MODIGLIANI - ZADKINE: RETROSPETTIVA DI UN'AMICIZIA

Di LÉA TAIEB

Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

Dicembre 2024

 

Modigliani e Zadkine erano amici negli anni '10. Uno scelse la pittura, l'altro la scultura. Le loro produzioni interagiscono, si influenzano e si potenziano a vicenda. Dopo la morte prematura del pittore, Zadkine parla, in più occasioni, per far rivivere la personalità di Modi, l'artista che si diceva fosse maledetto. È quanto ci invita ad esplorare la mostra “Modigliani/Zadkine. A Friendship Interrupted” al Museo Zadkine, fino al 30 marzo 2025.

 

Percorriamo rue d’Assas lungo i Giardini del Lussemburgo. Una zanzariera, un'insegna, una rientranza, un'altra porta. Si apre la casa-laboratorio-giardino di Valentine Prax e Ossip Zadkine, divenuta museo nel 1982. Arriviamo con un po' di ritardo, giusto in tempo per il racconto del loro incontro avvenuto nel 1913. Amedeo Modigliani, a Parigi dal 1906, e Zadkine, dal 1910, si conoscono quell'anno. Come molti “Montparnos”, nome dato agli artisti che lavorano nel quartiere, sono sradicati, esuli la cui lingua a volte è diversa. "Parlava il francese molto meglio di me, concludendo le sue frasi ironiche con un riso sordo", scriveva Zadkine del suo compagno, in un manoscritto inedito risalente agli anni '50 e '60.

Modigliani nacque a Livorno da una famiglia ebrea “molto colta e non credente”. Zadkine, originario di Vitebsk (città oggi situata in Bielorussia), fu cresciuto da genitori ebrei senza beneficiare di un'educazione religiosa. Si dice che avrebbero voluto rinnovare l'arte ebraica, ma non troviamo traccia di scambi sulla loro ebraicità, sul loro desiderio di presentarsi come artisti ebrei.

Vivono a Parigi per darsi i mezzi per realizzare le proprie ambizioni, Modigliani progetta le sculture che presto creerà, Zadkine si mette al servizio della materia nello spirito degli intagliatori della pietra e del legno. Sulla stessa lunghezza d’onda, cercano di reinventare rappresentazioni, tratti del viso, espressioni per dare vita a nuove estetiche più “primitive”. La “Testa di donna” di Modigliani (1911-1913) appare con un'espressione soddisfatta, uno sguardo assente (perché non ci sono pupille) e una bocca cucita, rappresentazione incompiuta di ciò che l'artista aveva immaginato. La “Testa eroica” di Zadkine (1909-1910) è difficilmente staccabile dal granito, il cranio è irregolare, i lineamenti sonnolenti. All'interno della mostra, le opere di Modigliani, detto Modi, vengono accostate a quelle di Zadkine così da farci comprendere il “passaggio di testimone”, la filiazione. “Zadkine ha imparato da Modigliani, ha imparato che si poteva disegnare una scultura. E questi volti modiglianeschi lo seguiranno fino agli anni ’20”, analizza Thierry Dufrêne, curatore della mostra e professore di storia dell’arte contemporanea. Ci concentriamo sulla Sacra Famiglia (1912-1913), tre volti raggruppati insieme, che trovano il loro posto nell'assenza di spazio, tre inseparabili. È tutto rilassante.

La Prima Guerra Mondiale segna l’inizio della fine. Zadkine si unì alla Legione Straniera nel 1915. Tornò gasato, riformato e con il morale a terra. Modigliani, la cui fragile salute gli impediva di combattere, si immerse nell'abuso di alcol e hashish. Nel 1917-1918 i due artisti si incontrarono di nuovo ma si creò un divario: Modigliani mise da parte la scultura per la pittura, su consiglio di Paul Guillaume, amico e mercante d'arte, Zadkine ebbe l'impressione di un tradimento, di una rinuncia. Come se fosse stato abbandonato a se stesso, da solo in una situazione ostile. Modigliani cominciò a guadagnare notorietà, i suoi nudi femminili crearono follia e scandalo: durante la sua prima mostra nel 1917, un curatore s’indignò per la rappresentazione di un pelo pubico su un corpo femminile e chiese la chiusura della galleria Berthe Weill. “Zadkine nota che si inizia a trattare Modigliani sempre più attentamente, nota il cambiamento nei comportamenti, che definisce 'una signora speculazione', traduce Cécilie Champy-Vinas, conservatrice capo del patrimonio e direttrice del museo Zadkine. Lo scultore – allora bisognoso di riconoscimento – si ostina a scolpire come “se fosse caduto nell’argilla da bambino”.

