RASSEGNA STAMPA, a cura di Redazione ETICA A.c.

TRA REALTÀ E NARRAZIONE

di Giulio Galetti, 1 AGOSTO 2025

 

Un giornalista coscienzioso delll’Adnkronos, ha verificato sul sito della UnOps-Un2720 una serie di numeri sepolti nei submenu di questa agenzia ONU, numeri CLAMOROSI che fanno impressione, ma prima é necessario sapere chi sia e quali siano i compiti di UnOps-Un2720.

È la risposta alla risoluzione 2720 del Consiglio di Sicurezza, adottata il 22 dicembre 2023 per facilitare, coordinare, monitorare e verificare l’ingresso dei beni umanitari nella Striscia tramite Paesi non parte al conflitto, il sistema delle Nazioni Unite UnOps–Un2720 è diventato in pochi mesi l’infrastruttura amministrativa e tecnica attraverso cui dovrebbero passare gli aiuti diretti a Gaza.

A maggio e giugno, quasi 40mila pallet sono stati scaricati oltre i varchi controllati dall'IDF che oggi consentono l’accesso a Gaza. Corrispondono a circa 40mila tonnellate di aiuti alimentari, medici, energetici.

Solo 30mila sono stati raccolti, di cui solo 4.200 giunti alla destinazione prevista a Gaza.

25.700 pallet (ovvero 23.350 tonnellate), dopo essere partiti su 1753 camion, sono stati “intercettati”, questa la definizione delle Nazioni Unite “o pacificamente da persone affamate, o con la forza da soggetti armati (chissà mai chi sono i soggetti armati che girano a Gaza sopra e sotto terra).

Solo un decimo degli aiuti disponibili al confine della Striscia è arrivato senza intoppi alle persone che ne avevano bisogno secondo le agenzie che stanno lavorando sul campo (tra tutte, il Wfp, programma alimentare mondiale; ma ci sono anche Unicef, Croce Rossa/Mezzaluna Rossa, Medici Senza Frontiere, Organizzazione mondiale della Sanità e altri). Il resto dei carichi è stato bloccato e svuotato da civili disperati o sequestrati dalle milizie di Hamas che tuttora controllano buona parte del territorio e della popolazione.

Questi dati, precisi forniti dalle Nazioni Unite e che non specificano quale percentuale degli aiuti “persi” sia opera di forze militari locali, confermano in toto la versione israeliana sulle cause della crisi alimentare a Gaza.

Cibo e medicine ci sono ma sono sequestrati da Hamas che sceglie se, come e a chi distribuirli, e a quale prezzo (nonostante si tratti di aiuti gratuiti). L’obiettivo di UnOps-Un2720 non è sostituire le agenzie umanitarie né gli attori logistici esistenti, bensì fornire un punto unico di ingresso, una lingua comune e una catena di responsabilità verificabile, con etichette e codici univoci associati a ogni collo. Opera in modo neutrale e serio, ed è guidato dall’ex ministra olandese Sigrid Kaag. Che a gennaio 2025 è stata nominata anche Coordinatrice Speciale per la pace nel Medio Oriente, ed è sposata con Anis al-Qaq, ex ambasciatore palestinese e politico di Fatah. Dunque questi numeri, misconosciuti, disegnano uno scenario radicalmente diverso rispetto a quanto narrato a proposito delle responsabilità in capo a Israele sul presunto blocco degli aiuti umanitari.

Agevolo per gli scettici

 https://app.un2720.org/tracking

 

 

o comportarci in modo politicamente maturo di fronte agli attacchi che sicuramente ci saranno. Ma non c’è un altro piano». E sull’idea del

 

ADESSO DEVO DIRLO

RASSEGNA STAMPA, a cura di Redazione ETICA A.c.

Di David Grossman, 1 agosto 2025  

 

«È una parola valanga: una volta che la pronunci, non fa che crescere, come una valanga appunto».

«Per anni ho rifiutato di utilizzare questa parola: “genocidio”. Ma adesso non posso trattenermi dall’usarla, dopo quello che ho letto sui giornali, dopo le immagini che ho visto e dopo aver parlato con persone che sono state lì».

