Esposti oltre 170 oggetti eccezionali per raccontare quasi due millenni di scambi e conflitti che hanno plasmato questo crocevia dell'Eurasia.

 

Parigi, 25 nov. - (Adnkronos) - Da Alessandro Magno a Marco Polo, da Gengis Khan a Tamerlano, passando da Samarcanda a Bukhara, il Louvre illumina la storia della Via della Seta in Asia Centrale mettendo in mostra oltre 170 oggetti eccezionali per raccontare quasi due millenni di scambi e conflitti che hanno plasmato questo crocevia dell'Eurasia.

Animismo, zoroastrismo, manicheismo, buddismo, nestorianesimo, ebraismo e islamismo ma anche influenze greche, iraniane, cinesi, indiane e della steppa russa: tutto ciò racconta la grande esposizione dal titolo "Splendori delle oasi dell'Uzbekistan" che il museo di Parigi ospita fino al 6 marzo 2023.

 

Tra le 170 opere selezionate da Yannick Lintz, ex direttore del Dipartimento di Arti islamiche del Louvre e recentemente nominato responsabile del Musée Guimet des Arts asiatiques, la più antica è una scultura in serpentino scoperta nella valle di Fergana e risale al III millennio a.C. Seguono gli oggetti che evocano la Battria, un'antica regione dell'Asia centrale. Nel III secolo le vie carovaniere erano già ben sviluppate, governate tra le montagne del Pamir e il Mare d'Aral da una pletora di stati-oasi impregnati di ellenismo. I principi della dinastia Kushan che li detenevano facevano modellare in argilla le loro effigi e quelle delle loro divinità: queste vestigia policrome e talvolta monumentali, sono state estratte dagli anni '70 del secolo scorso dai siti di Dalverzine-Tépé e Kaltchayan, poi pazientemente ricostituite e restaurate da un'équipe archeologica franco-uzbeka.

 

Alla cultura Kushan, che ha lasciato tesori d'oro e palazzi affrescati, succedettero a ondate gli Unni: questi nomadi divennero rapidamente aristocratici dei principati, avendo l'occhio e la mano sugli incessanti convogli di tessuti, carta, spezie, pigmenti, presto anche porcellana e polvere. La gente viveva sotto l'egida del Dio della Seta, una figura visibile in un pannello votivo del VII secolo; poco distante è esposta una forchetta e un cucchiaio pieghevoli, portati alla luce da Rocco Pante, archeologo e curatore scientifico del Louvre.

 

(Ansa) - New York, 14 nov - 'Saturday Night Live' nella bufera per aver affidato a Dave Chappelle la conduzione dell'ultima puntata. Il controverso comico afro-americano ha aperto lo show satirico della nbc con una serie di battute giudicate dalle organizzazioni ebraiche americane un pericoloso volano per l'antisemitismo.

Già al centro di polemiche per frasi razziste e anti-trans nel suo ultimo special su netflix, Chappelle aveva esordito il monologo iniziale dello show leggendo un breve proclama: "denuncio l'antisemitismo in tutte le sue forme e difendo i miei amici nella comunità ebraica". Poi, alzando lo sguardo dal foglio: "questo Kanye, è il modo con cui guadagni tempo", aveva aggiunto rivolgendosi a  Kanye 'ye' West, il rapper e stilista di 'streetwear' la cui carriera nella musica e nella moda è stata travolta da  una serie di recenti esternazioni antisemite.

"Ho imparato in 35 anni di carriera che ci sono due parole in inglese che non devi mai pronunciare una accanto all'altra. Sono l'articolo 'the' e la parola 'ebrei'. Non te ne viene niente di buono", aveva detto poi Chappelle, osservando che "l'illusione che gli ebrei dominano lo show business" non è "una cosa pazza da pensare", ma "è una pazzia da non dire a voce alta". Quanto a Kanye, "ha rotto le regole. Se sono neri è una gang, se sono italiani è una cosca mafiosa. Se sono ebrei è una coincidenza e non bisogna mai parlarne".

Frasi che il ceo di Anti-Defamation League Jonathan Greenblatt ha subito criticato, accusando 'snl' (e la nbc che manda in onda il programma satirico del sabato notte) di aver fatto da cassa di risonanza all'antisemitismo: "non dovremmo aspettarci che Chappelle sia una bussola di moralità, ma ci disturba vedere 'snl' non solo normalizzare ma addirittura popolarizzare l'antisemitismo. Perché le sensibilità degli Ebrei devono essere negate o sminuite praticamente ad ogni passo? Perché il nostro trauma scatena applausi?".