In questa parte della mostra, la natura sensuale dei nudi di Modigliani (del periodo dei cabaret di Montmartre) contrasta con la “pudicizia cubista” dei corpi di Zadkine creati dopo la morte di Modi. Ci avviciniamo a “Nudo su un divano” (1916-1917), un disegno di Modi in via di cancellazione, una donna nuda si rilassa e sonnecchia su un divano appena abbozzato. È inedito contemplare un disegno che avrebbe potuto svanire nel nulla, come tanti altri.

Più avanziamo nella mostra, più ci avviciniamo alla fine. Più ci avviciniamo al 24 gennaio 1920, giorno della morte di Modigliani all'età di 35 anni. Rallentiamo il ritmo per catturare lo spirito dei tempi, per congelare le discussioni tumultuose tra i due amici , Chana Orloff, Chaïm Soutine, Max Jacob e André Salmon, per contrastare il destino, la meningite tubercolare dalla quale Modi non si riprenderà. Per dimenticare che l'artista è divenuto un mito dopo la sua scomparsa.

Modigliani aveva l'abitudine di ritrarre la sua banda della scuola di Parigi, essi abbozzavano i loro volti su un foglio di carta sciolto come gesto di amicizia. Aveva anche l'abitudine di scambiare i suoi schizzi con caffè o pranzi al ristorante Chez Rosalie (disegni che a volte finivano divorati dai topi, come racconta Zadkine). Intorno al 1913, Zadkine era stato disegnato dal suo amico e aveva conservato con cura questo pezzo di carta, “la nostra Gioconda”, si rallegra il direttore del museo, “e il segno che dava un posto speciale alla loro relazione”. Fino alla fine della sua vita, Zadkine conservò quindi il ricordo della loro amicizia, lo sguardo di Modigliani con il suo taglio a scodella e le sue sopracciglia finemente marcate. Non lontano dal prezioso ritratto, il busto di Modigliani di Chana Orloff avanza, le mani sui fianchi, lo sguardo lontano, l’espressione determinata. A sinistra, una fotografia scattata nel 1929 da Man Ray della maschera mortuaria di Amedeo realizzata dallo scultore Lipchitz. Ancora una volta questi documenti – archivi, fotografie, opere – evocano il fantasma di Modigliani nelle peregrinazioni artistiche di Zadkine.

Dal 1930, a Zadkine viene chiesto di ripercorrere il percorso di Modigliani, di ricordare l'impronta lasciata nella sua opera come nell'arte moderna, quella di un uomo “in fondo semplice ma orgoglioso, audace ma esaltato”, scrive nelle sue Memorie.

 

 

 

 

 

 

 

Filosofi medievali, gesuiti dell’epoca barocca, visionari illuministi: i padri insospettabili dell’Intelligenza Artificiale.

Il saggio di Dennis Yi Tenen “Teoria letteraria per robot”.

 

Che l’Intelligenza Artificiale sia destinata a rendere obsoleto il lavoro e, in un futuro prossimo, a prendere il sopravvento sull’intelligenza umana (e, forse, sulla nostra stessa volontà) è ormai la narrazione protagonista - e ansiogena - di questo momento storico. Ma Dennis Yi Tenen, ex ingegnere informatico per Microsoft, oggi docente di letteratura comparata alla Columbia University, a New York, ci racconta un’altra storia.