Queste le parole, in un’intervista a Repubblica, dello scrittore israeliano David Grossman.

«Genocidio: pronunciarlo in confronto a Israele basta questo per dire che sta succedendo qualcosa di molto brutto».

«Anche solo pronunciare questa parola, “genocidio”, con riferimento a Israele, al popolo ebraico: basterebbe questo, il fatto che ci sia questo accostamento, per dire che ci sta succedendo qualcosa di molto brutto – prosegue -. Voglio parlare come una persona che ha fatto tutto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele uno Stato genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo di fronte ai miei occhi.

«Genocidio: è una parola valanga: una volta che la pronunci, non fa che crescere, come una valanga appunto. E porta ancora più distruzione e più sofferenza».

«Resto disperatamente fedele all’idea dei due Stati, principalmente perché non vedo alternative – dichiara lo scrittore -. Sarà complesso e sia noi sia i palestinesi dovremo comportarci in modo politicamente maturo di fronte agli attacchi che sicuramente ci saranno. Ma non c’è un altro piano».

E sull’idea del presidente francese Macron che propone il riconoscimento dello Stato palestinese aggiunge: «Credo sia una buona idea e non capisco l’isteria che l’ha accolta qui in Israele. Magari avere a che fare con uno Stato vero, con obblighi reali, non con un’entità ambigua come l’Autorità palestinese, avrà i suoi vantaggi. È chiaro che dovranno esserci condizioni ben precise: niente armi. E la garanzia di elezioni trasparenti da cui sia bandito chiunque pensi di usare la violenza contro Israele».

 

 

Ieri il Primo Ministro palestinese all’ONU ha detto senza mezzi termini che Hamas deve rilasciare gli ostaggi, deporre le armi e andarsene da Gaza.

Oggi l'Egitto, il Qatar, l'Arabia Saudita, la Giordania, l'Unione Europea, la Turchia, il Regno Unito e altri 18 Paesi hanno firmato la Dichiarazione di New York.  «Nel contesto della fine della guerra a Gaza, Hamas deve porre fine al suo governo e consegnare le armi all’Autorità palestinese, con l’impegno e il sostegno internazionale, in linea con l’obiettivo di uno Stato palestinese sovrano e indipendente», si legge nella dichiarazione.

Meglio tardi che mai, ma il mondo sembra aver capito che la fine della guerra va chiesta in primis ad Hamas, e non può prescindere da una sua resa incondizionata.

 

RASSEGNA STAMPA a cura di REDAZIONE – ETICA A.c.

Di Mario Sechi

HAMAS VINCE LA GUERRA SPORCA DEI MEDIA

Israele sta perdendo la guerra sull’ottavo fronte - quello dell’informazione - perché ha scelto una linea perdente fin dall’inizio del conflitto, il 7 ottobre del 2023: non mostrare al mondo quello che Hamas aveva fatto agli ebrei dei kibbutz, ai ragazzi del Nova festival, alle donne, ai bambini, ai vecchi, a ogni essere vivente a cui i terroristi hanno dato la caccia fino al loro annientamento. La scelta di Israele è stata quella di preservare i corpi e le anime dei morti e delle loro famiglie dallo strazio della verità. È una scelta nobile, ma ha lasciato un vuoto gigantesco nella comprensione di questa guerra, della sua ragione esistenziale per Israele.

La strategia israeliana è stata quella di mostrare le immagini di quella orrenda verità solo agli “opinion leader”, sperando che questo potesse bastare a formare una solida consapevolezza sulla minaccia del terrorismo islamista sui 7 fronti della guerra (Gaza, Iran, Yemen, Siria, Cisgiordania, Libano e Iraq). Ho visto quelle immagini, sono l’infinito orrore, ho sempre pensato che debbano essere mostrate al mondo, tutti devono sapere che un altro Olocausto preme ai confini di Israele.

Nell’ottavo fronte della guerra, conta solo quel che vedi e se non vedi l’orrore, non lo riconosci.