Polemico anche il critico di 'Time out New York' Adam Feldman, secondo cui "il monologo di Chapelle ha fatto di più per normalizzare l'antisemitismo di tutto quel che ha detto Kanye West. Tutti sanno che Kanye è un matto, mentre Chappelle si presenta come uno che dice verità difficili, ed è peggio".

La scelta di Chappelle come 'host' di snl aveva provocato polemiche alla vigilia: secondo il 'New York Post', smentito peraltro da collaboratori del comico, alcuni 'writer' del programma avevano deciso di boicottare la puntata. Il monologo ha avuto peraltro un grande successo di pubblico con 3,2 milioni di spettatori su 'youtube' in meno di 24 ore, più di qualsiasi altro video di 'snl' da maggio. (Ansa). (di Alessandra Baldini)

 

 

 

 

 

(Ansa) - Roma, 14 nov - La fama di pianista straordinario che lo ha accompagnato già da enfant prodige e la gloria che lo accomuna ai grandi direttori d'orchestra di sempre tratteggiano il profilo di un gigante. A rendere leggendario e moderno Daniel Barenboim, giunto al traguardo degli 80 anni, è lo sguardo rivolto al futuro, contro le divisioni, per la pace, con l'occhio puntato ai giovani e ai bambini, animato dalla certezza che la musica può cambiare la vita e i rapporti tra le persone.

Proprio alla vigilia di questo suo compleanno speciale, però, il destino lo ha messo di fronte alla prova più dura. All'inizio dello scorso ottobre, Barenboim ha annunciato sui social "con un misto di fiducia e tristezza" di doversi fermare a causa di una malattia neurologica grave.

"Le mie condizioni di salute sono peggiorate nei mesi scorsi. Devo concentrarmi sul mio benessere fisico. Ho trascorso tutta la mia vita immerso nella musica, e continuerò a farlo il più a lungo possibile, fino a quando la mia salute me lo consentirà. Guardando al passato e al futuro, non sono soltanto contento, sono profondamente soddisfatto".

 

Le sue origini - nato il 15 novembre 1942 a Buenos Aires con nonni ebrei russi trasferitisi in Argentina all'inizio del secolo -, le esperienze che negli anni cinquanta lo hanno portato a Vienna, Salisburgo e Roma per stabilirsi finalmente nel 1952 con i genitori nel giovane stato di Israele, e infine il lungo capitolo berlinese lo hanno reso cittadino di più paesi, anche palestinese, senza però vincoli di appartenenza a una sola patria, tanto aperto alle sfide e a superare le divisioni da fondare nel 1999 con lo scrittore palestinese Edward Said la West Eastern Divan, orchestra che mette insieme musicisti ebrei e arabi.  

Questo suo essere cosmopolita si scontrò nel 2015 con il 'no' del ministro della cultura iraniana di vederlo protagonista di un concerto con i Berliner. "Non

abbiamo problemi con l'orchestra tedesca in Iran - disse il politico -, ma siamo contrari alla persona che la guida. Ha diverse nazionalità e una di queste è israeliana. Per ragioni di sicurezza e per prevenire problemi, l'abbiamo fermato".

 

Daniel Barenboim, grazie alla madre a soprattutto al padre che lo istruì con i capolavori della letteratura pianistica, ha regalato pagine fondamentali con le interpretazioni di Chopin e di Beethoven in particolare, per la registrazione integrale delle sonate e la direzione dei cinque concerti per pianoforte e

orchestra con Arthur Rubinstein. A 7 anni tenne il primo concerto

pubblico, a 10 debuttò a Vienna e a Roma, a 11 fu presentato a Wilhelm Furtwaengler che di lui disse "è un fenomeno". Da direttore ha calcato i palcoscenici più importanti del mondo, a partire da Londra dove debuttò nel 1967. Dal 1981 al 1999 ha diretto al festival wagneriano di Bayreuth, dal 1991 al 2006 la Chicago Symphony Orchestra, che nel 2006 lo ha nominato direttore onorario a vita, così come è avvenuto nel 2019 con i Berliner Philharmoniker per suggellare i 50 anni del  suo primo podio con loro. In Italia ha diretto, tra l' altro, a Santa Cecilia - dove nel 2012 ha celebrato i 60 anni di carriera sedendosi al pianoforte diretto da Antonio Pappano, a lungo suo assistente - e alla Scala, dove è stato direttore musicale dal 2011 al 2015 e sempre nel 2012 ha diretto la nona di Beethoven per Papa Ratzinger che al termine si è alzato in piedi per applaudirlo.