Intervenuto al Learning More Festival di Modena, parlando del suo libro “Teoria letteraria per robot - Come i computer hanno imparato a scrivere” (edito da Bollati Boringhieri), presenta una serie di scenari alternativi, prima di tutto letterari: li si può introdurre citando una delle frasi chiave di cui è disseminato questo brillante saggio. “Sono venuto a dirvi che da secoli le macchine stanno diventando sempre più intelligenti, molto prima dei computer… attraverso retorica, linguistica, teoria letteraria”, spiega il professor Yi Tenen: la storia del progresso tecnico e tecnologico – sottolinea - è strettamente legata alle conoscenze umanistiche e alla stessa letteratura. “Non quella con la L maiuscola”, ma quella ordinaria, come scrivere una email, oggi, oppure una lettera sulla pergamena, secoli fa. Essere intelligenti, infatti, significa pensare attraverso una molteplicità di strumenti: è un’abilità che racchiude un insieme di “poteri mentali, fisici, strumentali e sociali”.

Il professore della Columbia compie un vertiginoso percorso tra gli strumenti creati nel corso della storia per raccogliere ed elaborare il sapere. Sapere che – evidenzia - è sempre un’opera collettiva e che ha bisogno di innumerevoli supporti, in continua evoluzione. Tanti sono gli esempi del legame tra hi-tech e saperi umanistici. Per esempio, l’Organum Mathematicum, progettato nel XVII secolo dallo studioso gesuita Athanasius Kircher, che mirava a creare una sorta di enciclopedia portatile e, allo stesso tempo, un sistema di classificazione del sapere universale. Senza dimenticare la zairja, nel Medioevo arabo: era un dispositivo utilizzato dagli astrologi del tempo che, attraverso una tecnica matematica, combinava i valori numerici associati alle lettere e alle categorie allo scopo di fornire idee e soluzioni.

Gli esempi raccolti sono molti, passando anche per Leibniz e Ada Lovelace, e servono per evidenziare che l’intelligenza, che oggi definiamo artificiale, (artificiale deriva dal latino ars, inteso come lavoro ben fatto e facere, come fare), è sempre stata tale, perché è il risultato di un processo sociale complesso, fondato sull’interazione tra tecnica e discipline umanistiche, tra algoritmi e lettere dell’alfabeto. Il tutto in una dimensione di collaborazione e di creatività collettive. Cooperazione è il termine di riferimento: eppure - sottolinea Yi Tenen - non si utilizza mai quando ci si riferisce all’IA, preferendo una sorta di soggettività che non esiste, quasi a volere escludere la responsabilità collettiva.

Non è il computer a essere intelligente, ma gli esseri umani che l’hanno creato e lo stesso principio vale per i linguaggi come ChatGPT, che rappresenta solo un nuovo – e non l’ultimo - capitolo di una lunga storia. “Teoria letteraria per robot”, quindi, è un vero e proprio viaggio nel lato non oscuro, ma nascosto, dell’IA e dell’intelligenza umana: la filosofia araba medievale è legata ai romanzi pulp americani e i grandi romanzi dell’Ottocento ai sistemi di controllo aereo addestrati sui racconti popolari russi.

“Dall’inizio della scrittura e della composizione esiste una tradizione antica basata su regole e algoritmi”, ci racconta Yi Tenen, sottolineando che il fenomeno del digitale è in realtà un processo storico: ci accompagna da secoli, come l’atto di scrivere e di consultare un dizionario e, oggi, il correggere o completare automaticamente un frase di testo dall’Intelligenza Artificiale. Questa, perciò, è il culmine di uno sforzo umano collettivo che coinvolge “una squadra di studiosi e programmatori che estendono la loro azione attraverso il tempo e lo spazio grazie alla tecnologia”. La tecnologia, quindi, “porta dentro di sé un lungo elenco di collaboratori”.

Dunque cosa fare? Dobbiamo avere timore degli sviluppi dell’IA? Che possa toglierci il lavoro? Lo scrittore non nega che l’intelligenza artificiale automatizzerà alcune mansioni, togliendo valore a quel determinato lavoro e che avrà un impatto anche su quello intellettuale, ma se invece ci aiuterà a risolvere problemi difficili, al contrario, il valore aumenterà. Il punto del saggio, però non è questo: “Il pericolo dell’IA non sta nella sua autonomia immaginata, ma nella complessità delle cause… se vogliamo mitigare le conseguenze sociali è fondamentale riuscire a mantenere intatta la catena delle responsabilità”.