Hamas predica la violenza, la insegna ai bambini, la inocula come un virus, combattere contro gli ebrei e gli infedeli è la missione, diventare uno “shahid”, un “martire” è l’aspirazione per una beata vita ultraterrena. I piccoli palestinesi vanno alla scuola dell’odio e della morte. È su questa disumanizzazione delle persone che Hamas ha costruito la sua propaganda, la sua arma nell’ottavo fronte: usare i corpi dei palestinesi per mostrificare Israele, facendo leva sul pensiero debole di un’Occidente che non sa riconoscere più il bene e il male, non ha memoria né senso della storia, è privo di intellettuali e leader politici con esperienza della guerra e dei suoi tremendi dilemmi.

La conseguenza di questa propaganda martellante, di questo racconto a reti unificate, di questa “verità” a una dimensione, è che Israele affama i palestinesi nella Striscia di Gaza e ha costruito un «universo concentrazionario» (questa è la formula per dire che è il nuovo nazismo). Non le belve di Hamas, ma Israele è il nemico da abbattere, lo Stato da isolare, gli ebrei sono le SS del nostro tempo. Siamo al rovesciamento della Storia. Nessuno ricorda come è iniziata questa guerra; si parla di «universo concentrazionario» di Israele e non dei tunnel e dei missili di Hamas che ha usato i miliardi di dollari degli aiuti per costruire il suo apparato di terrore e sterminio; dimenticati sono gli ostaggi ebrei ancora nelle mani dei tagliagole, sono un incidente di percorso della “resistenza” dei palestinesi; mentre il lancio dei missili degli islamisti su Israele è “legittima difesa” e i 7 fronti del conflitto sono scomparsi.

C’è una sola guerra, quella della “disinformatia” dove la manipolazione dei fatti è l’arma letale.

Nella guerra delle immagini, in un drammatico testacoda, il Fatto Quotidiano nei giorni scorsi ha pubblicato in prima pagina la foto di un bimbo con un titolo che evocava Primo Levi: «Se questo è un bambino». Usare le parole di un ebreo italiano deportato a Auschwitz nel 1944, cos’altro dobbiamo vedere? Giuseppe Conte, leader del pacifismo parolaio, è saltato addosso come un predatore su quell’immagine per criticare la giusta posizione di Palazzo Chigi sulla questione politica della Palestina («non è ancora il tempo dello Stato palestinese») e accusare Giorgia Meloni «di sudditanza verso il criminale di guerra Netanyahu».

L’odio acceca, la politica dell’opportunismo finisce sempre per cadere. Quel bambino non è a Gaza, Osama Al-Raqab è in Italia dall’11 giugno, è malato di fibrosi cistica e ora sta bene, è curato dai medici italiani per volontà del nostro governo e la sua storia clinica è diversa da come viene presentata dal tribunale dell’orrore mediatico. Non importa più cosa sia vero e falso, conta l’effetto, l’ondata emotiva, la curvatura dello spazio della comunicazione, il suo impatto sui leader delle cancellerie europee e sul dibattito interno delle nostre democrazie assediate dall’ignoranza furiosa dei social media. Macron ha già ceduto alla teoria della resa, si è piegato sperando di incassare i voti degli utili idioti di Hamas. Riconoscere oggi lo Stato palestinese sarebbe la loro più grande vittoria.

La campagna sulla fame nella Striscia è la più insidiosa dall’inizio della guerra, Hamas punta sulla crisi umanitaria per sospendere il conflitto, riorganizzare le sue milizie, riprendere il controllo sull’economia di Gaza e dell’intera Striscia. Il Washington Post ha riportato il 21 luglio scorso che Hamas trae profitto dagli aiuti che ha sottratto e «punta sulla crisi umanitaria per porre fine alla guerra», usa la fame come un’arma per tornare al sistema di distribuzione dell’Onu, il mezzo più veloce per rimetterlo nelle mani di Hamas- che ha i suoi «uomini in tutti i magazzini» dove vengono stoccati gli aiuti.

Hamas con il ritiro di Israele e il ritorno al sistema corrotto delle Nazioni Unite avrebbe in un colpo solo i fucili e il pane, il monopolio della forza e del cibo, il potere di vita e di morte sui palestinesi.