Daniel Barenboim si è sempre battuto per la pace, soprattutto in medio oriente, e non ha mai esitato a schierarsi. Nel luglio 2018 disse di vergognarsi di essere israeliano dopo l'approvazione da parte della Knesset della legge che qualificava Israele come "lo stato nazionale del popolo ebraico" trasformando gli arabi in Israele - scrisse su un quotidiano - "in cittadini di seconda classe, una forma molto chiara di aparteid".

Il grande maestro, che dal 1992 è direttore musicale della Staatsoper di Berlino, ha lanciato il suo invito alla condivisione anche in piena emergenza virus in occasione dell'ultimo concerto di capodanno a Vienna con i Wiener Philharmoniker. "Vedere così tanti musicisti che suonano insieme come un'unica comunità con lo stesso sentimento ci fa capire che il covid non è soltanto una catastrofe sanitaria ma anche umana, che ci allontana gli uni dagli altri. Tutti dovremmo prendere esempio da questa straordinaria orchestra e cercare di vivere insieme e uniti questa catastrofe".

L'orchestra West Eastern Divan per i giovani, un asilo musicale creato per i bambini a Berlino nel 2005 e una scuola nel 2021 per accompagnare i ragazzi fino alla maturità sono il segno di quanto Barenboim abbia sempre guardato alle nuove generazioni anche in risposta alla scarsa attenzione della classe politica per la cultura.

Tra i tanti aneddoti che hanno colorato la sua lunga storia musicale, uno riporta lontano, al suo esame del corso di perfezionamento all'Accademia nazionale

di Santa Cecilia. Dei dieci giurati della commissione soltanto uno votò contro. Anni dopo a Parigi il grande Arturo Benedetto Michelangeli gli confessò di essere il 'colpevole'. Non aveva voluto colpire lui ma criticare il padre che aveva scelto di fargli suonare l'ultima sonata di Beethoven. "Per quel pezzo, mi disse, c'è bisogno di una maturità che tu allora non potevi avere". (Ansa). (di Luciano Fioramonti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(ansa) - Roma, 23 nov - La storia di Aracy de Carvalho - l'angelo di Amburgo - che, impiegata nel Consolato brasiliano nella città tedesca, ha salvato centinaia di Ebrei dall'Olocausto e ha trovato l'amore della vita con João Guimarães Rosa, allora vice-console e poi il più grande scrittore brasiliano del ventesimo secolo: da giovedì 24 novembre, in prima serata, su canale 5, debutta in prima visione assoluta la miniserie "Passaporto per la libertà". 

Ripercorre gli atti di coraggio e i relativi rischi corsi da questa autentica eroina moderna. Aracy de Carvalho (1908 - 2011), figlia di un brasiliano e di una tedesca, lascia San Paulo con il figlio, per trovare fortuna nella Germania degli anni '30. Aracy lavora alla sezione passaporti del Consolato brasiliano di Amburgo. Con sotto gli occhi il dramma degli Ebrei perseguitati dai nazisti, inizia ad aiutarli procurandogli i passaporti che gli avrebbero garantito una via di fuga in Brasile e, quindi, la salvezza. La giovane donna non ha l'immunità diplomatica e se fosse stata scoperta sarebbe stata condannata alla morte.

"Ha rischiato la vita per aiutare altre persone, superando le sue paure, pur di lottare per quello che credeva profondamente giusto. La sua è una figura che mi ha colpito e insegnato molto", afferma l'attrice Sophie Charlotte, che interpreta la protagonista. "È stato un viaggio faticoso: è bello che il pubblico possa finalmente conoscere questa vicenda. Un esempio concreto di come le donne, con il loro potere, abbiano saputo trasformare il mondo, senza che la storia le abbia sapute ricordare".

Passaporte para liberdade (titolo originale) è una produzione internazionale targata Estúdios Globo, Sony Pictures Television e Florest. Location delle riprese, l'Argentina e Rio de Janeiro, che sono state usate come set per riprodurre la Germania degli anni '30.

(Ansa).

 

 

'Hitler. La caduta', di Volker Ullrich (Adnkronos)

 

Nell'estate del 1939 Adolf Hitler era all'apice della gloria.

Attraverso un'aggressiva politica estera, aveva riportato la Germania allo status di grande potenza e sembrava destinato a realizzare i suoi progetti più ambiziosi. Ben pochi riuscirono a scorgere nella sua visione del mondo - improntata alla conquista dello "spazio vitale a est" e all'eliminazione degli ebrei dalla Germania e, se possibile, dall'Europa intera - i germi dei tragici sviluppi futuri. Eppure, con l'attacco all'Unione Sovietica nel giugno 1941 e l'ingresso in guerra degli Stati Uniti nello stesso anno, le sorti della Germania nazista iniziarono a cambiare.