 

La Stampa, Paolo Travisi, 20 Novembre 2024

 

 

 

 

 

 

I rabbini italiani (e non solo) contro il Papa che parla di “genocidio”: «Israele aggredito visto come aggressore».

di  Ester Palma, 20 novembre 2024 CORRIERE DELLA SERA

 

Il mondo ebraico compatto contro le dichiarazioni di Francesco. Anche l'Ari,  l'Assemblea rabbinica italiana scende in campo per commentare in una nota le riflessioni del Pontefice contenute nel suo nuovo libro «La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore».

Nel volume, a cura di Hernaín Reyes Alcaide (Edizioni Piemme), il Papa dichiara: «A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s'inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali».

 

Parole che hanno sconcertato anche una parte del mondo cattolico.  

 

«Le parole sono importanti e bisogna stare molto attenti a come usarle, soprattutto se si svolge un ruolo di guida religiosa», sottolineano i rabbini italiani - citati dal portale Moked/Pagine Ebraiche -, ricordando come gli ebrei, nel corso della loro storia, siano stati accusati «di varie cose tra cui il deicidio e l'omicidio rituale e trasformati in simbolo del male, in personaggi sanguinari», con conseguenze devastanti. 

I rabbini aggiungono, riferendosi ai vari fronti di guerra aperti in Medio Oriente:  «Tutti vorremmo che la guerra finisse al più presto, che finissero le ostilità, che non ci fosse più la possibilità di un nuovo massacro come quello del 7 ottobre, che finissero le morti degli innocenti e che venissero finalmente liberati gli ostaggi». In questo senso, «l'invocazione alla pace ci accomuna». Ma non basta: «Il modo peggiore di perseguire la pace è considerare le colpe in modo unilaterale e trasformare gli aggrediti in aggressori o addirittura in vendicatori sanguinari». 

Anche il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni nell'intervista di oggi a Paolo Conti lo conferma: «Dal 7 ottobre in poi c'è stata una escalation: il riferimento al genocidio è un nuovo gradino, il più alto. Le critiche del Papa a Israele sono una questione molto complessa: di orientamento politico e di indirizzo morale: additare una intera collettività come responsabile di genocidio è molto rischioso. Il popolo ebraico, con la Shoah, è stata vittima di un vero genocidio. E  la volontà genocidaria era di chi il 7 ottobre ha attaccato Israele».

E aggiunge: «Si può discutere se ci siano stati comportamenti scorretti o eccessi. C’è chi parla di crimini di guerra: ma la stessa guerra è un crimine, porta morte e distruzione. Però non si può criminalizzare solo una parte, un intero popolo impegnato a battersi perché orrori come il 7 ottobre non si ripetano, mentre l’Iran insiste col suo progetto di distruzione atomica totale  di Israele. Propositi che vengono dati per scontati, considerati con leggerezza, persino giustificati, quindi meno gravi».

 

Anche Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma per 8 anni, fino al 2023, in un'intervista alla Stampa usa toni duri: «Le parole del Papa sono insidiose, perché legittimano una propaganda anti-israeliana basata su una campagna d'odio che ha effetti reali sull'aumento dell'antisemitismo». Il Papa conosce l'effetto delle sue parole, soprattutto se messe per iscritto. La diplomazia vaticana è famosa per la sua cautela, quindi siamo di fronte a una scelta meditata e a una strategia chiara. Mi chiedo come mai tanta debolezza verso i regimi autocratici come Russia, Cina e Iran e così tanta determinazione verso uno Stato più piccolo della Lombardia che è sotto costante attacco dei vicini. L'unico nell'area dove i cristiani hanno eguali diritti e dignità».

E parla di strumentalizzazioni: «Un certo mondo arabo ha subito usato le parole del Papa per fare campagna antisemita. Senza contare che il Pontefice è il punto di riferimento per milioni di persone e le sue parole permeano nel tessuto sociale e nei rapporti con gli altri capi di Stato, considerata la sua funzione».

Ma le critiche a Francesco non vengono solo dall'Italia. 