L’unica soluzione passa per la collaborazione leale dell’Onu con gli israeliani e gli americani, non ci sono altre vie, l’alternativa è la consegna di Gaza agli aguzzini di Hamas. Non a caso la propaganda si sta facendo sempre più intensa, ieri l’Ufficio governativo per i media che è guidato da Hamas, non da un club di filantropiha affermato che 100 mila bambini di età non superiore ai due anni rischiano di morire entro pochi giorni a causa del «disastro umanitario senza precedenti provocato da Israele». Verifiche sulla bontà di queste informazioni? Zero. Questa “verità” passa nelle televisioni e viene impaginata dalla rotativa unica della carta stampata con il corredo di pensosi commenti, Hamas detta la linea e il giornalismo con la schiena dritta si piega e ringrazia, il bersaglio della cattiva coscienza dell’Occidente che odia l’Occidente è solo uno, Israele. La guerra sull’ottavo fronte è la più lunga, la più dura, la più pericolosa.

27 luglio 2025

RASSEGNA STAMPA a cura di REDAZIONE – ETICA A.c.

Restare o lasciare Gaza?

I palestinesi si interrogano sulla "migrazione volontaria" proposta da Israele

di Abdel Kareem Hana - 30 luglio 2025

Euro news

 

Il piano israeliano è stato accolto da un ampio rifiuto dei palestinesi e delle organizzazioni internazionali. L'Onu denuncia che lo sfollamento forzato di popolazione da un territorio occupato è un crimine di guerra.

I governi di Israele e Stati Uniti hanno annunciato mesi fa, suscitando ampie polemiche, di avere approvato  un piano per il futuro di Gaza che include la "migrazione volontaria sicura" dei residenti di Gaza verso altri Paesi.

Per questo obiettivo, Israele ha pensato di costituire un dipartimento speciale per organizzare la partenze, sulla base di una proposta presentata dal ministro della Difesa israeliano, Yisrael Katz, e approvata dall'esecutivo.

Secondo una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio, la nuova amministrazione avrà il compito di coordinare i trasferimenti in collaborazione con le organizzazioni internazionali e le parti interessate, supervisionando l'organizzazione delle partenze compreso dall'aeroporto israeliano di Ramon e i necessari controlli di sicurezza che consenta il trasferimento via terra, mare e aria verso Paesi terzi.

Ma come vedono i palestinesi il loro futuro a Gaza e come considerano le richieste di lasciare la Striscia?

 

Una vecchia politica da Dayan a Netanyahu.

L'annuncio del piano è coinciso con le espulsioni e le evacuazioni all'interno della Striscia di Gaza, cui la popolazione è stata costretta per i bombardamenti e le offensive militari di terra di Israele.

La gran parte dei palestinesi ha vissuto traumi ripetuti di abbandono forzati di case e terre a partire dalla Nakba, la "catastrofe" seguita al conflitto arabo-israeliano nel 1948.

Varie organizzazioni umanitarie hanno messo in guardia sull'emergenza immediata, ma anche per le conseguenze a lungo termine, parlando del rischio sotto la dicitura "volontario" di un programma di sfollamento forzato della Striscia.

Alcuni hanno parlato di una "pulizia etnica" dei palestinesi in corso a Gaza e in Cisgiordania. Le Nazioni Unite hanno confermato che la "migrazione volontaria" non ha alcuna legittimità e che lo spostamento di popolazione civile è un crimine secondo il diritto internazionale.

Sulla stessa linea le organizzazioni non governative per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch, che hanno chiesto di rispettare il diritto dei palestinesi a rimanere nella loro terra.

Sebbene la retorica ufficiale israeliana presenti il nuovo piano come una risposta umanitaria, le radici dell'idea risalgono a decenni fa.

Il 12 giugno 1967, dopo la cattura di Gaza, l'allora ministro della Sicurezza israeliano Moshe Dayan descrisse la Striscia come un "problema complesso", segnalando la percezione negativa che Israele aveva della regione.