Volker Ullrich dedica questo secondo volume della sua imponente ricerca agli anni più terribili nella storia del Terzo Reich, quelli dominati dalla smania di conquista di un dittatore che, del tutto impreparato al compito di comandante e stratega, se ne arrogò le funzioni e pianificò le operazioni con i suoi generali, fino ai minimi dettagli.

L'autore rivolge quindi particolare attenzione ai rapporti fra Hitler e l'élite della Wehrmacht, cercando di chiarire in quale misura lo stato maggiore fosse coinvolto nelle decisioni più rilevanti e quali iniziative intraprese per favorirle o, eventualmente, ostacolarle. È in quelle occasioni che i tratti chiave della personalità del Führer emergono con più evidenza.

Hitler era un giocatore d'azzardo e al tempo stesso era profondamente insicuro; bastava la minima battuta d'arresto per turbarlo ed era pronto a incolpare i suoi subordinati per i propri errori catastrofici; e quando si rese conto che la guerra era persa, si imbarcò nell'annientamento della stessa Germania come punizione del popolo tedesco che non gli aveva consegnato la vittoria.

L'opera di Ullrich offre dunque uno spaccato affascinante sulla personalità del Führer, sondando gli abissi del suo carattere, quei complessi, quelle ossessioni e quelle spinte omicide che erano all'origine dei suoi pensieri e delle sue azioni, poiché, senza un'opportuna messa a fuoco del ruolo nefasto che esercitò, né il corso della storia né la via verso l'Olocausto troverebbero una descrizione e una spiegazione adeguate.

È difficile pensare a una biografia definitiva di Hitler - l'argomento è troppo vasto, l'uomo troppo contraddittorio e le fonti ingovernabili - ma queste pagine si avvicinano quanto più possibile a tale traguardo.

 

 

 

 

 

(ansa) - Roma, 23 nov - "Dagli archivi vaticani emerge moltissimo ma non quello che si cerca, la prova della complicità o la prova dell'assoluzione di pio XII ma emerge un materiale enorme sugli stati in guerra, sulla condizione degli ebrei, lettere drammatiche di persone che chiedono aiuto, descrizioni di situazioni terribili. E poi emerge il ruolo della santa sede, del papa, che sono una fragile navicella in un oceano europeo in tempesta".

 

Lo dice lo storico e fondatore della Comunità di Sant'Egidio, Andrea Riccardi, intervistato dall'ansa in occasione dell'uscita del suo libro, "La guerra del silenzio. Pio XII, il nazismo, gli ebrei", presentato con Anna Foa, Donatella Di Cesare e il cardinale Josè Tolentino de Mendonca.

Il ruolo pur controverso nella storia di papa Pacelli, per Riccardi "si chiarisce perché si capisce che il papa aveva dei limiti nella sua azione e scelse un tipo preciso di azione che è quello di condannare non facendo i nomi ma condannando i princìpi, allo stesso tempo scelse di aiutare e sperava per una cosa che non avvenne, mediare per la pace". 

 

Su che cosa dica la vicenda della persecuzione ebraica … Riccardi osserva: "innanzitutto l'antisemitismo nella chiesa viveva un antigiudaismo che si trova ad esempio in alcuni funzionari vaticani, l'indifferenza in Italia, pensiamo anche a quello che ci dice Liliana Segre sull'indifferenza, ma la lezione della guerra è una lezione incredibile anche per la chiesa cioè la chiesa deve parlare di pace avendo i popoli contro, cioè avendo gli stessi cattolici tedeschi, francesi immersi in una prospettiva nazionale. Questo è il grande problema. Si può tracciare una linea tra Pio XII e Francesco? Io non lo so se si può tracciare, certo c'è una continuità nella santa sede del novecento, quella di considerare la guerra un orrore, una cosa che lascia l'umanità peggiore".

Ma secondo lei in Pio XII era più forte l'avversione al nazismo o al comunismo?

"L'opposizione al comunismo era forte ed era giustificata soprattutto dopo la distruzione delle chiese nell'Europa dell'est, ma l'avversione al nazismo non era da meno. Mi spiego meglio, lui sapeva che il nazismo poteva distruggere la chiesa cattolica e sperava di poter trattare con una parte del nazismo e questa è una ingenuità". (Ansa).