Jonathan Megyeri, rabbino della Comunità ebraica unita di Ungheria, a Roma per un convegno sull'Olocausto e la diplomazia della Santa Sede in favore degli ebrei, commenta. «Se Israele avesse voluto commettere un genocidio avrebbe potuto bombardare Gaza dall'alto e senza alcuna vittima tra le fila del suo esercito e invece ha deciso di inviare delle truppe di terra, sapendo bene che ci sarebbero stati soldati uccisi. Israele sta sacrificando i suoi stessi soldati per proteggere i civili dai nemici, lo scopo è proprio quello di eradicare il terrorismo». E aggiunge: «Dobbiamo fare molta attenzione con ogni accusa, so che il Papa non sta accusando Israele di commettere un genocidio, Israele sarà aperta a qualunque investigazione, ma ora sta combattendo per la sua esistenza, da Gaza, dal Libano, dallo Yemen, dall'Iraq tanti movimenti jihadisti sono in azione. Io stesso stasera rientro a Gerusalemme e dovrò rinchiudermi in un rifugio anti-missili».

 

 

 

 

L’accusa di Ruth Dureghello: «Papa Francesco alimenta l’antisemitismo».

L'ex presidente della Comunità ebraica romana: mi chiedo come mai tanta debolezza verso i regimi autocratici.

Novembre 2024 - Alba Romano -  OPEN

 

Ruth Dureghello ha guidato la Comunità ebraica di Roma dal 2015 al 2023. Ha incontrato spesso Papa Francesco. Ed è rimasta colpita dal libro sul Giubileo in cui Bergoglio chiede di determinare se a Gaza sia in corso un genocidio. Anzi, «delusa. Il Papa conosce l’effetto delle sue parole, soprattutto se messe per iscritto. La diplomazia vaticana è famosa per la sua cautela, quindi siamo di fronte a una scelta meditata e a una strategia chiara. Mi chiedo come mai tanta debolezza verso i regimi autocratici come Russia, Cina e Iran e così tanta determinazione verso uno Stato più piccolo della Lombardia che è sotto costante attacco dei vicini. L’unico nell’area dove i cristiani hanno eguali diritti e dignità».

Dureghello, che parla in un’intervista a La Stampa, aggiunge che le parole del Pontefice «sono insidiose, perché legittimano una propaganda anti-israeliana basata su una campagna d’odio che ha effetti reali sull’aumento dell’antisemitismo». Mentre l’ambasciata di Israele che parla di genocidio è legittimata: «È la campagna filo-Hamas sul genocidio che ha lo scopo di delegittimare la memoria della Shoah paragonandola a una guerra, che per quanto atroce, come tutte le guerre, è ben lontana dal poter essere definita genocidio secondo le norme internazionali. L’intento di eliminare un popolo, al contrario, è di chi ha messo in campo l’attacco del 7 ottobre, che ricordo non era un semplice attentato, ma una dichiarazione di guerra cui il giorno successivo si sono aggiunti Hezbollah e Houti con la regia del regime iraniano».

E nel colloquio con Luca Monticelli Dureghello rigetta anche la tesi di Edith Bruck, secondo la quale il Papa non si è reso conto della gravità dell’affermazione: «Io penso che per formazione e caratura il Papa sappia bene il significato delle parole anche perché non è la prima volta che le pronuncia. Quando incontrò i famigliari degli ostaggi, organizzò subito dopo un incontro con i parenti dei detenuti palestinesi e nell’incontro privato emerse che utilizzò la parola genocidio, salvo poi arrivare il saggio tentativo del segretario di Stato Parolin di mediare. Ma come si fa a paragonare civili rapiti, donne stuprate e bambini sgozzati con chi ha commesso crimini e viene arrestato?». Mentre è vero che il Papa ha condannato l’antisemitismo, ma non quello di oggi «che mette in pericolo il futuro degli ebrei di domani».

Infine, secondo l’ex presidente della Comunità ebraica romana «il dialogo interreligioso è prerogativa dei rabbini e spetta a loro valutare come procedere. Mi permetto di dire che per dialogare bisogna essere in due e in buona salute. Se l’Iran, Hamas e Hezbollah provano a distruggere Israele e in Europa gli ebrei subiscono pogrom come quelli di Amsterdam il rischio che corriamo è che non ci sia nessuno con cui dialogare un giorno».