Durante la firma degli Accordi di Oslo negli anni '90, l'allora primo ministro Yitzhak Rabin espresse il desiderio di "andare al mare o annegarci dentro", esprimendo il desiderio di separare completamente la Striscia di Gaza da Israele.

Durante questa guerra, il primo ministro israeliano Netanyahu ha proposto all'ex segretario di Stato americano, Anthony Blinken, il 12 ottobre 2023, la creazione di un corridoio umanitario per "trasferire i residenti di Gaza in Egitto".

Questa proposta è stata accolta con le iniziali riserve degli Stati Uniti, seguite da una dichiarazione più decisa da parte del ministro degli Affari Strategici, Ron Dermer. "Non ci sarà alcuna crisi umanitaria a Gaza se non ci saranno civili", ha detto Dermer.

Queste frequenti dichiarazioni dimostrano che ciò che viene offerto oggi come soluzione temporanea o "corridoio umanitario" è il culmine di una politica israeliana che vede Gaza come un peso demografico e un rischio strategico da eliminare.

 

Sfollamenti iniziali e crescenti voci di migrazione con l'intensificarsi della guerra.

Con lo scoppio della guerra nella Striscia di Gaza seguita agli attacchi di Hamas in Israele il 7 ottobre 2023, più di 120mila palestinesi per lo più con doppia cittadinanza hanno lasciato la Striscia attraverso il valico di Rafah verso l'Egitto e altri Paesi.

Si stima che il numero di palestinesi con doppia cittadinanza a Gaza sia circa 300mila, il che riflette l'entità della popolazione che teoricamente ha la possibilità di andarsene.

Con l'intensificarsi delle operazioni militari, della devastazione e della malnutrizione, tra i palestinesi di Gaza si è parlato sempre più spesso di andare via per sfuggire alla morte.

Finché è stato possibile alcuni hanno pagato migliaia di dollari ad agenzie egiziane per lasciare la Striscia, ma molti hanno rifiutato categoricamente l'idea, riflettendo una profonda divisione sociale sul futuro della Striscia di Gaza e della sua popolazione.

Per Hamas, che governa Gaza dal 2005 con un potere pressoché assoluto sui suoi oltre due milioni di abitanti, i piani proposti per il futuro della Striscia sono volti a "liquidare la causa palestinese".

 

"È più facile morire qui che andarsene".

Seduti in una tenda a Deir al-Balah, nella Striscia di Gaza centrale, Mohsen al-Ghazi, 34 anni, sfollato dall'area di Juhr al-Dik, racconta a Euronews la sua tragedia, simile alle storie di migliaia di palestinesi le cui vite sono state distrutte dai bombardamenti israeliani.

Al-Ghazi ha perso la casa, il figlio maggiore e i suoi genitori finora eppure insiste a rimanere a Gaza e rifiuta categoricamente l'idea di emigrare. "Non lascerò questa terra", dice, "è più facile morire qui che dare all'occupazione l'opportunità di realizzare le sue bugie".

L'uomo - che come tutti i palestinesi si riferisce a Israele come un potere occupante - sottolinea che la sua posizione non è frutto di emozione ma è dettata da convinzioni religiose, politiche e morali, tanto da rifiutare a maggior ragione l'idea di un esodo di massa dalla Striscia, che viene presa in considerazione dai più giovani.

"Anche se l'occupazione mandasse delle navi per trasportarci, io non me ne andrei", spiega Al-Ghazi, "la salvezza individuale significa abbandonare la nostra responsabilità di difendere questa terra".

Nel campo di Nuseirat, Sami al-Dali, 45 anni, la pensa allo stesso modo ma non condanna chi decide di andarsene. "A ciascuno il suo, chi se ne va può tornare o servire la causa dall'estero".

Sfollati a Gaza: "Non ce la facciamo più"

 

Alla luce della guerra in corso e del deterioramento delle condizioni umanitarie nella Striscia di Gaza, Bilal Hassanin ritiene invece che l'opzione dell'emigrazione sia diventata una "necessità urgente", nonostante la sua difficoltà.

Hassanin ha dovuto sfollare più volte dopo la distruzione della sua casa ed è costretto a usare le stampelle per via di una ferita subìta nei pressi del corridoio di Netzarim.

