento alla sacra volta situata sotto il Tempio di Salomone. Le sue origini sono attribuite agli istruttori itineranti dell’epoca della marcia verso il Far West.

-         Il Cavalierato Templare dei Knights Templars, di rito cristiano, nasce nel 1816. È organizzato in un Grand Campement Général per tutti gli Stati Uniti.

   In un paesaggio massonico così composito e dove il Rito di York domina quasi incontrastato nei primi tre gradi della Massoneria simbolica, il Rito Scozzese Antico e Accettato è, in sostanza, quello degli alti gradi successivi alla maestranza, anche se alcune rare logge simboliche americane lo praticano nei primi tre gradi. In sostanza, è amministrato da due Giurisdizioni scozzesi sovrane "bianche" e da due strutture "nere" simili sotto Prince Hall. La più antica delle due grandi Giurisdizioni americane, e anche la più importante per numero di effettivi, area geografica territoriale di copertura e portata e influenza internazionale, è la Giurisdizione Sud del RSAA. Come la Gran Loggia Unita d'Inghilterra per le logge simboliche, essa afferma il suo primato universale rivendicando il titolo di Mother Supreme Council of the World (Madre di tutti i Supremi Consigli del mondo). Fu creata il 31 maggio 1801 a Charleston (Carolina del Sud) da un gruppo di Fratelli per lo più fuggiti da Santo Domingo, comunemente indicati come i Gentlemen of Charleston. Furono loro a conferire al rito la sua struttura in trentatré gradi come oggi prevale ovunque nel mondo, e questo da più di duecento anni. Essa riunisce, oltre alle Officine situate negli Stati del Sud, anche quelle situate negli Stati a ovest dell'Illinois e del Wisconsin, per un totale effettivo di circa 500.000 Fratelli distribuiti tra 42 Orienti e 221 Valli in 35 Stati. La Giurisdizione Nord, che totalizza circa 350.000 Massoni, ha sede a Lexington (Massachusetts) e, dal 1813, esercita il suo magistero in 15 Stati.

   Questa panoramica sarebbe incompleta senza un riferimento alle nostre cinque logge americane. Il GODF, infatti, da molto tempo mette in campo tentativi di insediamento con esiti “disomogenei” che hanno incontrato costantemente forti resistenze locali. Ma questo non significa che sia ignorato dai Massoni anglosassoni, il cui pragmatismo è leggendario. Ne sono prova le incursioni in California cui mi riferivo, ma anche i convegni di studio e ricerca che, a seguito delle iniziative del 2007 a Edimburgo, hanno finito per portare a un dialogo disinibito e regolare dei ricercatori tra Parigi e Washington... ma sempre evitando la spinosa questione del riconoscimento. Dobbiamo ammettere che i nostri tentativi istituzionali hanno sempre incontrato venti contrari, quando non feroce acrimonia, a cominciare dalle potenti offensive contro Cerneau. In un certo senso, si tratta dell'applicazione della dottrina Monroe o comunque dell’esclusività giurisdizionale territoriale. La loggia L’Atlantide all'Oriente di New York è saldamente costituita da oltre cento anni. Le nostre più recenti logge francofone e di espatriati più recenti anche a Washington, DC, Los Angeles, San Francisco e poi la recentissima fase di start up e, a mio avviso, un po' incerta in Florida, sono ancora considerate come degli "UFO". Nel 1976 il nostro Gran Maestro e amico Serge Béhar aveva tentato di rompere il soffitto di vetro rispondendo a una richiesta di alcuni Fratelli francesi di New York e accettando la creazione di una loggia anglofona, la loggia mista "George Washington N°1", presto membro del CLIPSAS, per assicurarci di avere una voce in più. Un progetto che si è rapidamente impantanato ed è stato ripreso su iniziativa del Consiglio dell'Ordine nel 1995 dopo le Giornate del Pacifico. La George Washington Union, mista e anglofona – del cui lancio sono stato personalmente responsabile quando ero Maestro Venerabile della RL La Fayette 89 – ha impiegato del tempo per installarsi ma ora è parte integrante del panorama massonico americano. Oggi sta vivendo una dinamica insospettata, moltiplicando le sue posizioni. La GWU ovviamente non minaccia nessuno negli USA ed è ora nell'elenco delle obbedienze "irregolari" della Conferenza delle Gran Logge del Nord America. Il DH federazione americana ha conosciuto solo un'esistenza molto marginale. Vi risparmierò gli spiacevoli sviluppi che potrebbe ispirare l'avventura effimera e dolorosa del Grande Oriente degli Stati Uniti negli anni 2000, che fu solo un povero scherzo lesivo della nostra immagine.

   Concludendo, non sfuggiremo al contesto e al tentativo di metterlo in prospettiva. Gli effetti di una demografia favorevole all’avanzata inesorabile degli ispanici, che si aggiungono al "wokismo", porta gli eredi WASP a riflessi di ripiego identitario che non si riferiscono solo a Donald Trump e che hanno trovato la loro espressione estremamente inquietante anche nell'assalto al Campidoglio del gennaio 2021. Per riprendere l'analisi pertinente di un fine conoscitore, editorialista francese, "le democrazie liberali divorano i loro presidenti" e questo grande Paese maniaco-depressivo dove il ‘declino’ è "una malattia vecchia come la Repubblica americana" è oggi esposto a interrogativi e incertezze che non risparmieranno nemmeno l'Ordine massonico indebolito anche dagli effetti di un società dell'immediatezza digitale. Ma che non ha finito di far sognare.