Mentre che le dichiarazioni dell’erede di Pietro siano strumentalizzate «è un fatto. Un certo mondo arabo ha subito colto la palla al balzo e utilizzato le parole del Papa per fare campagna antisemita. A questo aggiungiamo il fatto che il Pontefice è il punto di riferimento per milioni di persone e le sue parole permeano nel tessuto sociale, nelle case delle persone, tra i giovani, tra i fedeli, senza sottovalutare che il Papa quando parla lo fa anche rivolgendosi agli altri capi di Stato, considerata la sua funzione».

 

 

 

I rabbini europei choccati dalle parole di Papa Francesco sul genocidio: «Aumenterà l'antisemitismo»

 

Martedì 19 Novembre 2024, IL MESSAGGERO, di Franca Giansoldati

 

La Bibbia insegna (anche al Papa) «che le persone prudenti tengano a freno la propria lingua». Il crescente antisemitismo violento «conferma tristemente che ogni parola emessa da un importante leader ha conseguenze immense». Le parole di Papa Francesco sulla guerra a Gaza da lui ravvisata come un possibile «genocidio» al punto da aver chiesto alla comunità internazionale di indagare in tal senso, stanno scavando solchi profondissimi e inediti con il mondo religioso ebraico. Una crisi del genere non si ricordava da tempo. La Conferenza dei rabbini europei (CER) ha risposto al pontefice con parole durissime ricordando che è Hamas che «sta violando ogni norma del diritto internazionale» usando i civili come scudi umani, tenendo prigionieri ostaggi israeliani da oltre un anno e dopo aver massacrato, nel modo più bestiale, 1200 persone nel pogrom del 7 ottobre. 

 «Siamo profondamente turbati dall'affermazione di Papa Francesco secondo cui le azioni delle forze di difesa israeliane a Gaza dovrebbero essere attentamente studiate per determinare se si adattano alla definizione tecnica di genocidio come formulata da giuristi e organismi internazionali».

I rabbini sottolineano in un articolato comunicato che «Israele sta combattendo una guerra difensiva contro un nemico barbaro, una guerra certamente non provocata e  posta al di fuori di qualsiasi codice di legge o guerra occidentale. Sta anche combattendo per il ritorno di 101 ostaggi che sono ancora detenuti da Hamas nelle condizioni più disumane. Nonostante la sfida difficilissima di combattere un esercito di terroristi che opera intenzionalmente all'interno dei centri abitati civili, non si può affatto dire che Israele sta portando avanti un genocidio. Il sostegno del Papa a questa pericolosa proposta conferisce credibilità alla narrativa insidiosa propagata dall'Iran e dai suoi delegati attraverso le organizzazioni internazionali» si legge nel documento. 

 

I rabbini rammentano, inoltre, che quando la civiltà occidentale è sotto attacco da parte delle dittature, la leadership del Papa dovrebbe essere «chiamata a difendere la libertà e la democrazia». Quanto all'azione militare dell'esercito israeliano viene anche ribadito che mentre i militari dell'Idf sono impegnati alla difesa del diritto umanitario, «Hamas sta violando ogni norma di quella legge». 

I rabbini sono concordi nel ritenere che «Il termine genocidio è ora lanciato come un dispositivo di propaganda surrettizio, spostando la responsabilità dal colpevole alla vittima, dalle organizzazioni terroristiche allo Stato di Israele. L'omicidio di massa da parte di Hamas, come intensamente espresso nel loro Patto del Movimento di Resistenza Islamica già dal 1988, dimostra che a differenza di Israele, gli aggressori intendono assolutamente, così come hanno tentato e continuano a tentare, il genocidio» degli ebrei.  