"Ho perso tutto. Non posso più completare i miei studi universitari, non ho cibo, né acqua, né elettricità", dice a Euronews, "la Striscia di Gaza è stata distrutta e le possibilità di costruire un futuro qui diminuiscono di giorno in giorno".

Il sogno del giovane palestinese è di trovare un ambiente sicuro al di fuori di Gaza che gli permetta di ritrovare la sua vita e realizzare i suoi sogni, come dice anche Zakaria Farajallah, ferito già tre volte durante quasi due anni di guerra.

"Sto cercando di ottenere un'opportunità di cura all'estero, ne approfitterò per chiedere asilo, perché la Striscia di Gaza è diventata un luogo terrificante e invivibile", dice Farajallah.

Sua moglie, Hanin Akl, aggiunge che rimanere è quasi impossibile, soprattutto per i due figli e per il terzo in arrivo. "Abbiamo perso la nostra casa e abbiamo viaggiato da un campo profughi all'altro", ricorda la donna, e i problemi fisici di mio marito hanno aumentato le nostre sofferenze. Abbiamo urgentemente bisogno di un ambiente sicuro per noi e per i nostri figli".

Akl, che è laureata ma senza occupazione anche prima del conflitto, spera di costruire un futuro più stabile per lei e la sua famiglia oltre la guerra, ma fuori dalla Striscia di Gaza.

 

 

 

RASSEGNA STAMPA a cura di REDAZIONE – ETICA A.c.

Di Dario D’Angelo, X, 26 luglio 2025

 

 

Svolta a Gaza: Israele e i 3 "metodi alternativi" per liberare gli ostaggi.

Conoscete il paradosso del gatto di Schrödinger?

 

Nella calura estiva, nell'assuefazione a un meccanismo andato in scena ormai decine di volte - quello per cui un accordo di cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi viene descritto come "mai così vicino", salvo naufragare a poche metri dal traguardo - la svolta delle ultime ore rischia di passare inosservata. Eppure tra ieri e oggi occorre registrare un cambio di passo notevole nell'approccio di Israele e, non meno importante, degli Stati Uniti alla questione "guerra a Gaza".

A conclamare l'esistenza di un "fatto nuovo" è stato per primo Steve Witkoff, inviato speciale della Casa Bianca. L'uomo di Donald Trump per i negoziati in giro per il mondo (anche più del Segretario di Stato, Marco Rubio), è uscito allo scoperto con una dichiarazione senza precedenti dal punto di vista americano.

Quale? Eccola di seguito: «Abbiamo deciso di richiamare il nostro team da Doha per consultazioni, dopo l’ultima risposta di Hamas, che dimostra chiaramente una mancanza di volontà di raggiungere un cessate il fuoco a Gaza. Nonostante gli sforzi significativi dei mediatori, Hamas non sembra agire in modo coordinato né in buona fede. Ora valuteremo opzioni alternative per riportare a casa gli ostaggi e cercare di creare un ambiente più stabile per la popolazione di Gaza. È un peccato che Hamas abbia agito in modo così egoista. Rimaniamo determinati a porre fine a questo conflitto e a raggiungere una pace duratura a Gaza».

Adesso, prima di entrare nel merito della svolta, è importante notare un fatto: nella giornata di ieri, quando la risposta (negativa) di Hamas alla proposta di cessate il fuoco era già arrivata a destinazione, funzionari israeliani avevano sì confermato la decisione di richiamare il team negoziale precedentemente inviato a Doha, ma prendendosi la briga di precisare che il rientro in patria della delegazione non significava un fallimento dei negoziati.

Si trattava di una mossa tattica attentamente studiata dal governo israeliano: temendo la reazione dell'opinione pubblica, stanca della guerra e desiderosa di riportare a casa gli ostaggi, Gerusalemme non voleva far passare il messaggio che i negoziati fossero arrivati a un punto morto.

Ma poi è arrivato Steve Witkoff.

L'inviato della Casa Bianca ha sparigliato, dicendo semplicemente la verità, a costo di far saltare la narrazione israeliana: gli Stati Uniti credono che non vi sia un interlocutore con cui negoziare.