 

 

 

 

 

Genocidio c'è stato, ma è fallito: era la scelta di Hamas quando ha attaccato il 7 ottobre, uccidere tutti gli ebrei

Il Papa, mentre tutto il mondo fronteggia la crescita violenta di un antisemitismo senza precedenti dalla seconda guerra mondiale, col suo nuovo libro La speranza non delude mai, Edizioni Piemme, fornisce legna per questo fuoco. Una linea è subito diventata titolo di testa in tutte le lingue: suggerisce che debba essere indagato un presunto, possibile, fors'anche opinabile genocidio compiuto da Israele sui palestinesi a Gaza. Il sottinteso è l'intenzione genocida, ed essa altro non può essere che criminale, e quindi la guerra di Gaza, in realtà una indesiderata guerra di necessità dopo un attacco spaventoso, sia compiuta con un'intenzione maligna, eventualmente anche meditata. Forse il Papa è stato mal consigliato da chi immagina che il mondo cui egli parla sia intriso di pietismo populista, folle che ormai marciano sulle città del mondo con violenza, in nome di un fronte in cui la democrazia e la libertà non hanno cittadinanza. Io non vedo così il mondo cristiano della gente normale, amica degli ebrei nel mondo democratico, che capisce invece che il termine «genocidio» porta sugli ebrei di tutto il mondo oggi un'ulteriore ondata di antisemitismo, disegna i cartelli su cui la Stella di David viene sostituita con la svastica mentre intorno folle inconsulte urlano «Free Palestine», si assomma alla sovrapposizione di ritratti di Hitler con quelli di Netanyahu mentre Erdogan urla ai media che sono uguali, è il titolo di al Jazeera o del Manifesto o persino del Guardian, tutti i giorni.

Tornare a quell'accusa incrementa la moda imbrogliona di aggredire Israele e gli ebrei per compiacere il terzomondismo dell'Onu, soddisfare l'Iran, Putin, i cinesi... di certo i social e i talk show impazziscono di gioia. E questa esortazione del Papa ha una ragione concreta d'essere? Nessuna. Non solo i numeri dei morti a Gaza non sono certificati, dato che la fonte, inverificabile, è sempre solo rimasta quella del ministero della Salute di Gaza: l'Onu, che pure ci ha balbettato sopra parecchio, ci ha dato un quarto dei 40mila morti che in genere vengono menzionati: accertati sarebbero 8.200. Invece l'unica cifra realistica, quella degli armati uccisi fornita da Israele, intorno ai 20mila, ci dice che la proporzione di civili uccisi, sarebbe uno a uno, la più bassa della storia. Israele, come nessun altro Paese ha fornito aiuti militari e sanitari a tonnellate, ha cercato di non colpire la popolazione civile con accorgimenti di ogni tipo, mentre le condizioni di guerra rispecchiavano le parole di Sinwar: il sangue dei loro civili (mai rifugiati nelle gallerie usate, come gli ospedali e le scuole, solo per la guerra) è servito come scudo e per suscitare solidarietà ai combattenti di Hamas.

Genocidio c'è stato, ma è fallito: era la scelta di Hamas quando ha attaccato il 7 ottobre, uccidere tutti gli ebrei. Il termine è stato coniato nel 1944 da Raphael Lemkin per descrivere le atrocità della Shoah e adottato nella legge internazionale del 1948 per criminalizzare «atti commessi con l'intento di distruggere un gruppo etnico raziale o religioso» e mai è stato usato per stigmatizzare Fatah e Hamas che promettono «la costruzione di una stato islamico e palestinese al posto di Israele». Al contrario, è difficile immaginare che Israele abbia mai avuto intenzioni simili avendo accettato la partizione territoriale sin dal 1948 e via via da Camp David (1978) al 1995 (Oslo). Altra cosa, e sarebbe frivolo il pensarlo, è sanzionare che Israele combatta per la sua sopravvivenza contro il terrorismo. E comunque la presenza araba in Israele è cresciuta del 1.182 per cento, mentre la presenza ebraica nei Paesi arabi è calata del 98,87 per cento. Là, sì, c'è stata la pulizia etnica. A Gaza la popolazione dal 1948 poi è cresciuta verticalmente, e solo dall'inizio della guerra è cresciuta di 130mila unità circa.

Il professor Robert Wistrich, il maggiore storico dell'antisemitismo, l'ha spiegato a fondo: l'«Holocaust inversion», il rovesciamento che fa degli ebrei i nuovi nazisti e dei palestinesi i nuovi ebrei, è la strada maestra nata con l'Urss e che dura fino a oggi. Sarebbe tragico che la Chiesa imboccasse questa strada. Il consiglio di una giornalista ebrea qualunque: quella riga sarebbe meglio rivederla.

Il Giornale, 18 novembre 2024