Secondo quanto riportato da Canale 12, di certo non una fonte di informazione famosa per essere tenera nei confronti di Bibi Netanyahu, Hamas ha insistito su questo punto: al giorno 61 del cessate il fuoco di 60 giorni, Israele dovrà deporre le armi e non riprendere la guerra. Con o senza accordo su come porre fine alla guerra.

Per comprendere questa mossa, Canale 12 cita fra le altre cose la dichiarazione congiunta firmata qualche giorno fa da 28 Paesi, quella in cui si affermava che la guerra a Gaza "deve finire ora".

La conclusione è la seguente: «Non dovrebbe sorprendere nessuno che la pressione esercitata da quei Paesi su Israele affinché continui a fare concessioni abbia avuto l'unico effetto di irrigidire ulteriormente la posizione di Hamas».

L'esempio portato è quello del famoso esperimento mentale di Schrödinger: un gatto è chiuso in una scatola con un meccanismo che può ucciderlo, ma finché nessuno apre la scatola, il gatto è simultaneamente vivo e morto. È in uno stato di sovrapposizione: le due possibilità coesistono fino a quando l'osservazione non le risolve.

Applicato al negoziato, il paradosso si traduce nel fatto che un accordo per il rilascio degli ostaggi è "quasi fatto" e allo stesso tempo non lo è affatto, proprio come il gatto è vivo e morto contemporaneamente.

Questo genera un'illusione di vicinanza a un accordo che in realtà non esiste.

Se Hamas crede ai resoconti ottimistici, pensa che l'accordo sia vicino e può quindi tirare ancora la corda, fare nuove richieste, ritardare.

Se Hamas legge i media israeliani e occidentali, capisce che la pressione dell'opinione pubblica è su Israele, non su di loro. Quindi può permettersi di resistere ancora, contando sul fatto che sarà Israele a cedere.

Questa ambiguità strategica, alimentata da dichiarazioni premature, media spesso compiacenti e pressioni diplomatiche inefficaci, toglie a Israele qualsiasi leva reale e consente a Hamas di rimanere in una posizione di attesa attiva, come se il "gatto-accordo" fosse ancora "vivo", quando in realtà è probabilmente morto.

Ma allora, per tornare alla svolta di cui sopra, cosa vogliono dire le parole di Witkoff?

Il caso vuole che a un giorno di distanza, queste dichiarazioni siano state riprese alla lettera anche da Bibi Netanyahu. Il primo ministro israeliano ha chiarito: «Valuteremo metodi alternativi per riportare a casa gli ostaggi».

Domanda: quali possono essere questi metodi alternativi? Qui si entra nel vivo. La sensazione è che i prossimi giorni possano essere decisivi.

Al momento sono tre le opzioni che il Blog ritiene abbiano una maggiore probabilità di essere attivate da Israele. Tutte, in modi diversi, rappresenterebbero un'escalation e una rottura rispetto agli approcci perseguiti fino a oggi.

La prima ha a che fare con una delle notizie più importanti degli ultimi giorni, quella che ha visto l'esercito israeliano avviare operazioni terresti nell'area di Deir al-Balah per la prima volta dall'inizio della guerra. Si tratta di una notizia passata forse in secondo piano in Italia, ma che ha suscitato non poca apprensione anche nelle famiglie degli ostaggi. Perché? Perché è l'area in cui si ritiene che Hamas e le altre organizzazioni terroristiche della Striscia tengano imprigionati gli ostaggi.

L'idea è che il governo israeliano, preso atto dell'indisponibilità di Hamas a chiudere un accordo, possa decidere di lasciare da parte la prudenza, autorizzando delle rischiose operazioni di salvataggio con le sue forze speciali. Si tratterebbe di un azzardo? Sicuramente sì, ma i sempre più frequenti incidenti operativi che vedono come vittime i soldati israeliani sono indice di un grado di stanchezza elevato, in particolare tra i riservisti, che Israele non può permettersi di ignorare sul lungo termine. Traduzione: in un senso o nell'altro Israele potrebbe ritenere necessario chiudere i conti.